7 Maggio 2011

Mettere il piede nel piatto della politica: dove, come?

A partire dai due numeri di Via Dogana, Milano città aperta (n.95), e Situazioni a rischio di politica (n.96).

A partire da Pausa lavoro – Immagina che a Milano: un’agorà del lavoro.
A partire da altre esperienze anche sconosciute, anche lontane.
Introduce l’incontro: Maria Castiglioni. Partecipano: Pinuccia Barbieri (Gruppo lavoro-Libreria delle donne), Anna di Salvo (Città Vicine), Maria Giovanna Piano (I.fo.l.d. – Cagliari) e altre/i.

Premessa alla pubblicazione degli atti
DONNE E POLITICA SFIDA APERTA
di Pinuccia Barbieri

 

Il Corriere della Sera del 26 marzo 2011 annunciava così il dibattito alla Libreria delle donne di Milano “Mettere il piede nel piatto della politica: dove, come?”
L’incontro continuava il discorso iniziato il 29 gennaio “Milano città aperta” – dal titolo della rivista Via Dogana n. 95. Là, erano state molte le partecipanti donne e parecchi gli uomini.
Vari gli interventi, e molto articolati: alla fine della discussione s’era deciso di dar seguito con un altro appuntamento, fissato per il 26 marzo, con un’introduzione di Maria Castiglioni e di cui sarei stata relatrice con Maria Giovanna Piano (Cagliari) e Anna Di Salvo (Catania).
Nel pensare al mio intervento sono andata a rivedere anche le precedenti riunioni organizzate negli ultimi tre anni in Libreria sul tema della politica e della pratica delle relazione con le associazioni.
Il 20 maggio 2009 avevamo parlato di “Politica in tempi difficili”.
Il 21 febbraio 2009 di “Biopolitica: cosa c’entrano le donne?”
Il 24 gennaio 2009 di “Desiderio, tempo e denaro. Investiamo e come sosteniamo la pratica di relazione nei luoghi e nelle associazioni di donne”.
Il 13 dicembre 2008, “La generosità della politica. Come si sostengono i progetti che costruiamo, i progetti a cui teniamo e le associazioni di donne che frequentiamo. Desiderio, tempo, ma anche denaro”.
Il 17 maggio 2008: “Tutto si ripete, niente si ripete: che cosa sta capitando veramente in questo paese”.
Il 5 aprile 2008: “La politica delle donne (politica prima) e la politica dei partiti: pensieri e discussione. Ancora elezioni. Cosa pensiamo, cosa diciamo e cosa vorremmo”.
Rileggendo gli appunti che avevo preso, mi è nato il desiderio di trascrivere la registrazione degli interventi del 26 marzo, ho proposto alle varie partecipanti di rivedere i loro, farne una pubblicazione da inserire nel sito della Libreria, e farla circolare: ho scambiato questo pensiero con Fiorella Cagnoni, con la quale sono in relazione politica e amichevole, basata sullo scambio dei nostri percorsi nelle città lontane e vicine in cui ci troviamo.
I punti scaturiti dai miei appunti sono numerosi e molteplici, ne trascrivo alcuni:
1. “quando ti sei collocata nella politica delle donne come esperienza in comune, puoi osservare lucidamente la politica seconda con le sue strumentalità, le sue ambiguità”.
2.”alcune donne hanno rivolto lo sguardo allo scenario della politica seconda e non hanno tenuto lo sguardo sulla pratica della politica delle donne”.
3.”questo slegame tra la nostra pratica, che è un’esperienza di soggettività, e la politica comunemente intesa – è un problema irrisolto”.
4. “noi abbiamo cercato di tenere due sguardi sui due spazi pubblici, e da lì creare le conseguenze: cercare con la nostra pratica di tessere rapporti con le donne che fanno politica tradizionale, ne sentono la contraddizione e ne sentono l’inefficacia”.
5. con le discussioni sui quaderni del LAVORO e del Sottosopra Immagina che il lavoro abbiamo verificato che si sono create relazioni significative tra le due pratiche, con modificazioni reciproche.
Altri incontri importanti avvenuti in Libreria nel gennaio 2006 sono raccolti in L’uso politico delle donne del 10 e 24 gennaio 2006 nella pubblicazione a cura di Laura Minguzzi e Serena Fuart dal titolo E così via in un circolo di potenza illimitata.
Per introdurre ora il testo dell’incontro “Donne e Politica – Sfida aperta” del 26 marzo 2011 parto con segnalare alcuni punti di interesse rilevati da Fiorella nelle trascrizioni degli interventi:
– gli uomini sono sempre più coinvolti dall’essere contro
– “comunque vadano le elezioni…”
– “la ripetizione negli incontri inutili”
– “trovare insieme le parole”
– “facciamo sì che donne e uomini interni all’ambito istituzionale non possano fare a meno d’interessarsi a noi”
– “donne che traggono importanza dal grado di prestigio delle discipline che insegnano”
– “i processi di istituzionalizzazione favoriscono dinamiche e modalità organizzative proprie della politica seconda”
– “renderci conto che quando si fa politica, si fa quella che noi chiamiamo “prima” e si fa ovunque”
– “il tempo è un modo di pensare”
– “la molla dell’innocenza”
E c’è anche parecchio altro, di questo “parecchio altro” – se lo desiderate – potete segnalarmi i punti che a voi interessano, scrivendo al mio indirizzo painuz@tin.it o a quello della Libreria info@libreriadelledonne.it

 

Mettere il piede nel piatto della politica: dove, come?

(Trascrizione a cura di Serena Fuart e Pinuccia Barbieri, rivista dalle intervenute)

Maria Castiglioni

 

