22 Novembre 2005

“Le pazze” di Daniela Padoan

A partire dall’ultimo libro di Daniela Padoan Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo (Bompiani, Milano 2005), martedì 22 novembre alla Libreria delle donne ha avuto luogo una discussione di riflessione sulla pratica politica dagli effetti inimmaginabili ‘inventata’ da queste donne straordinarie. Il testo è uno sguardo amorevole e acuto sulle Madres, dà loro parola e pone a noi interessanti quesiti e riflessioni sulla nostra pratica politica. Come possiamo, oggi e nel nostro contesto, assumere la responsabilità di ereditare una pratica politica e allo stesso tempo fare nuove invenzioni per agire e lottare nel presente?
Presente l’autrice che ha ampiamente discusso del suo lavoro e delle sue relazioni.
Hanno introdotto la discussione Liliana Rampello e Laura Colombo.

 

“Si tratta di un libro che ho letto con grande attenzione, mi piaciuto, lo considero bello intelligente e importante”. Liliana Rampello introduce così la serata e avvia la discussione.
“Bello perché scritto bene, capace di rimanere vicino all’esperienza delle emozioni che Daniela ha vissuto, emozioni che ci vengono restituite con chiarezza. Un libro che tiene con sé il caldo che questa scrittura riesce a trasmettere.
Intelligente per l’intreccio dei piani discorsivi: la storia dell’Argentina e le vicende che, insieme a ai fatti storici, Daniela ci racconta.
Importante perché va oltre quello che si pensa di sapere già. Le Madres sono state in Italia, le abbiamo conosciute e abbiamo discusso, il loro lavoro è noto. Questo libro va oltre perché, quello che almeno a me è capitato, è stata la possibilità di conoscere altre Madres (oltre la ‘famosa’ Hebe).
Importante inoltre perché ci fa riflettere anche sulle pratiche politiche che queste donne hanno inventato e soprattutto perché Daniela è stata in grado di restituirci il momento sorgivo, il modo in cui queste pratiche sono state inventate e quando. A me ha detto molto su una sorta di stanchezza dell’Occidente rispetto alla vivace esistenza che queste popolazioni sono in grado di restituirci. Per me questo libro è già politica, nel senso che, in questo luogo, abbiamo spesso affermato che narrare è assolutamente importante, che c’è necessità di racconto femminile. L’agire delle Madres e il modo in cui Daniela ce lo racconta sono esattamente questo: parlare, scrivere, scambiare. Significa aver capito che il linguaggio (parole, gesti e corpi) non è una forma inerte ma possibilità di modificazione, lettura, interpretazione della realtà che ci capita. Quando ho detto la parola ‘scambiare’ la riprendo perché Daniela, in questo libro, agisce uno scambio profondissimo con loro, pieno di rispetto e di amore. Questo scambio si presenta a noi nella forma del dialogo. Daniela ripropone le conversazioni e fa vedere da vicino come la domanda sia importante perché il dialogo si sviluppi davvero. Questa dev’essere consapevole, nuova, in qualche misura capace di guidare sotterraneamente l’altra a dire, nel modo più aperto possibile, la sua esperienza.
Nel fare questo difficilissimo lavoro dell’intervista, la sua presenza non è mai invadente, piuttosto è tenace perché sa porgere questo filo, sa spostare il problema, sa riaprire una questione, insistere su un ragionamento. Da un lato conduce, da un altro si lascia condurre, sapendo che tutto quanto tornerà a esser comune e si slargherà ulteriormente nella lettura di chi il libro leggerà. Un’operazione complicata che passa tra due, tra una e tante, che leggeranno il libro.
La postfazione è molto densa e intensa. Daniela convoca i suoi amici e le sue amiche. Incontriamo quindi Kakfa, Rielke, Harendt, Muraro, Kierkergaard, e altri che le sono stati a fianco mentre lavorava.
Quando l’ho letta, ho pensato che poteva essere l’introduzione. Ma non è così perché è una postfazione vera e propria non è un commento, né un riassunto, ma si tratta di prendere la parola in prima persona dopo un viaggio, nel suo caso, uno reale, quello che lei ha fatto in Argentina e quello interiore che l’Argentina ha fatto fare a lei e a me ha detto tanto”.
Cos’è cambiato per Daniela prima e dopo il viaggio? Questa la prima domanda di Liliana all’autrice.
“Poi ho guardato l’indice – continua ancora la relatrice- attento e perspicuo, nel senso che annoda ogni capitolo intorno a un elemento che può essere una frase, un simbolo oppure un evento o una questione. Ognuno di questi capitoli è introdotto con una riflessione storica e puntale, esauriente che rinvia a una quantità rilevante di fonti che lei ha letto. E’ seguita da più racconti con un loro titoletto specifico che, a sua volta di nuovo, riabbraccia in forma più particolare il tema generale. L’indice dice esattamente il movimento del testo, fa vedere i nuclei principali d’interesse ed espone la sua stessa disposizione.
I capitoli sono molto ricchi, indicano le tante scelte che Daniela ha dovuto fare, perché la scelta immagino fosse molto ampia”.
“Mi ha colpito l’insieme del testo. Ma ho comunque raggiunto un esito politico. All’inizio mi sono commossa perché c’è dolore, tragedia, la dittatura. Il libro però, continuando a leggerlo, mi ha aiutato a passare da questa commozione sim-patetica a una forma diversa che era la consapevolezza e la comprensione di quello che là era successo. E’ come passare dalla simpatia all’empatia. In questa ultima c’è uno spazio di conoscenza. Pur sollecitando l’emozione non la raffredda ma la colloca e questo è stato il lavoro primo delle Madres e di Daniela nel restituirci questo.
Il libro inizia con la presentazione di una famiglia. Si parla quindi della provenienza di queste donne, chi erano, la semplicità di vite comuni e, per questo, molto interessanti. Vite oneste povere in cui la dittatura sia imbatte con la sparizione di figli e figlie. Questo succede in modo incalzante.
L’orizzonte, all’inizio, è quello individuale, nero e vuoto. La violenza è segreta taciuta e negata.
Però mancano i figli, i corpi. La loro morte sembra irreale anche nella sua ripetizione (il sempre uguale che ritorna).
Nessuno ne risponde, a nessuno si può chiedere, si bussa alle porte di tutti che sono sempre gli assassini.
La complicità è ovunque soprattutto tra Stato e Chiesa. Quando noi parliamo della Chiesa dimentichiamo sempre il potere temporale di questa, ciò che ha fatto e che continua a fare. In complicità con le dittature. E ciò è avvenuto fino a qualche anno fa. Sembra, nei giornali italiani, che la Chiesa sia l’unico referente morale.
Anche questa è una strada di riflessione.
Questa complicità è stata anche internazionale e viene ben raccontata. Viene raccontato quando il mondo non vuole sapere e non vuole capire, quanto questo pesi nella situazione politica interna di un paese, i pesi su chi deve resistere una dittatura.
Il punto che emerge è questo: come fa un singolo ad affrontare un muro mille volte più alto di lui? Il racconto ci fa vedere la trasformazione di donne semplici, casalinghe, in donne che, fidandosi pian piano l’una dell’altra, hanno inventato un’arma potentissima contro il male, contro la morte. Daniela ci fa vedere come il silenzio si rompa attraverso parole, gesti semplici e invenzioni inaudite, quelle che nascono da un’inaudita risposta alla morte: camminare tutti i giorni, mettersi un fazzoletto bianco, rimettere al mondo i figli insepolti perché non si accetta che la loro morte coincida con la loro fine. Anche qui il ragionamento di Daniela è molto raffinato. Morte e fine possono non coincidere. Questa è una grande riflessione delle Madres. In Occidente si tende sempre a vedere la morte come il termine ultimo. Queste donne hanno capito che anche la morte può diventare, nel suo essere estrema, l’origine di una nuova vita. Si sono messe insieme contro chi le arrestava, distruggeva le loro case. Queste donne hanno lavorato e si possono dire rimesse al mondo dai loro figli. Tenere in vita loro il loro ricordo trasforma il lutto in una lotta”.
Cita una frase del testo: “non abbiamo letto Il capitale, abbiamo letto cose più semplici. Leggiamo dalla vita e apprendiamo dalle strade e dai nostri compagni, abbiamo interpretato la lotta dei nostri figli dalle cose piccole non dalle cose filosofiche…
…si, noi non abbiamo nulla a che fare con la morte. La vita è il significato profondo di tutto quello che facciamo, tutto ciò che è creativo ha a che fare con la vita e non con la morte…
Siamo così tranquille e così felici e guarda che contraddizione, perché stiamo facendo quello che loro stavano facendo, è per questo che sono dentro di noi e ci danno alla luce tutti giorni. ”
Le Madres rifiutano qualsiasi tipo di monumento e di memoriale – dice ancora Liliana -, molto diversamente dall’Olocausto. Rifiutano questo tipo di memoria, sostenendo il concetto di memoria fertile, cioè una memoria che non possa essere rinchiusa in nessun luogo, ma rimanga come si è sviluppata nei propri pensieri.
Quello che hanno costruito è la loro stessa vita, hanno costruito per altri e altre quello che i loro figli volevano per sé e tutti. Le Madres hanno operato un’invenzione di rapporti internazionali con altre donne e altri uomini con un rigore che ha qualcosa di ingenuo, rifiutando qualsiasi forma di turismo. Loro volevano viversi in una logica della visibilità e presenzialismo. Hanno intrecciato legami con altri movimenti di lotta dei loro Paesi.
E in questo intreccio c’è una riflessione implicita, non sempre detta, ma che vive nelle parole che loro dicono sul potere. Sono sempre riuscite a fuggire a tutte le sue trappole. Lo hanno guardato in faccia e ne hanno riso. ”
Liliana fa una precisazione: ridere non è una cosa semplice. “Perché in questo caso il riso viene dalla verità del dolore ed è una risata assoluta.
Nella postfazione Daniela sposta in avanti anche il famoso brano delle Tre Ghinee di Virginia Woolf. Questa parlava della derisione, del riso su tutto i paludamenti del potere maschile così come le si presentava dalla giustizia e dal comando militare. Ma Daniela, proprio su questo aspetto, dice: “quella delle madri è però una risata assoluta perché fatta di fronte al plotone che punta le armi al quale gridano: fuoco”.
Ora, di fronte a questo genere di cose, è ovvio che l’ordine è infranto ed è infranto perché si è dinnanzi alla morte che qui è una sorta di potenza di conoscenza.
Daniela rovescia un’altra grande eroina che è Antigone: “ne hanno rovesciato la lettura, saranno loro a non accettare che la polis ne accolga le spoglie, che dia loro una copertura simbolica, perché per loro non si dà polis che non accordi cittadinanza immanente agli scomparsi vivi per sempre”.
Improvvisamente c’è una lettura nuova di questi elementi: viene strappato all’ordine patriarcale l’ultimo velo. Questo ragionamento mette in questione un importantissimo lavoro di Foucault sul potere: l’autore passa dal potere tirannico al bio potere diffuso.
Qui il potere di vita è solo dalla parte delle Madres.
L’ultima questione è che queste donne sono donne che non perdonano. L’Occidente, con i suoi perdonismi, fa in modo che la conciliazione venga intesa nel modo più basso e compromissorio, per cui tutto sembra uguale. Posizionarsi è la più bella lezione”.