Vorrei riprendere alcune questioni rimaste in sospeso dallo scorso incontro (29/1/2011) che riguardava l’intreccio tra la politica prima, ovvero la pratica di relazioni tra donne e uomini che accolgono il principio della differenza, e la politica seconda, o delle istituzioni di rappresentanza (politiche, sindacato, organismi costituiti).
Ispirandomi a una celebre frase di Lou Salomè: “L’essenziale o c’è da subito oppure non c’è”, e anche a una convinzione diffusa nella nostra pratica che “il metodo è la sostanza” e non ci sono mezzi iniqui che giustifichino fini equi, cerco di elencare quello che ho capito essere l’essenziale delle esperienze di politica prima e che metto nel piatto per un confronto con le nostre ospiti.
La volta scorsa le avevamo definite “le nostre travi” e riprendo quindi questa immagine.
La prima trave:
1) la pratica di relazione, di riconoscimento dell’autorità dell’altra e la ricerca di mediazione
E qui faccio due esempi.
Il primo riguarda le mediazioni “minute”: penso al lavoro di relazione che si fa anche solo per trovare una data di convocazione di una riunione, una data a cui non manchi nessuna; oppure all’altro lavoro, altrettanto estenuante, di raggiungere un accordo su uno scritto che vuole essere a firma di tutte e su cui vanno operati tagli e integrazioni.
Il secondo, altrettanto complesso, ha a che vedere con il riconoscimento del desiderio dell’altra, quindi della sua autorità (non dimentichiamo che autorità deriva da auctor, agire un desiderio è essere autori /autrici del proprio agire politico e genera autorevolezza).
Su questo punto Vita Cosentino la scorsa volta ha parlato di un avanzamento nel suo rapporto con una donna, con le donne, in quanto, lei diceva: è giunto il tempo che ognuna si giochi il suo desiderio, nel mantenimento di una mediazione tra di noi. Anche Luisa sottolineava lo stesso concetto, con altre parole, quando diceva: a chi vuol fare puntate nella politica seconda chiediamo molto rigore.
Il rigore di Luisa, il mantenimento della mediazione tra di noi di Vita, dal mio punto di vista, lo traduco nella seconda trave e cioè:
2) nominare di quale desiderio si tratta, aver chiarezza e onestà rispetto ai propri desideri e metterli in gioco con le altre/altri.
Su quello degli uomini non ho tanti problemi a riconoscerne la natura.
Dice Girard, citato da Fleury (VD 79/2006 “Parla con lui” – rubo il mestiere a Vita!) che il desiderio maschile spesso è un desiderio contro rivali, che ha per oggetto lo stesso cibo, lo stesso territorio, le stesse donne, lo stesso potere.
Anche Lia Cigarini (VD 56/2001: “E gli uomini?”) si sintonizza sullo stesso concetto: “Gli uomini fanno politica con le donne solo quando c’è una contingenza comune. È difficile convincerli che ci può essere un conflitto senza lotta contro”.
Quindi, se il loro desiderio è ben visibile e lo conosciamo, il nostro desiderio contenuto nell’agire politico qual è?
La scorsa volta avevo ricordato alcune risposte:
L.M.: un di più di essere
C.Z.: il libero gioco tra noi e la realtà.
Se per realtà intendiamo anche gli obiettivi, e così dovrebbe essere per non lasciarli nell’utopia, ecco che Vita ci ricorda quello indicato da Leiss (VD 73 “Passaggio in libertà”): “La posta in gioco è trasformare la guerra dello scontro di civiltà in un conflitto per il cambio di civiltà”.
Questo, che sembra un obiettivo astratto, è in realtà concretissimo, perché diventa, già da ora, un “modus operandi e cogitandi”.
In questa direzione interpreto alcune affermazioni, come quella di Lia (VD 56, già cit.): “Una pratica politica senza obiettivi e nemici esterni” a cui fa eco Fiorella Cagnoni con il suo “Un obiettivo non concreto, né materiale”.
Forse in questo senso potrei anche interpretare la frase detta da Lilli Rampello la scorsa riunione: “Essere presenti senza volerci essere in prima persona”. E che fa dire al gruppo Lavoro: “Comunque vadano le elezioni”, frase che però ha suscitato qualche vivace reazione tra alcune di noi.
Vedo quindi un diverso modo di intendere questo agire politico per il cambio di civiltà, che origina anche un diverso modo di intendere la terza trave:
3) l’indipendenza simbolica: questa pratica può avere molte declinazioni. Io qui mi soffermo su due in particolare che ho trovato interessanti nell’articolo citato di Lia Cigarini, del 2001:
a) “non accettare la separazione dei piani del discorso (piano delle relazioni/piano del potere)” a cui possiamo aggiungerne tanti altri: privato/pubblico, fine/mezzi, prima/dopo, visibile/invisibile. Rispetto a quest’ultima scissione vorrei ricordare la recente “kermesse” elettorale di Pisapia al Teatro Dal Verme dove la visibilità ha risucchiato ogni altra dimensione dell’esperienza politica portata avanti anche dalle tante donne presenti ai tavoli di lavoro.
b) “togliere di mezzo il preventivo riconoscimento di autorità, che è una dannosa complicazione” che mi sembra diverso dalla posizione espressa da Marina Terragni: “Convincere il candidato ad assumere una conveniente postura di ascolto, gratitudine e bisogno nei riguardi delle sue concittadine” (M.T., VD 95 “Milano, città aperta”).
Ma anche qui il “contenzioso” è aperto.
Da ultimo un’osservazione su quanto vi è in gioco tra noi e l’uomo nell’agire politico comune.
Relazione di differenza, abbiamo detto più volte. Nominare e fare spazio alla differenza significa aprire la relazione uomo donna al Reale, mentre siamo in presenza di una relazione in cui di reale c’è ancora molto poco. Donna e uomo agiscono reciproche proiezioni.
Marina Terragni lo esemplificava molto bene la scorsa volta a proposito della sensazione che lei aveva rispetto all’interlocuzione politica avviata con Boeri: “Se non ti lascio fare il gallo, tu hai paura”.
Ma quale è la paura dell’uomo? Fleury (art. cit.) risponde che è la paura di “essere lasciato da parte”, Daniele Cini (VD 79 “Parla con lui”) parla del “fantasma della madre che respinge”.
Va da sé, per onestà, chiederci a questo punto: qual è il nostro fantasma?
È una preoccupazione molto avvertita da noi, anche Annarosa Buttarelli e Lilli Rampello hanno citato nel loro articolo la “fascinazione del potere” (VD 95 “Milano, città aperta”).
Penso che il nostro fantasma sia, come affermava Luisa Muraro in “La posizione isterica e la necessità della mediazione” (1993) “scambiare tutto per la madre”, e il nostro compito fare il lutto, come ci suggerisce Chiara Zamboni, di un “materno onnipotente”.
Come tutto questo si declini nelle nostre pratiche è una scommessa aperta per tutte.

 