 

Laura Colombo interviene ponendo alcune questioni politiche a partire dalla lettura del libro: “Intanto qualcosa sul libro: molto bello, scritto bene e con una caratteristica che spicca, la polifonia. Che si gioca su differenti livelli, uno più manifesto che è quello che le madres dicono in prima persona, con la forza che riescono a trasmettere, e un livello più nascosto ma non meno importante, che è la relazione viva tra l’autrice e le madres, che rende possibile la loro espressione libera e autentica. La modalità che Daniela ha scelto, quella dell’intervista, è solo apparentemente neutra. Infatti lei sceglie attivamente di stare dalla parte delle Madri, senza tuttavia tesserne aprioristicamente le lodi.
Permette che la progettualità delle Madri si esprima, e mette in evidenza in che modo la loro rappresentazione del possibile o del desiderio ha fatto germogliare semi di libertà nel cuore della necessità più cruda.
Ma il punto che vorrei porre qui è un altro. E’ collegato a un accenno presente nel libro quando Daniela intervista una donna attiva nel movimento dei piqueteros. Vi leggo anche un frammento che può essere utile per capire.
Come saprete i piqueteros sono un movimento nato a seguito della fortissima crisi economica argentina, ed è un movimento di fatto nato dalle donne, i cui mariti avevano perso il lavoro.
C’è qui un rilancio del sapere delle madres, il tentare di ricercare un proprio modo di far politica mantenendo una relazione forte e feconda con le madres. Daniela chiede a Mariana Cruz: “Credi che in questo protagonismo femminile abbia contato il fatto che durante la dittatura fossero state le donne a scendere in piazza per manifestare?”. E lei risponde: “Certamente. Fin dagli inizi del nostro movimento abbiamo avuto rapporti con le Madri di Plaza de Mayo. Ci siamo rispecchiati molto nella loro lotta e abbiamo imparato da loro”.

 

Soprattutto mi ha colpita e coinvolta il tema della responsabilità. Dice infatti Mariana “Quando Hebe ci chiama figli o figlie, ci dà una grande forza, ci riempie di orgoglio, e allo stesso tempo ci carica di grandi responsabilità. Siamo le loro figlie e i loro figli, come lo erano i rivoluzionari desaparecidos. E poi è meraviglioso vedere Cota o Juanita con i loro novanta e passa anni, sempre così decise, cos’ attive. Per me che ho ventinove anni, significa che abbiamo scelto il cammino giusto”.
Mi ha fatto tornare alla memoria un incontro con le madres qui in libreria. Io chiesi a Hebe de Bonafini se ci fossero donne più giovani nel loro movimento, e come trasmettessero il loro sapere e le loro pratiche, e lei mi rispose “siamo solo madres”. Non c’è cooptazione, proselitismo etc. precisamente questo si ritrova nella risposta di Mariana: quelle che loro chiamano figlie devono fare la loro strada, si devono assumere la responsabilità della politica in prima persona. Anche facendo cose che non stanno nello stesso solco, anche se le strade sono differenti.
Mi è parso interessante ovviamente perché mette bene in evidenza la mia esigenza di ereditare delle pratiche senza emulare, il che implica la scommessa di assumersi la responsabilità dell’arrivare dopo…
Questa assunzione di responsabilità per me si traduce in alcune cose:
– innanzitutto nell’avere a cuore un luogo (che non è solo uno spazio fisico ma insieme di relazioni, di pratiche ecc) che per me è questo, la libreria, standoci però portando – tentando di portare – la mia differenza, insieme ad altre. E mi riferisco al sito, per esempio. Assumersi la responsabilità significa metterci energia, impegno, voglia di esserci, anche se non è sempre facile. Soprattutto stare in un luogo così segnato da una storia importante, insieme alle donne che l’hanno fatto nascere a partire dall’ascolto dei loro bisogni e che continuano a ricercare, esserci, lottare. Il rischio che vedo in questa prossimità è l’opposto dell’assunzione di responsabilità, cioè un lasciarsi prendere e avviluppare da tanta forza, senza esserci davvero. È anche una cosa molto umana questa. Trovi donne capaci che sanno cosa si deve fare e ti dicono chiaramente la strada da percorrere, cosa che da un lato è pacificatoria, ma dall’altro crea un malessere sordo, se non lo interroghi a fondo e con coraggio. E su questo punto il vecchio numero di via dogana “le ereditiere” – nell’articolo di Tonia de Vita in particolare – poneva il problema di come trovare una misura tra il distacco e l’eccessiva prossimità.
– Ecco che allora l’assunzione di responsabilità ha significato per me creare insieme ad altre uno spazio di riflessione, non in contrapposizione ma dove fosse possibile tentare di entrare in contatto coi nostri bisogni, le nostre verità, la nostra voglia di fare politica, la ricerca di senso, un’autenticità che vogliamo ricercare in proprio, lo scambio in libertà, la libertà di portare avanti una cosa che sentiamo vitale e libertà di tralasciare anche cose che sono state importanti per chi ci ha preceduto, o di dire quello che non ci torna, di rimettere in discussione qualcosa che sembrava già dato, acquisito. La difficoltà che abbiamo riscontrato, ma sulla quale stiamo lavorando e continua lo scambio e continuano i conflitti, è trovare un filo comune, che non vuol dire annullare la differenza, ma scegliere da che parte stare, dare un taglio e dire la cosa che preme, senza farsi affascinare dalla sirena di un pluralismo che ti taglia le gambe. C’è difficoltà a nominare una cosa comune. Il problema è che se dici una cosa non sei qualcos’altro, crei spiazzamenti, separazioni. Non è che non abbiamo, ciascuna, una priorità, la cosa da dire, ma è come se ci facessimo fregare dal mito della democrazia paritaria, per cui ogni cosa ha diritto di essere nominata, e per ogni diritto bisogna fare battaglia, e non si ha la capacità di scegliere il taglio che più ci preme ma che inevitabilmente lascerebbe fuori altro.
Quindi questo punto dell’assumersi in prima persona la responsabilità di un’azione politica, con la forza e il coraggio di dare una propria lettura e fare i propri passi, pur riconoscendo e dando valore all’origine mi pare un elemento importantissimo di questo libro, uno spunto di riflessione essenziale anche per noi.
Chiedo a Daniela se ha verificato questa cosa nelle interviste che ha fatto alla ragazza del movimento dei piqueteros.

 