Pinuccia Barbieri

Abbiamo deciso in questo incontro di portare degli esempi di pratiche. Anna di Salvo parlerà della rete delle Città Vicine e Giovanna Piana parlerà dell’IFOLD. Io parlerò della mia esperienza, che è quella del gruppo lavoro.
Noi alla Libreria varie volte abbiamo deciso di aprire la discussione tra politica prima e politica seconda, siamo andate a leggere qualche trascrizione che avevo fatto e devo dire che sono venute fuori cose molto interessanti. Mi piacerebbe far circolare queste trascrizioni.
Oggi però sono qua per introdurre un confronto che aiuti a capire se e come la politica prima è riuscita a fare un salto, a creare un ponte, a mettere una trave con la politica dei partiti.
All’inizio degli anni Settanta, fin quando non ho incontrato la politica delle donne, io ho fatto politica nel Consiglio di zona 5, nell’urbanistica. Avevamo la prima donna presidente del consiglio di zona in Italia e abbiamo fatto donne e uomini insieme battaglie che possiamo chiamare creative, che erano fuori dalle normali battaglie che oggi avvengono, che hanno ottenuto qualche successo e uno molto grosso. Da questa esperienza sono uscita con una regola: le vittorie non sono mai per sempre, vanno accudite. Da quel momento in poi ho mantenuto un occhio attento alla politica seconda e al sindacato con l’essere presente a loro incontri, convegni, tavole rotonde. Attraverso questa partecipazione e osservazione ho visto la ripetizione: la ripetizione delle persone che parlano, e la ripetizione delle persone che ascoltano. E invece quasi mai ho visto l’attenzione dei relatori ad ascoltare le parole e la narrazione di chi è nel pubblico e vuole intervenire. Spesso il relatore, la relatrice, persona che ha potere, dice la sua e poi si sposta in un altro luogo a fare altra presenza, un’altra rappresentazione. Ne ho visto così la strumentalità, nell’usare la propria presenza per avere pubblico e significare il proprio potere.
Nel gruppo lavoro io ci sto interamente, per me è un luogo dove c’è pensiero, scambio, e lavoro intenso. Sottolineo che, anche in un piccolo gruppo che sente di aver qualcosa di dire e vuole dirlo, è importante dirlo a partire da sé, nei luoghi in cui è. Nel gruppo lavoro c’è ascolto di esperienze, c’è nascita di idee, c’è un agire politico che si trasforma in azioni politiche. E c’è l’impegno a trovare insieme le parole per comunicare anche all’esterno quello che si vuol dire, a dare una forma condivisa a quel che si dice, per esempio i quaderni che abbiamo scritto: “Parole che le donne usano”, “Il doppio sì” e il “manifesto del lavoro”. C’è la scelta dei luoghi e delle occasioni in cui comunicare quel che si ha da dire, valorizzando le relazioni che già ci sono e costruendone di nuove. Soprattutto ci sono il darsi valore e una grande disponibilità a sostenersi.
Per esempio, gli appunti per questa riflessione li ho scritti e poi ne ho parlato con Lorenza. È uno scambio che il gruppo lavoro ha con grande facilità, io ce l’ho spesso con Silvia, Vanna e altre.
Quando abbiamo deciso di portare la nostra politica il più possibile fuori per moltiplicare i luoghi delle pensanti e parlanti, e crearne nuovi, sapevamo bene che le donne ci sono e hanno una politica che è preziosa per uomini e per donne. Siamo uscite e usciamo all’esterno con coraggio e chiarezza perché sappiamo che cosa abbiamo da dire, e perché siamo state cercate dalle organizzazioni esistenti (pari opportunità, università, associazione, CGIL, centri di documentazioni, aziende o circoli del PD).
Sto facendo un’analisi dei cinquanta e più luoghi in cui s’è discusso Immagina che il lavoro, vorrei farla anche con il Doppio sì e con Parole, e quindi poi andarla a vedere, intrecciarla e capire che cos’è successo.
Oggi cosa mi rimanda quest’esperienza? Le esperienze che funzionano sono quelle in cui la comunicazione dà vita a nuovo agire politico, contribuisce cioè a rilanciare o a creare gruppi, luoghi di pensanti e parlanti. Questi vanno consolidandosi e alimentano piano piano una rete di relazioni e di linguaggi comuni, si resta in contatto reciproco, si creano anche parole, iniziative autonome a partire dalle situazioni in cui operano, viaggiando sulle proprie gambe.
Le esperienze negative, deludenti, invece sono quelle in cui si capisce che la relazione-comunicazione che si è instaurata è di tipo strumentale e finisce lì. Questo accade quando si capisce d’essere invitate a parlare per riempire un vuoto di idee e di pensieri, per dare visibilità a organismi che non funzionano, per offrire occasioni di intrattenimento del pubblico o consenso istituzionale a chi non sa cosa fare né cosa dire in proprio, o a chi è interessato soltanto a introdurre – e spesso copiare senza alcun riconoscimento – quel che appare come una novità nel mercato delle idee. È il caso ad esempio di convegni improvvisati dai vari enti locali, dai CPO che non hanno un’azione autonoma, associazioni culturali che vivacchiano senza impegno, organismi aziendali, partitici o sindacali alla ricerca di consenso. In questi casi si sente di comunicare quasi nel vuoto, di non scambiare un bel niente, di esercitare una funzione di supplenza, un pensiero-azione che non c’è. Anche in questi casi può capitare di incontrare persone e esperienze interessanti, ma quasi mai c’è equilibrio con l’impegno che ci abbiamo messo. Sia nei casi positivi sia in quelli negativi la cura delle relazioni per valorizzare quelle buone e lasciar perdere quelle inutili e strumentali è un lavoro importantissimo che richiede tempo, riguardo, intelligenza e coraggio. E in cui spesso ci si accorge di aver sbagliato proprio per troppa o troppo poca cura, e che quindi come dicevo prima va continuamente ritarato, ripensato e alimentato.
Per tornare appunto a quel che dicevo all’inizio, sul fare un salto: il gruppo lavoro questo salto lo ha fatto, e si è assunto un ulteriore passaggio importante che stiamo sperimentando: l’iniziativa dell’agorà del lavoro, cioè di dare vita a luoghi d’incontro più allargati e aperti nelle varie realtà territoriali in cui si opera – in cui confrontarsi e aprire anche un contradditorio con altri da noi, con altre esperienze di pensiero e di agire politico che ci sembrino vive e interessanti nella città, anche se non immediatamente affini a quel che noi abbiamo fin qui pensato detto e comunicato (con uomini, generazioni più giovani, esperienze di agire politico che partono da pratiche e linguaggi diversi dai nostri).
Questa è una grande e impegnativa scommessa, quella di costruire in connessione anche fisica e relazionale con altri e diversi da noi una voce plurale che parli alla città, che moltiplichi il confronto la discussione pubblica su quel che interessa a noi.

 


Anna Di Salvo

Ci sono questioni molto calde, che interrogano il lavoro politico delle donne e degli uomini della rete delle Città Vicine e che costituiscono al presente la sfida che ci porta a esserci a pieno titolo nelle nostre città e sulla scena politica nazionale con maggiore attenzione e senso di responsabilità. Mi riferisco alla riflessione in merito alle buone forme di governo che ogni città mette in essere, rispetto agli spazi urbani e allo svolgimento delle vite di chi vi abita. Mi riferisco ai lavori attualmente in corso per individuare capacità d’intervento nei vari aspetti del pubblico, col buon senso ricavato dall’esperienza domestica e con l’invenzione di strategie politiche che intendono svuotare la rappresentanza dalle vecchie logiche di potere e di dominio, per risignificarla con pratiche relazionali e pensieri condivisi. Mi riferisco a un’altra visione dell’economia, basata sull’individuazione delle reali necessità della vita, sulla quale stiamo lavorando con iniziative e approfondimenti insieme ad altre/i che hanno le mani in pasta in questo problema al quale dedicano risorse ed energie. Mi riferisco al desiderio originario che accomuna sin dagli inizi le Città Vicine e che le ha portate a collaborare con ingegnere, architette e urbaniste per creare nuove visioni del vivere e fare la città ridisegnando spazi e individuando contesti e realtà cittadine che, “spargendo bellezza” con il loro fare, propongono pratiche virtuose ed esempi di convivenza civile tra donne e uomini.
Le Città Vicine sono nate una decina d’anni fa a Scoglitti, in Sicilia, sollecitate dal desiderio delle donne dell’Associazione La Città Felice di Catania che ha voluto nominare un tessuto relazionale già in parte esistente, e rendere politicamente più incisive e risonanti le elaborazioni e lo scambio tra donne e uomini di città diverse che volevano prendere autorevolmente parola in merito ad accadimenti importanti che avvengono non solo nei rispettivi contesti, ma anche in scenari politici più ampi. Clara Jourdan della Libreria delle donne di Milano, oggi qui con noi, sin dall’inizio ne ha seguito l’impegno e partecipa con attenzione a tutti gli incontri elargendo consigli, misura e orientamento. Le Città Vicine sono costituite da città dove si svolge un’attività intensa di pratiche e pensiero da parte di donne che vi lavorano, sostenute anche da uomini di buon senso. Tra le realtà da più tempo nelle Città Vicine: la Merlettaia di Foggia, le Vicine di casa di Mestre, la MAG di Verona, alcune donne di Catanzaro, la Libreria delle donne e il progetto Clotilde di Bologna, Amare Chioggia e il suo territorio, il gruppo donne di Roma, Identità e Differenza di Spinea, la Libreria delle donne di Milano alla quale facciamo riferimento e dalla quale riceviamo forza e visibilità, e tante altre realtà di Napoli, Firenze, Cagliari, Pescara, Palermo, Vicenza, Barcellona in Spagna, e le donne di “Femminile Plurale” di Vicenza (ben accolta di recente tra le Città Vicine), con cui siamo in stretto contatto. Le Città Vicine s’incontrano di frequente laddove il desiderio o la necessità lo richiedono o dove si organizzano iniziative che ne sollecitano la presenza. Sono solite rispettare la tradizione dell’incontro seminariale che si tiene ogni anno in novembre, e la “Vacanza politica” estiva che in genere avviene nelle belle località marittime della Sicilia, Calabria e Puglia. Su questioni e argomenti proposti dalle Città Vicine si sono svolti importanti convegni nazionali a Bologna, Milano, Roma e Mestre; alcuni organizzati anche con realtà a carattere istituzionale come i Nuovi Municipi di Firenze, che abbiamo incontrato per discutere di partecipazione, oppure con architette e urbaniste del Politecnico di Milano, come Bianca Bottero qui presente, per affrontare il tema delle nuove architetture, degli spazi urbani ecc., o con la MAG di Verona, l’Università del Bene Comune, la Libera Università dell’Incontro, per discutere delle nuove forme d’economia, convegno dal quale è stato tratto un importante libro dal titolo La vita alla radice dell’economia (a cura di Vita Cosentino e Giannina Longobardi, MAG, 2007). La scelta di allargare sempre più il raggio dell’azione e dei rapporti, ha dato alla rete la possibilità di ampliare l’area della discussione e dilatare l’orizzonte nel quale muoversi. Durante il loro cammino le Città Vicine hanno realizzato varie pubblicazioni in merito alla loro storia e alla loro ricerca, in particolare grazie alla MAG di cui oggi è qui Loredana Aldegheri, che ci offre molti spazi nella rivista trimestrale “Azione MAG” e grazie all’impegno di Sandra De Perini delle Vicine di casa di Mestre che cura attentamente e tesse con maestria la trama e l’ordito di queste pubblicazioni.
Vorrei parlare ora delle modalità di rapporto che le Città Vicine intrattengono con donne e uomini delle istituzioni culturali, politiche e amministrative che incontriamo spesso e con le/i quali prendiamo contatti in merito a varie questioni della città e della politica, intrecciamo relazioni, apriamo conflitti spesso infuocati e a volte anche costruttivi. Su questa questione le Città Vicine hanno avviato da tempo uno scambio vivace e prima di venire qua ho sentito alcune esperienze e pareri in proposito. Ne viene fuori che certo non è facile avere rapporti con donne e uomini docenti e presidi nelle scuole e nelle università, amministratori comunali, sindache, funzionari, sindacaliste, consiglieri di quartiere, responsabili di partito, sanitari, padri e madri spirituali, direttore di biblioteche ecc. Pinuccia Barbieri prima di me, ha fatto l’elenco di queste realtà con cui anche le Città Vicine si confrontano o si scontrano con modalità che a volte risultano simili tra loro, mentre per altre sono diverse: la cosa guardata nel suo insieme offre un caleidoscopio di varietà che distinguono una realtà dall’altra e al contempo le arricchiscono tutte. Devo dire che, alla luce dei fatti, risulta che il lavoro delle Città Vicine è molto apprezzato e sostenuto da donne e uomini che lavorano all’interno di istituzioni, per il pensiero e le pratiche creative e per la capacità che la rete mostra nel sapersi allargare a macchia di leopardo grazie alle relazioni sincere e durature che nel tempo si vanno consolidando con altre città. C’è una strategia delle Città Vicine che le accomuna nel loro fare: ad esempio, le iniziative che si svolgono nelle città vengono organizzate prevalentemente in spazi istituzionali. Ora sono spazi del Comune ora della Provincia, dell’università, della scuola, biblioteche pubbliche, sedi sindacali, istituti religiosi e via discorrendo. Chiaramente non sosteniamo nessun partito e nessuna candidatura di turno e neanche agiamo da interni nelle istituzioni, ma accerchiamo con insistenza sempre maggiore le istituzioni, mettendole alle strette e mostrando il nostro valore e il nostro desiderio. Non lavoriamo per esse quindi, ma facciamo sì che donne e uomini interni all’ambito istituzionale non possano fare a meno d’interessarsi a noi, di riconoscere la bellezza e la sensatezza di quanto diciamo e facciamo, insomma di vedere la novità del cambiamento che viaggia con noi.
Vorrei dire qualcosa in merito all’opportunità di occupare anche spazi all’aperto per le iniziative: per esempio a Catania per l’associazione Città Felice è molto importante operare anche negli spazi aperti istituzionali della città, organizzare dibattiti, mostre, presentazioni di libri, proiezioni, performance, ecc. in vie, piazze, cortili storici, chiostri religiosi della città per affermare la nostra costante presenza e creare tradizione femminile. Per esempio a Chioggia il comune ha affidato alle donne di “mare Chioggia e il suo territorio” che ogni anno celebrano la festa della Riconoscenza, un terreno molto vasto dove realizzare ogni anno nello stesso periodo un’iniziativa ricca di fantasia creativa e di senso. Aver fatto proprio il linguaggio dell’arte consente alle Città Vicine di dare forma a pratiche trasformative, suggerisce ulteriori possibilità espressive, sensi nuovi e chiavi di lettura originali per interrogare la città nel suo essere e nel suo divenire.
Brevemente vorrei portare alcuni esempi di buoni esiti di questo lavoro delle Città Vicine perché io sono convinta che l’aspetto di estraneità di cui parlava prima Maria Castiglioni, in merito a quel doppio piano in cui permangono le istituzioni non facendo venire a galla tutto quanto c’è di buono nel lavorio delle relazioni, si possa modificare mediante la narrazione articolata e le elaborazioni in cui riusciamo a esprimere la complessità e il senso di un percorso. Per esempio, a Catania con la Città Felice abbiamo fatto comprendere a buona parte della città, grazie alle relazioni instaurate con donne e uomini di altre associazioni, come l’intenzione di costruire dieci parcheggi multipiano sotterranei con in corso d’opera l’aggiunta di centri commerciali da parte di privati in accordo con l’amministrazione comunale, rappresentasse un’idea a dir poco dissennata. All’inizio sembrava una lotta tra Davide e Golia, ma l’aver suggerito alcuni accorgimenti in merito all’esecuzione dei lavori e suggerito possibili soluzioni alternative ha fatto sì che della questione si interessassero magistrati e Italia Nostra, che hanno bloccato i lavori in attesa di progetti migliori. In più quello che è rimasto nell’animo a molti in città è stato proprio il senso del nostro fare e della nostra politica che non mostrava la messa in campo né di logiche di potere, né posizioni reattive o di solo contrasto.
Ultima cosa: vi aspettiamo all’Aquila all’incontro nazionale del 7 e 8 di maggio, io ci andrò con altre delle Città Vicine per approfondire la conoscenza con quella città devastata dal terremoto e sostenere le coraggiosissime donne “dei campi” che stanno lavorando per ridisegnare insieme ad altre le loro “Terre-Mutate” e far rinascere la loro e anche nostra Città del Desiderio.