Daniela Padoan inizia il suo intervento spiegando cosa sia cambiato dopo il suo viaggio.
“Sono andata in Argentina perché avevo deciso di scrivere questo libro, anche se credevo di essere in grado di scriverlo comunque: avevo intervistato le Madres per cinque anni, letto tutto di loro. Le ho ospitate a Milano facendo un’intervista televisiva anche se non è andata in onda. Questo perché le Madres, erano già intervistate una volta da Gianni Minà. Questo però era stato denunciato insieme alla Rai sia dal Governo argentino che dal Vaticano per i contenuti dell’intervista che riguardavano alcuni fatti della chiesa (di cui sarà detto più avanti, ndr).
Quando ho incontrato le Madres ho cominciato a capire da loro alcune cose a mio avviso dirompenti, che avevano bisogno di ragionamento. Questioni che all’inizio avevo cominciato a leggere secondo criteri della politica che fino ad allora avevo conosciuto. Forse le cose più importanti, le novità che avevano prodotto, rimanevano per me stupore, non qualcosa che arrivasse a produrre pensiero. E in questo modo mi sono rivolta a Luisa Muraro. L’incontro con Luisa e la Libreria per me è stato molto importante nello sviluppare poi quello che è stato il mio percorso di apprendimento del mio incontro con le Madres. Avevo cartelle piene di appunti, note che mi ero presa con ragionando e interagendo con la Libreria, avevo una griglia teorica. Però non potevo non verificare tutto ciò con le dirette interessate.
Tutti i materiali di cui disponevo più di tanto non mi sono serviti. Certo alcune domande provengono dalle discussioni fatte, ma quello che mi è capitato in conseguenza a questo viaggio è stato come rimanere denudata. Le Madres mettono nella posizione di chi sta vedendo qualcosa di straordinario e non può che rimanere a osservare, domandare e ascoltare. Se qualcosa riesci a prendere sono le loro testimonianze. Loro testimoniano esistenze, vivono giorno per giorno una loro scelta fatta in anni e anni, dopo aver vissuto profonde gioie e sofferenze. Non si può imitare e far proprie le loro pratiche ma guardarle con stupore.
Per loro le parole sono importanti, le parole sono politica.
Ad esempio le Madres non chiamiamo i bambini nelle strade che vivono tra spazzatura e prostituendosi ‘bambini di strada’. In questo modo li connotiamo in un certo modo non assumendocene la responsabilità. Sono i nostri figli, vanno chiamati come tali quindi la parola diventa politica.
La scelta di ogni parola è una scelta politica. Questo non significa che io sono in grado di farlo, ho avuto il grande dono di vederlo fare, di veder qualcuno che riesce. Ci sono delle critiche alle Madres, ma l’importante è vedere le conquiste.
In questo viaggio sono andata a cercare cosa volevo scrivere e in che modo. Inoltre è stato un percorso di conoscenza, seguendo i passi che loro hanno fatto. Ho sentito la necessità di abbandonare tutti i preconcetti, idee comuni, cercando di immaginarmi, di sentire quelle donne di quaranta, cinquant’anni che non avevano altro che la propria famiglia.
Dico ‘non avere altro’ intendendo non sia poco, al contrario. Quello che si erano date è un importante progetto di vita, con grande amore dei figli che loro hanno visto riunirsi con altri amici prima del Golpe. Dicevano: “le nostre case erano come un vespaio”.
All’improvviso questi figli scompaiono. Parlando con loro ho compreso come tutte provenissero da situazioni diverse, per estrazione, cultura, esperienze di vita. Tuttavia poi, in seguito a questa scomparsa, vite e racconti diventano in qualche modo simili.
E’ difficile capire fino in fondo l’idea della desaparetion. Ho cercato di immaginare cosa sia quando un figlio non torna a casa, non capire perché sia stato sequestrato, tanto meno essere consapevole che finirà per essere ucciso.
Ho cominciato a fare tutti i passi, passi che la propria esistenza ha insegnato essere sensati, mettere alla prova quella che è la propria idea del mondo. Le Madres vanno dai parroci che hanno cresciuto i loro figli a chiedere aiuto senza rendersi conto che molti di questi erano alleati con il regime. Le Madres hanno infranto un ordine, a partite da uno stupore e dalla necessità di capire l’incomprensibile. I parroci che avevano fatto giocare a pallone i bambini, chiedevano chi i loro figli avessero visto nell’ultima settimana. Le Madres dicevano i nomi dei ragazzi. Poi misteriosamente scomparivano anche questi ultimi. Le Madres hanno anche provato l’Abeus Corpus (ordine di avvocati per i familiari che, secondo la legge, hanno diritto in ogni momento di sapere dove corporalmente si trovano i loro figli, ndr). Anche questa si era rivelata un’illusione.
La realtà non era più riconoscibile e il fatto di provare a immaginare che cosa significhi la non riconoscibilità di una realtà che è la tua, per una donna, forse è una questione di apprendimento politico, forse molto più radicale che non dire gli ‘Stati Uniti sono imperialisti’.
Tutte le questioni che maneggiamo con concetti piuttosto astratti, loro le hanno smontate pezzo per pezzo e hanno usato nomi che per loro sono ricchi di storia e di dolore.
Andavano per commissariati e carceri ogni giorno, portando con sé, uno spazzolino da denti e una maglietta in caso avessero trovato i figli. Tutti i giorni lasciavano il tavolo apparecchiato con il posto vuoto. Tutti questi sono piccoli enormi gesti che, poco per volta, vengono raccontati nel corso delle interviste, nei tempi lunghi in cui c’è un ascolto e disponibilità a parlare dell’altro. Tutto ciò costruisce la possibilità di intuire cosa davvero dev’essere stato rimanere per uno o due anni in bilico tra l’idea di un figlio morto o ancora vivo, sentendo di strane voci di tortura, di campi clandestini nelle città. Mi hanno portato nel loro archivio dove conservano un documento straordinario, la prima lettera che hanno scritto quando si sono trovate in 12 madri, il documento di nascita delle Madres. Era una lettera di Dela, il generale a capo del della giunta golpista. Lo chiamavano buon padre cristiano e gli chiedevano di aiutarle a trovare i figli perché convinte che fosse la polizia di Buones Aires. Rileggendolo riconoscevano la loro ingenuità. Andavano poi a bussare alle porte dell’Ambasciata degli Stati Uniti, convinte quello fosse il paese della democrazia. Questi le accoglievano, solo dopo hanno capito dell’operazione Condor.
Tutto ciò fa si che ora vedano con una straordinaria lucidità e senza ideologia quello che accade nel mondo. Sostengono inoltre che la solidarietà non vada fatta a parole ma con la presenza fisica. E loro hanno agito così nei paesi di guerra.
Il percorso politico, durato trent’anni (ora hanno ottanta novant’anni, ndr), ha prodotto delle donne che straordinariamente capaci di un’affettività, di un’allegria, di una coesione tra di loro che è un continuo scambiarsi, anche litigare. Hanno inventato qualcosa che è anche una pratica comune, un racconto della propria vita e capacità di farne scelta comune.
Il discorso della pazzia e ridere di una risata assoluta di fronte al potere.