 


Maria Giovanna Piano

L’esperienza che porto è quella dell’I.fo.l.d. (Istituto di Formazione Lavoro Donne), associazione nata alla fine degli anni ’80 e che nel tempo è diventato un ente di formazione di una certa importanza.
In origine, l’associazione (formata per lo più da insegnanti già impegnate a scuola nelle pratiche di pedagogia della differenza) si occupava di aggiornamento delle docenti e di approfondimento delle problematiche relative ad un ri-attraversamento dei saperi e dei linguaggi. Contestualmente abbiamo avviato un piccolo ente di formazione pensato come una sorta di laboratorio di nuove pratiche politiche e formative.
Inizialmente la formazione era rivolta esclusivamente alle donne, cui era chiesto di uscire dalla riduttiva ottica di fruitrici di un servizio e di pensarsi in un percorso più importante e soggettivamente partecipato.
Ci eravamo accorte che molte delle donne che venivano in formazione (in particolare le laureate), erano alla ricerca di un senso di sé e pensavano di trovarlo mutuandolo dall’importanza delle figure professionali di riferimento. Una carenza di essere che si pensava colmabile in forza dell’habitus professionale. Avevo già visto qualcosa di simile nella scuola, donne che traevano il senso della propria importanza dal grado di prestigio delle discipline che insegnavano. Abbiamo lavorato con attenzione su queste dinamiche proponendo i percorsi formativi come acquisizione di competenze professionali che potevano legarsi a percorsi di autonomia simbolica. Nel frattempo cresceva in noi l’esigenza di una riconsiderazione dell’importanza del lavoro nella vita delle donne e di una riflessione altra rispetto ai format della sociologia emancipazionista imperante in quegli anni.
Nel tempo il piccolo Ente è diventato sempre più consistente. Partecipiamo a bandi di gara e vinciamo molti progetti. Lavoriamo prevalentemente con risorse pubbliche (pur avendo anche qualche esperienza di lavoro con privati), in tal senso siamo un soggetto privato-pubblico.
Nel panorama formativo della nostra realtà ci troviamo a essere per molti versi in una condizione atipica, non abbiamo sponsor politici, non siamo emanazione di partiti, sindacati e/o affiliati, questo ha comportato la messa in campo di un di più di competenze da cui molti si sentono esonerati. Il di più di passione politica e culturale, vero motore della nostra attività, rimane la cifra della configurazione interna come pure del nostro rapporto con le istituzioni. A lungo abbiamo pensato di vivere politicamente in un mondo felice, tutto abitato da pratiche di politica prima, le cui contraddizioni non intaccavano il senso di superiorità di essere nella politica prima completamente, lontane dalle logiche di potere proprie della politica seconda.
Nominavamo i rapporti (obbligati) con le istituzioni regionali di riferimento per le nostre attività come rapporti burocratici. A un certo punto ci siamo rese conto che tale nominazione non dava conto di ciò che avveniva, in particolare nel rapporto con diverse funzionarie. Ci siamo rese conto che le pratiche di relazione, che pur con tante contraddizioni e battute d’arresto avevano segnato la nostra attività in lontananza dalle istituzioni, lavoravano quasi spontaneamente anche all’esterno della nostra organizzazione, non solo in ambiti affini, ma in luoghi estranei e assolutamente impervi. Sembrava quasi che più che portare quelle forme di relazione ne fossimo portate.
Quasi spontaneamente si creavano delle cose che ci facevano pensare, cose diventate così evidenti anche alle persone (donne ma anche uomini) con cui ci relazionavamo istituzionalmente, pratiche che in Regione (ci dicono e ci diciamo) non si erano mai viste. Infatti i rapporti istituzionali sono per lo più improntati al clientelismo dei partiti che sponsorizzano questo e quello.
Senza enfatizzare ciò che ci sembrava politicamente una novità, abbiamo rilevato che si andava creando un rapporto di fiducia tra il nostro ente e l’istituzione di riferimento, un rapporto fatto di trasparenza e di esplicita e chiara diretta contrattualità, i cui risultati sono visibili anche ai tavoli in cui veniamo chiamate ad esprimere il nostro parere sui vari problemi attinenti l’attività del settore.
Una cosa molto diversa dalle complicità, forzature, deroghe, dinamiche che degradano la qualità di un ambito così importante come la formazione, facendone merce di scambio.
Oggi è per noi più chiara l’idea che le sorti della formazione possano risollevarsi solo a partire da queste pratiche.
L’altro aspetto che volevo sottolineare riguarda il fatto che noi abbiamo sempre pensato di essere al riparo dalla politica seconda, vista sempre fuori di noi e da noi non scelta.
Avevamo sottovalutato che la crescita rilevante del nostro Ente portava al nostro interno una configurazione anche istituzionale e che i processi di Istituzionalizzazione favoriscono dinamiche e modalità organizzative proprie della politica seconda. La politica seconda si faceva strada nella nostra stessa organizzazione. Organizzazione che peraltro diventava essa stessa contesto di lavoro.
Personalmente reagivo a questa presa d’atto con un forte malessere che mi portava a prendere le distanza da tutti gli aspetti amministrativi. Vivevo la dimensione amministrativa come la deriva della politica (Hannah Arendt docet), per cui tendevo a comprimerla, circoscriverla, renderla invisibile, non riconoscerla come attività che invece stava guadagnando progressivamente spazi rilevanti. Così rilevanti che non si è potuti più tenerla sotto sabbia ed è arrivato il momento in cui ci siamo dette: la politica prima deve misurarsi con la dimensione amministrativa e con tutte le dimensioni istituzionali che stanno sorgendo nella nostra organizzazione. Abbiamo accettato la scommessa: misurare, partendo da noi e dal lavoro fatto, cosa vuol dire buon governo dell’amministrazione, cosa vuol dire buon governo di un’organizzazione ormai diventata anche un contesto di lavoro dai tratti imprenditoriali. Oggi sappiamo che sotto le lente della politica prima anche un bilancio di esercizio può perdere la sua falsa neutralità.
L’impresa politica è diventata anche un’impresa economica con un ampliamento del ventaglio professionale del mondo del lavoro: Sanità, Beni culturali, alta formazione, settori delle nuove tecnologie, professioni ambientali ecc.
Abbiamo acquisito competenze e saperi nuovi e inimmaginabili per noi, quando io ho sostenuto il desiderio fondativo di Mariolina Fusco da cui è nato un contesto che ha visto la realizzazione dei miei più significativi desideri.
Il nostro lavoro si è notevolmente articolato, per l’intersecarsi di piani diversi: la dimensione didattica-formativa, le relazioni che la sottendono, le relazioni di lavoro nel contesto interno all’organizzazione e la proiezione nei diversi settori del mondo del lavoro verso cui orientiamo le persone, donne e uomini, che frequentano i nostri numerosi corsi. Poi c’è tutta la gestione amministrativa istituzionale che ci è apparsa a lungo materia opaca e impenetrabile alla nostra politica, non avendo in tale ambito altre esperienze per noi politicamente confortanti. Il malessere nel doverci occupare di cose diventate inevitabili oggi è passato. Mi sono interrogata se è passato per assuefazione al negativo a cui non è possibile sottrarci o se c’è qualcos’altro. Credo proprio che ci sia qualcos’altro.

 


Interventi:

 

Marina Terragni
Ci siamo resi conto che dire politica prima e politica seconda, identificare la politica prima con quello che facciamo noi e la politica seconda con i partiti e le istituzioni finisce poi per ipostatizzare questa politica seconda come qualcosa di immutabile. Noi siamo arrivate più o meno alla conclusione di Maria Giovanna per altre strade, cioè non passando attraverso l’esperienza. Quindi mi conforta che l’esperienza reale indichi una possibilità di pratiche di relazione laddove noi pensiamo che non ce ne siano, e il rischio viceversa di irrigidirsi in una politica seconda dove tu credi di fare altro. Mi colpisce questa complessità, l’esistenza di punti di punti di passaggio tra politica prima e seconda, una permeabilità. Questo secondo me racconta anche quello che io sto tentando di fare con altre nella partita politica milanese: vedere dove ci sono le possibilità di passaggi, di varchi, e tenerli bene aperti. Poi magari non ci riesce, però almeno questo tentativo lo facciamo.