 

INTERVENTI

 

Silvia: Le Madres hanno avviato la possibilità di un processo più o meno democratico in Argentina. Mentre in Italia iniziano a esserci più ombre che luci, in Argentina continuano a esserci sempre molte ombre. La vicenda delle Madres mi ha ricordato l’episodio di Rosenstrasse nella Germania nazista. E ho pensato a questo: quando tutte le voci politiche tacciono, avendo sterminato coloro che avevano alternative politiche da proporre, è come se la ragione politica si fosse arresa all’evidenza. Allora qualcosa di non politico, ma profondo, umano, delle persone, delle donne, emerge, ottenendo, come nel caso di Rosenstrasse l’obiettivo immediato (la liberazione di mariti e compagni). L’evento di Rosenstrasse non ha influito sull’andamento generale della guerra, mentre per le Madres è stato il contrario: non hanno riavuto i loro figli ma hanno praticamente messo in moto un meccanismo che ha portato al crollo dei regimi, dei generali. In qualche modo mi colpisce questa capacità di ripartire da loro. Chiunque, in quelle situazioni, avesse detto qualcosa di politico sarebbe stato massacrato immediatamente, mi chiedo cos’è stato che ha impedito di sparare con il mitra sulle signore in Rosenstrasse e far sparire le Madres? Cosa in questa pratica è riuscito a fermare la violentissima repressione?
Sulla questione dell’eredità delle pratiche. Se i Piquesteros hanno potuto riconoscere le Madres come madri penso sia stato anche perché sono partiti da una pratica collettiva che hanno messo in moto in un altro momento cruciale della storia argentina: il crollo economico totale. Come loro, le Madres avevano agito in un momento cruciale precedente e credo che forse il problema dell’eredità nelle pratiche tra donne, qui nel nostro paese, nelle nostre generazioni, quello che vivo anch’io insieme al gruppo politico che frequento, dipenda dal fatto che la nostra generazione non ha ancora preso una posizione sulle cose, quindi resta in bilico tra un’eredità ripetitiva e una presa di distanza, una ricerca di sé che non riesce a sperimentare. Le donne di trent’anni fa invece hanno preso la parola autonomamente, spezzando un silenzio delle donne in un altro grande momento di cambiamento storico che non le avrebbe rappresentate se non parlavano per loro e se non facevano altro. A noi forse manca questo per essere figlie, per farci riconoscere dalle madri. Quello che ci tiene in ostaggio delle madri è la difficoltà di assunzione della responsabilità. Oltre la relazione e alla pratica c’è una collettività e una storia con cui dobbiamo fare i conti per assumere la responsabilità fino in fondo.

 

Nell’intervento successivo si riprende il discorso gratitudine delle madri.
“C’è una forte gratitudine delle Madres ma anche la loro nei confronti dei propri figli. La disgrazia di averli persi è stato un dolore insuperabile ma nel tempo stesso è come se si fossero appropriate della possibilità di uscire dalle proprie case e rendersi conto di come era fatto il mondo. Ora tu (Silvia, ndr) parli del fatto che sono donne anziane e le poni come grandi sagge. Quello che è curioso è che questa loro saggezza viene dall’aver assorbito qualcosa di molto forte da una generazione giovane. Una cosa che mi riporta al cambiamento che il ’68 per noi ha determinato, magari non con questo effetti o contraccolpi”.

 