 

Luisa Muraro
Tenendo presente che è vero che parlare di politica prima e politica seconda finisce, come dice giustamente Marina, per ipostatizzarle, per bloccarle come se fossero due entità, sulla questione della politica prima e seconda vorrei riportare il risultato di una discussione che è stata fatta qui un anno fa. Dico la conclusione così come me la ricordo, non era una conclusione unanime: la politica seconda è una politica che sta morendo, in realtà. Quella che noi chiamiamo politica seconda è in una specie di agonia dove ogni tanto, soprattutto a livelli locali, a livelli amministrativi, ci sono personalità che riescono a far vivere lo spirito della politica. E lo spirito della politica è che ci sia politica e non ci sia la logica del potere.
La politica nasce così, da quando è nata, per impedire che si impongano rapporti di potere. Ormai si impongono i rapporti di forza e di potere, i soldi principalmente e altre fonti di forza, per cui la cosiddetta politica seconda è un puro trafficare, bilanciare eccetera, questioni di potere, chi più chi meno, cioè non è politica ed è morta.
Quando Marina dice il suo avvicinarsi a quegli ambiti, tipo la politica partitica che è in agonia, la politica istituzionale che è in agonia… quando si va lì si va a fare politica prima, né più né meno.
La conclusione di quella volta era esattamente questa: che c’è solo la politica prima, c’è solo la politica che vuol dire stabilire relazioni e riuscire a realizzare più ampiamente possibile attraverso la forza della convinzione e delle relazioni quei traguardi di convivenza civile, di benessere e di risposte civili ai problemi man mano che si pongono, perché non si finisca come purtroppo si sta finendo con delle non soluzioni.
L’esempio che non c’è politica è la spedizione libica, non si sa più da che parte prendere la situazione e non perché semplicemente hanno fatto la guerra invece di fare politica, neanche la guerra sanno come farla perché non sanno più a che punto fermarsi e come farla, è cioè la totale morte della politica.
Quindi io sono d’accordo che si faccia questa distinzione purché sempre più orientandoci a renderci conto che quando si fa politica, si fa quella che noi chiamiamo prima e si fa ovunque, e io so che anche Marina è con questo spirito che ha avvicinato e tenta di agire all’interno di quel dispositivo che porterà alle elezioni comunali della città di Milano. Che sono importanti a livello nazionale.

 

Laura Minguzzi

Volevo riprendere il discorso delle relazioni con donne che sono nelle istituzioni, nei partiti o in altri luoghi di politica seconda; nel senso che nella mia esperienza personale – ripeto qui cose che si sono sempre dette, riflessioni che abbiamo sempre fatto – queste relazioni che abbiamo intrattenuto nel passato con alcune donne sono sempre state molto estemporanee, finalizzate; si attivavano sempre alla vigilia di elezioni politiche o amministrative e quindi erano sempre connotate da questa eccezionalità, frammentarietà, non c’era il fattore tempo-continuità di cui ha parlato Maria Giovanna Piano. Anzi, lei ha detto chiaramente che il fattore tempo è stato determinante; ha permesso loro di capire cose che altrimenti sarebbe stato impossibile capire, in una relazione breve e scandita sul tempo altrui. Le contraddizioni che hanno visto, che si sono rese visibili anche al loro interno, nel loro contesto, sono emerse con il tempo, quindi anche il nome che prima loro avevano dato alle relazioni con le funzionarie regionali, per esempio, con il tempo ha potuto cambiare: da burocratiche hanno potuto avere un altro nome, e diventare relazioni vere in seguito a esperienze e riflessioni nate da una frequentazione di lunga durata. Quindi il fattore tempo non è secondario nella nostra politica. Il tempo è un modo di pensare. Perciò ci hanno sempre insospettito quelle relazioni che nascono o sono nate alla vigilia di elezioni e poi spariscono una volta passato il momento caldo…
Nel suo intervento, Anna di Salvo ha parlato della strategia dell’accerchiamento verso donne delle istituzioni; questa parola, anche noi in passato l’abbiamo utilizzata come strategia del costruire relazioni per noi importanti con donne che ricoprivano ruoli importanti in partiti o in sindacati, nei comuni, con sindache ecc. Con questo lavoro di “accerchiamento”, un lavoro politico quotidiano, noi speravamo di trarne per noi quello che era l’essenziale, quello che serviva per la relazione politica: migliorare la qualità delle relazioni e darci visibilità nella città. A volte sono accaduti cambiamenti simbolici a volte no. Oggi posso dire che nel percorso di accerchiamento, se vogliamo usare questa parola, ci sono sempre degli svelamenti e si mettono a nudo delle verità che, anche se non si possono misurare in termini di risultati oggettivi o obiettivi, col tempo e col lavoro del pensiero, possono portare a modificazioni profonde.

 

Oretta Dalle Ore
Mi ha molto colpito quello che ha detto la nostra amica sarda perché ha quasi solo parlato di progetti e non di desideri, e trovo che ciò sia molto importante.

 

Loredana Aldegheri
Pinuccia Barbieri, Anna Di Salvo e Giovanna Piano hanno fatto oggi una fotografia – da punti di vista diversi – di una realtà politica in crescita, significativa, vera e importante. Interessante è l’elenco degli interventi, che ha comunicato Pinuccia a partire da Immagina che il lavoro, testo che ha sortito una vasta interlocuzione esterna. Queste nostre politiche vengono cercate… All’Aquila siamo state chiamate anche come Città Vicine a presenziare prossimamente ad un seminario per allacciare rapporti con realtà femminili che operano una ri-costruzione dal basso.
Poi, il discorso quadro che ha fatto Maria Castiglioni dimostra un avanzamento della politica prima. Quindi la politica delle donne, la politica prima, quello che è stato detto stasera, è in crescita di qualità: crescono i rapporti di credibilità ed è importante dirselo, compresa la presenza qui stasera di tante donne. È vero che comunque ci sono tanti patimenti, che c’è un potere, anzi uno strapotere, che come ha detto prima Luisa Muraro “ne fa di ogni”. L’economia va come va, le istituzioni, soprattutto più in alto si sale, sono spesso arroganti e quindi c’è una grandissima contraddizione con il livello della politica prima che opera a livello territoriale. Come dicevo, la politica prima è in crescita e lo dimostrano anche le altre importanti iniziative; Diotima per esempio. Al Grande Seminario c’è sempre una presenza forte delle donne. Ma c’è anche da tener conto dello strapotere imperante. Strapotere economico che porta a una distribuzione delle risorse in modo iniquo, che non permette a tante energie, tante intelligenze di farsi progettualità.
Complimenti per tutti i progetti che fate, ma ci sono tante trentacinquenni, trentenni che hanno una ricca formazione e anche tanta voglia di costruire, di sperimentare, ma che non hanno credito, non trovano mezzi ecc. C’è da affrontare secondo me un nucleo molto, molto grosso che posso chiamare… conflitto/lotta con il potere. [Luisa Muraro suggerisce: “rivolta verso il potere”].
Io, nella mia immaginazione, in questo periodo, mi sono pensata qualcosa di rivoluzionario. E di riprendere Gandhi. Sandra De Perini mi ha detto che ha letto un libro sulle pratiche non violente di natura rivoluzionaria e che c’è un qualcosa che qua e là si muove in questo senso… Nel Maghreb, i movimenti tunisini mi hanno sollecitata a ripensare a delle forme di un cambiamento che non si può più tanto rinviare.

 

Marina Terragni
A proposito di quello che diceva Luisa, che la politica non esiste più nei luoghi della rappresentanza, che lì c’è solo brutale esercizio del potere: il call center della Regione Lombardia è a Paternò, voi chiamate e vi rispondono in siciliano, perché Paternò è il feudo di Ignazio La Russa… Questo è solo un piccolo esempio, c’è senz’altro di peggio, ma è molto suggestivo.
A proposito del fatto di portare la politica in quei luoghi: si può pensare una specie di doppio movimento. Un movimento è quello di cercare di costruire relazioni. Non parlando di politica prima, non avendo questa urgenza di nominarla, ma semplicemente facendola. Facendola come l’hai fatta tu (qui mi rivolgo sempre a Maria Giovanna). A un certo punto ti sei resa conto che con queste funzionarie tu avevi istaurato delle relazioni in cui correva politica, e ci hai dato dentro perché questa cosa crescesse e prendesse piede e quindi c’è stato un gioco di riverbero. Questo è bellissimo. Quindi un movimento è cercare di costruire relazioni con chi già è dentro ed è corrotto da un altro linguaggio, il linguaggio tremendo dell’amministrazione che a te ha inizialmente fatto spavento. L’altro movimento è provare a portare lì dentro relazioni che hanno già corso fuori.
L’altro giorno, nell’ambito di questo lavoro faticoso e doloroso che sto provando a fare con grande dispendio di tempo e di energie, ho deciso, sentendo girare dei nomi di cooptate per le parte di vice sindaca di centro sinistra, di darmi autorità da sola per dire che la vice sindaca per il centro sinistra poteva essere Arianna Censi. Tante di noi la conoscono. Naturalmente ci sono state delle obiezioni: alcune hanno detto che con Arianna c’erano già stati tentativi di relazione non andati bene, intermittenti e faticosi. Ma io penso che comunque ne valga la pena. Mi muovo in una logica di riduzione del danno, e Arianna Censi è giusta per questo tentativo per molte ragioni: ha un’ottima capacità di mediazione, un legame anche con quello che viene detto un nuovo femminismo. L’idea di Arianna vice sindaca era nata dentro questo Tavolo Zero/ Doppio Sguardo dove abbiamo cominciato a ragionare insieme, con Silvia Marastoni e Lilli Rampello. Poi la cosa si è allargata, abbiamo fatto una giornata di riflessione. Il nome di Arianna quindi c’era venuto in mente, ma ho dovuto decidere da sola e in velocità che era il momento di dare lo strappo. Si può lavorare intorno a questo nome, e anche ad altri nomi per la squadra, perché si andrà probabilmente al ballottaggio, e spero che subito dopo il primo turno il centro sinistra presenti una squadra, è molto importante per vincere al secondo turno. Sarebbe interessante portare nomi di donne e anche di uomini con cui noi abbiamo già un discorso, il che non toglie la possibilità di mettere un piede li dentro, in quello che già esiste, e costruirle queste relazioni, come l’esperienza di Maria Giovanna ci insegna. Questo appare forse più faticoso, ma non è detto. Magari lì ci vanno le persone che hai indicato tu, ma mantenere questa relazione non è meno faticoso, nulla è scontato. Però io voglio intensamente provarci perché non posso più sopportare la politica dei call center a Paternò.

 

Mirella Maifreda
Vorrei fare una domanda all’amica sarda. Hai fatto una bellissima relazione, ma mi manca il pezzo finale: hai accennato alle contraddizioni nelle quali sei incappata ma non ti sei soffermata nello specifico. Vorrei che tu approfondissi meglio qual è stata la fonte del malessere e quali le modalità che hai trovato per affrontarlo e conviverci.

 

Silvia Marastoni.
Innanzitutto, Maria Giovanna, noto che quel che ci hai riportato conferma i racconti di altre mie amiche sarde a proposito di Soru: quando si è candidato l’hanno sostenuto con convinzione, hanno scommesso su di lui; ma poi il suo modo di governare, di interpretare il suo ruolo (uno stile che ho recepito come quello di “un uomo solo al comando”) le ha molto deluse. L’episodio che ci hai riferito assomiglia molto ai loro racconti.
Poi, una domanda: dicevi che la vostra politica, le vostre pratiche hanno modificato l’atteggiamento inerziale delle funzionarie con cui interloquite nelle istituzioni. Ho capito che si tratta soprattutto di donne: se è così, m’interessa sapere se e come conta, per te, questo fatto. Quanto la disponibilità a ripensare e ristrutturare i processi e le procedure dipenda dall’aver visto nel vostro modo di lavorare qualcosa di sé, uno stile in cui ritrovare un senso che la burocrazia impersonale non offre, un guadagno che vale lo sforzo necessario per inventare percorsi diversi.

 


Maria Giovanna Piano
Quando abbiamo cominciato a occuparci del lavoro, di come le donne stavano nel mondo del lavoro, ci sembrava di non avere riferimenti. Ancora non era nato il Gruppo lavoro della Libreria, e la politica della differenza non sembrava interessata a questo. Il lavoro delle donne era un tema proprio della tradizione dell’emancipazionismo. La presenza delle donne nel mondo del lavoro era interpretata criticamente, per lo più in termini di segregazione.
Non esistevano interpretazioni che guardassero al senso del lavoro, ne l’idea che l’ambito del lavoro fosse per le donne un ambito pubblico a valenza politica. Poi nel giro di poco tempo Lia mi aveva invitato a degli incontri allargati sul lavoro (non era ancora il Gruppo lavoro). Era stato interessante confrontarsi anche con uomini come Sergio Bologna e Christian Marazzi, che riflettevano sul lavoro con un taglio diverso e nuovo. Le cose sono andate meglio via via che la riflessione e il confronto si articolavano.
Rispetto a quanto diceva Luisa, è vero che dove c’è politica prima non c’è politica seconda, però tale considerazione non rende superflue le problematizzazioni cui accennavo. Perché è vero anche che le pratiche di politica prima non si sono ancora cimentate sui temi che tradizionalmente sono propri degli ambiti in cui domina la politica seconda, ossia i temi dell’organizzazione, dell’amministrazione, del governo. La nostra esperienza ci ha portato nel rapporto con le istituzioni a pratiche che hanno costituito una vera e propria interferenza rispetto a modalità rigorosamente dipendenti dal potere politico. Nelle relazioni con le funzionarie dell’amministrazione regionale si è creato un di più che ha aperto per loro una maggiore libertà nelle scelte quotidiane del loro lavoro e di assunzione di responsabilità più autentiche. Tutto questo non era stato nominato e inizialmente era fuori dalla loro consapevolezza come dalla nostra. Quel di più ha richiesto pazienza e tempo ma poi si è reso visibile come risorsa di libertà per loro e per noi.
Quel di più ha fatto arretrare, sia pure parzialmente e in maniera intermittente, collaudatissime politiche di potere. L’istituzione ovviamente non ne risulta modificata, ma è come se all’interno di un universo compatto si fosse aperta una crepa e per quella crepa si fosse mostrato che qualcuno/a cominciava a respirare di suo.