Daniela Padoan: “Le Madres fanno l’invenzione molto spiazzante dicendo di essere state partorite dai loro figli e al tempo stesso li tengono sempre al riparo, dentro una gestazione infinita. Arrivano a queste frasi spiazzanti tramite esperienze molto concrete e molto pratiche, trovandosi di fronte a militari che hanno tolto la vita ai loro figli. Questo, a poco a poco, hanno dovuto capirlo come hanno dovuto capire che potrebbero togliere la vita anche a loro. Come diceva Liliana prima: il potere non è potere di dare vita o di dare morte, è potere di dare morte perché la vita l’hanno data le Madres. Questa capacità d’aver dato una volta, irrevocabilmente, la vita non se la fanno togliere da nessuno. La cosa straordinaria è sfidare il potere nella disparità più assoluta dicendo: “tu non mi fai paura. Mi puoi solo ammazzare. Fin quando avrò vita sarò insieme me e tutte le persone che hai cercato di strapparmi”. Questo diventa assolutamente simbolico. I figli non ci sono più e il non ammettere la morte del figlio coinvolge capacità ed energie. Questo diventa violentissimo quando cade la dittatura, paradossalmente quando inizia l’era della democrazia formale.
Inizialmente i governi avevano creato questa figura dei desaparecidios, apparentemente geniale perché, a differenza di quello che aveva fatto Pinochet riempiendo gli stadi di prigionieri politici e uccidendo la gente per strada, non c’erano corpi e si creava un’equazione ben precisa: se non c’era il corpo non c’era reato, se non c’era reato non c’era colpevole. Questa immunità a priori però, a un certo punto, si è trasformata però in un boomerang. Questo esercito di fantasmi, 30.000, cominciava a gravare su una società che non poteva trovare pacificazione finita la dittatura. La cosa importante da capire è che non c’è stata una resistenza in Argentina, una lotta di popolo. Il golpe ha perso ogni solidarietà internazionale, c’è stata un’implosione, per altro hanno ridotto il Paese a uno sfascio economico.
Quando le Madres si trovano di fronte alla cosiddetta democrazia vengono invitate a riconoscere morti i propri figli. Per questo vengono offerti risarcimenti economici. Da prima quasi tutti rifiutano essendo ricompense molto esigue. Poco per volta i risarcimenti diventano molto più allettanti. Alcune persone li accettano. Spesso si trattava di uomini e donne anziane che avevano perso persone che portavano redditi e avevano bambini piccoli che in qualche modo dovevano essere cresciuti.
Ma le Madres non hanno accettato: nessuno, dicevano, potrà dare un prezzo alla vita dei nostri figli. Così i governi hanno cominciato a mandar loro a casa delle cassette con le ossa dicendo essere dei loro figli. Decine di medici forensi andavano scavando nelle infinite fosse comuni, che ancora adesso continuano a essere scoperte. Due anni fa mentre ero in Argentina stavano estendendo l’autostrada intorno a Buenos Aires. Quando ero in Argentina, hanno trovato, scavando sotto un pilone, dei corpi. Nel momento in cui le Madres ricevevano le cassette con le ossa, si è aperta una questione molto difficile, un bilico sul quale si è giocata lì fino in fondo la loro radicalità. Rinunciando a consumare un lutto, hanno tenuto questa sfida estrema al potere, non riconoscendoli. “Noi non ti diremo mai che ce li hai ammazzati”
Riguardo il discorso della Chiesa, le accuse che fanno le Madres sono serie e molto gravi. L’unica persona che ha provato a intervistarle in Rai è stata denunciata. Dicono che i vertici della Chiesa in Argentina parteciparono alle discussioni su fino a che punto la tortura fosse peccato. La decisione fu che fino a otto ore non era peccato.
Monsignor Tortolo, vescovo di Buenos Aires, ricevette il giorno prima del Golpe come gesto inaugurale della dittatura, il comandante dell’esercito della Marina dell’aviazione. Gli diede la sua benedizione. Tre mesi dopo il Golpe militare, il Nunzio Apostolico, in un’Omelia, affermò che quando qualcuno impone in un Paese idee diverse ed estranee alla tradizione, la Nazione giustamente reagisce come fa un organismo con anticorpi di fronte ai germi. I soldati, con i loro interventi contro i dissidenti, adempiono il loro dovere primario di amare Dio e la Patria quando questa è in pericolo. Questo provoca una situazione d’emergenza cui si può applicare il pensiero di San Tommaso d’Acquino che insegna in casi del genere l’amore per la Patria si equipara all’amore per Dio.
Il testo integrale di questa Omelia è stato presentato dalle madri al Ministero Italiano di Grazia e Giustizia perché venisse avanzata una procedura legale, cosa che non ha mai avuto corso. Ci sono molte altre questioni, come i voli della morte: i prigionieri venivano gettati in mare perché c’era il problema dell’eliminazione dei corpi. A bordo degli aerei che ‘smaltivano i corpi’ o nella base erano presenti dei capellani che confortavano i militari dicendo che l’avevano fatto per la Patria.
La Chiesa del terzo mondo ha denunciato come anche due vescovi che sono stati assassinati.

 

Luisa Muraro interviene per precisare che “tutto questo odio non si spiega se non all’interno di un’ideologia anticomunista. L’ideologia non giustifica niente e nessuno ma fa comprendere e inserire queste ferocie in un quadro. Questi generali e uomini di Chiesa erano convinti, in buona o cattiva fede, che il comunismo stava per prendere l’Argentina. I figli delle Madres erano comunisti, sono dei veri comunisti. Bisogna inoltre ricordare che ci sono stati tanti altri morti non solo in Argentina causati da questa ideologia”.

 

Daniela Padoan aggiunge che però non tutti i desaparecidos erano comunisti. Quello che è accaduto è stata una criminalizzazione di chiunque potesse essere un oppositore, prima ancora del governo di Isabelita Peron. Veniva criminalizzato chiunque facesse attività politica contro un piano economico voluto dagli Stati Uniti. Le Madres pongono sempre questo punto come centrale perché dicono: “tutto quello che ci è capitato lo dobbiamo capire fino in fondo perché ancora adesso quello che ci vogliono far capitare è uscito dal fatto che qualcuno, in modo sopranazionale, ha deciso che in questo paese si sarebbe dovuto attuare un piano economico preciso. Questo accadeva già prima del Golpe del ’76 e c’erano varie forze: comunisti, socialisti, chiesa del terzo mondo, anarchici, ragazzi che appartenevano genericamente a movimenti studenteschi contro il governo di Isabelita Peron. Ad un certo punto si formò la tripla A voluta da Lopez Rega, strano personaggio legato alla Loggia Massonica p2. Questa tripla a, Alleanza Anticomunista Argentina, aveva già cominciato a spargere morti e far scomparire persone. Successivamente è stato solo l’accentuarsi di qualcosa che già esisteva. Quello che sono riusciti a fare è stato creare una categoria del tutto astratta di ‘sovversivo comunista terrorista’. In questa categoria c’era una condensazione di tutto questo, che fa in modo che non ci siano più principi di realtà, ma una sorte di paranoia, per cui tutto si trasformava nel nemico interno che la società tentava di espellere ed eliminare. C’era inoltre la colpevolizzazione violenta delle stesse famiglie. L’Argentina era disseminata di cartelli dove compariva un dito accusatore, ‘Sai che cosa sta facendo in questo momento tuo figlio?’ oppure ‘come è allevato tuo figlio?’ A chi spariva il figlio capitava quindi di non poterne parlare né al lavoro per paura di perderlo, né in famiglia per paura che venissero sequestrati anche altri parenti”.

 

In un intervento di risposta a quello di Silvia si sottolinea che l’agire delle Madres onestamente proiettate in un discorso fuori da tutte le ideologie politiche è una lezione di politica fuori dalle ideologie.

 

Daniela Padoan interviene ancora sul cosa ha impedito il massacro delle madri
“Ero partita pensando che il loro essere donne e donne di una certa età in un paese in cui, ancora adesso, il giorno della festa della madre è un giorno importante, potesse averle aiutate. Ma loro sostengono che si tratta di assassini che avrebbero ammazzato anche le loro madri. Quello che le ha salvate è stata la solidarietà nazionale. Le prime tre madri che fondano questo gruppo vengono rapite, in un modo romanzesco. Un giovane, chiamato l’angelo biondo, dagli occhi azzurri e l’aria mite, si unisce a loro dicendo che suo fratello era stato rapito e che era orfano. Comincia ad andare in piazza tutti i giovedì con loro, le madres si fidano e addirittura lo accompagnano alla fermata dell’autobus pensando sia troppo esposto. Un giorno in cui, davanti a una chiesa, si faceva una raccolta di denaro per pubblicare la lista dei figli scomparsi che nessun giornale voleva pubblicare, il ragazzo va con loro e le bacia. Da quattro macchine, in borghese, escono persone con abiti civili le trascinano nelle vetture insieme ad altre persone tra cui due suore. Le portano all’ESMA dove verranno torturate e uccise.
Le Madres sono state picchiate, torturate, messe in cella con dei morti. Veniva loro detto che poteva essere loro figlio e al buio non potevano vederlo. Quando però nel ’78 la dittatura divenne più feroce, si decise di fare il Mondiale per far credere al mondo che nel Paese c’era una democrazia che riusciva a tenere il rispetto dei cosiddetti diritti umani e si era semplicemente instaurato un argine contro il comunismo. Organizzano quindi il Mondiale, comprano il fatto di vincerlo, ma il giorno dell’inaugurazione una troupe formata da due operatori della televisione olandese, invece di andare all’inaugurazione va a Plaza de Majo e vede 20 donne con un fazzoletto bianco in testa e militari che puntavano loro addosso le armi. Le Madres per attirare disperatamente l’attenzione, sapendo fosse l’unico momento possibile per infilarsi in un varco era questo del Mondiale, ai fucili puntati gridano ‘fuoco’. I giornalisti si incuriosiscon, i militari non poterono più arrestarle e in Olanda cominciarono a circolare quelle immagini che si diffusero poi nel mondo. Le olandesi, nel giorno della festa della mamma, raccolsero una cospicua somma di denaro da mandare in Argentina per comprare una sede alle Madres dove poi hanno cominciato a riunirsi”.

 

Laura Colombo riprende l’intervento di Silvia.
“E’ curioso il dire che non siamo nella dimensione politica. Silvia parla di politico e impolitico come se dire qualcosa di politico implicasse fare un comunicato, o comunque un discorso strutturato. Secondo me il fatto che le Madres fossero in piazza e, cogliendo l’occasione della troupe televisiva, dicano ‘fuoco’ è stato altamente politico.

 

Zina: interviene sul perché le Madres non sono state uccise come anche le donne di Rosenstrasse e le donne siciliane nel 1921 che durante i moti alzarono le sottane davanti alla cavalleria.
“Secondo me le madri si uccidono o in una stanza per una perversione o in genocidio in quanto fatto diffuso. In una situazione in cui si ha una madre di fronte, torna il simbolico della madre, torna la propria madre. E’ difficile farlo dove puoi essere riconosciuto additato da altri.

 

Beatrice chiede all’autrice come mai i film di Marco Bechis (arrestato durante il Golpe e salvato perché figlio di un italiano molto ricco) Garage olimpo e Hijos entrambi riconosciuti con dei premi abbiano registrato bassissime presenze nelle sale, anche nulle.

 

Daniela risponde che in Argentina c’è una grande quantità di film nelle sale su questo argomento. Le Madres però sono contrarie ai lavori di Pechis in quanto indulge sulle torture, cosa che le Madres non vogliono vengano toccate. Dicono “noi sappiamo quello che è stato fatto ai nostri figli ma riteniamo che parlarne significhi continuare a violarli”.

Print Friendly, PDF & Email