 

Bianca Bottero
Sono stata molto interessata dal racconto di Maria Giovanna, un racconto a lieto fine per quella che si potrebbe definire una lunga marcia attraverso le istituzioni. Si danno questi casi, per fortuna. Sono congiunzioni eccezionali di astri che permettono – grazie anche alla particolare intelligenza e preparazione dei soggetti che costruiscono la struttura delle relazioni – il crearsi di sinergie, di empatie, che superano secondo forme nuove e creative quelle rigidità burocratiche, quelle logiche autodifensive che caratterizzano in genere gli organismi istituzionali di governo e di potere, in questo caso gli uffici regionali della Sardegna .
Vorrei sottolineare che si è trattato, nel caso descritto, dello svolgimento di un iter programmatorio normale, normale non perché normalmente avviene, ma perché tale ci parrebbe dover essere quando si affrontano problemi vitali per una comunità: sono state svolte delle ricerche, se ne sono derivate delle proposte, queste sono state valutate nel merito, sono state apprezzate, premiate e incentivate.
Di solito, però, le cose vanno diversamente e parlo per diretta esperienza nella mia regione, che è la Lombardia, e nel mio luogo di lavoro che è l’Università. Qui (faccio solo un esempio) per anni ho diretto un gruppo di ricerca che aveva il proprio centro di interesse sui problemi della casa e dell’ambiente. Ora, in anticipo sugli altri studiosi del ramo, il nostro gruppo propose alcuni anni fa un Master sui temi dell’ecologia ambientale e della progettazione sostenibile. Il primo anno, evviva, il corso viene finanziato dalla Regione! Ma l’anno successivo molteplici altre proposte vengono presentate sugli stessi argomenti da improvvisati ricercatori provenienti, sospetto, dal fertile vivaio di Comunione e Liberazione! L’esito si può immaginare.
Dunque competenza e intelligenza dei rapporti ben raramente riescono a rompere certi muri di interesse, certi poteri forti. Rispetto ai quali Loredana Alighieri, che con la sua organizzazione MAG si trova sempre a scontrarsi con problemi di questo tipo, evocava addirittura la necessità di una vera e propria rivolta. Separare la politica dal potere, come sempre si auspica in questa sede, è allora un’alchimia difficile che, oggi in particolare, richiede di essere vagliata caso per caso.
Una strada suggestiva è quella che ci indica Anna di Salvo, con la sua immaginosa strategia del lento accerchiamento delle istituzioni.
Tale è in fondo l’obiettivo ambizioso che si è espresso nella costituzione della rete delle Città Vicine, un coordinamento tra città che Anna ha fortissimamente voluto e che già ora ci fornisce un supporto di ragionamento e di scambio prezioso, ricco di esperienze e di teoria, e dà forza alla costruzione di iniziative e azioni non subalterne alle logiche istituzionali, – come abbiamo constatato nel Convegno Microarchitetture del quotidiano, sapere femminile e cura della città tenutosi in questa sede due anni fa e i cui Atti, di grande interesse, saranno a breve pubblicati dall’editore Liguori col titolo Città del desiderio.
Proprio in quel convegno, per tornare un attimo alla lunga marcia nelle istituzioni, Emilia Costa riferiva di una sua esperienza nella progettazione di un piano regolatore per un piccolo centro dell’entroterra ligure, dove pure si era trovata in un rapporto molto collaborativo con la sindaca, desiderosa di svolgere un azione di buon governo: ma raccontava che alla fine aveva dovuto scontrarsi, insieme alla sindaca, con difficoltà enormi, con ostacoli messi da chi il buon governo non sa nemmeno dove sta di casa, con im-prenditori che, come lei dice, dovrebbero piuttosto chiamarsi prenditori.

 

Vita Cosentino
Mentre parlava Bianca Bottero ho pensato che io mi trovavo in una posizione quasi opposta alla sua. Quello che ho colto di molto interessante questa sera, soprattutto dall’intervento di Maria Giovanna Piano, è il come raccontava la loro esperienza. Per esempio quando diceva: “Noi credevamo di fare politica prima e andavamo avanti, invece avevamo tutte queste contraddizioni”. Secondo me in quell’esperienza ha molto pagato questa sorta di innocenza. La chiamo così per un atteggiamento che mi corrisponde per le mie, le nostre, pratiche di quegli anni a scuola: pensare che una cosa sia giusta e farla anche con una certa semplicità. Mi sembra che questo atteggiamento oggi sia diventato più difficile, non perché ci siano meno possibilità, quanto per una specie di gabbia mentale: ne sentiamo talmente tante di malefatte del potere – basta ascoltare la rassegna stampa al mattino – che questa molla innocente non è più così facile da trovare. Credo sia questo il problema. È vero che oggi quella politica lì è veramente morente e questo apre ancora di più di allora, ma è anche vero che c’è quest’intoppo di essere come appesantite da una pesantezza che non ci appartiene. Sottolineo questo punto: è una pesantezza che non ci appartiene. Nelle parole di Maria Giovanna si vedeva benissimo che quella pesantezza non c’era e poteva andare. Mi sembra questo uno dei punti da considerare. È vero che Formigoni è potente, tutto vero, però non è lì la nostra questione.

 

Clara Jourdan
Rispondo a Bianca Bottero: se cominci a mettere in campo la presenza di Comunione e Liberazione come un ostacolo insormontabile, allora è inutile che stiamo a discutere, non si può far niente.
Che cosa dovrebbe dire Anna che è qui che parla e che vive in una regione dominata dalla mafia? In quello che tu dici c’è un mettere davanti una impossibilità che le altre non hanno: qualcuna ti fa vedere un’esperienza positiva però la tua situazione è un’altra cosa… È proprio il modo di ragionare: finisci per ridurre quello che ha detto Maria Giovanna a delle condizioni favorevoli, invece è il contrario. Allora io ti dico: guarda, abbiamo qui una persona che sta facendo un sacco di cose ed è in una regione dominata dalla mafia. Ti voglio invitare a non abbassare le cose che ascolti solo perché tu non sei riuscita a ottenere ciò per cui hai lavorato.

 

Loredana Aldegheri
Io volevo dire che non sono d’accordo con Marina Terragni quando suggeriva di non nominare più la politica prima perché “basta farla”. Secondo me invece è molto importante nominarla perché è importante incoraggiare il maggior numero di persone che la politica prima è semplicemente ciò che ognuno/a può fare nel luogo dov’è, con le proprie energie, passioni, desideri, con le proprie relazioni, dando credibilità e fiducia agli scambi di vicinato. È fondamentale che circoli quest’idea che non c’è solo la politica organizzata e quindi, proprio in questo senso, va nominata la politica prima non per un discorso di manierismo.
Un altro punto: politica prima e grandi poteri – ne avevamo parlato nelle ultime riunioni di Città Vicine. In mezzo ci sono le funzioni pubbliche a cui tantissime donne e uomini danno credibilità, che vuol dire fare bene la scuola, gli ospedali, le strade e tante altre cose che vanno salvate. Quindi il governo delle funzioni pubbliche, che non è da identificare in toto con la politica seconda ovvero con i partiti. Va perciò riguadagnato e significato, come diceva Luisa Muraro, uno stile di autorità politica volta a far vedere i bisogni essenziali delle comunità dei territori e la loro buona gestione pubblica. Qui c’è anche tutto l’avanzato lavoro fatto da Elinor Ostrom che ha avuto il Nobel sul Governo dei Beni Comuni che non sono solo l’acqua, l’aria, ecc ma tutto quello che alle collettività serve e urge sempre più precisamente, tra cui il lavoro, l’impresa sociale e la finanza solidale.
È venuto a Verona Montezemolo, sono stata invitata a partecipare all’incontro e lui ha fatto un elenco di cose da chiedere a tutte le forme di governo. Proprio il contrario di quello che dice l’economia liberista. Senza tutte quelle cose di natura statuale l’economia privatistica e del profitto non va avanti. Questo sta a significare che, in una società complessa come la nostra, l’interdipendenza c’è e andrebbe nominata come tale. Le funzioni pubbliche vanno riattivate e risignificate, vanno rigenerate e razionalizzate. Questo processo riguarda tutti: associazioni, aggregazioni, cittadini/e attivi/e e va sottratto al potere e alle logiche dei clientelismi e dei favoritismi per un salto di civiltà di tutti/e.

 

Sandra Bonfiglioli Mi hanno interessata le due esperienze che sono state narrate. Mentre ascoltavo, mi sono figurata nel laboratorio della mente (lo faceva fare Einstein ai suoi studenti) in che cosa i due casi siano diversi pur essendo anche profondamente simili. Ciò che hanno fatto entrambi i progetti, sebbene con contenuti diversi, è stato di mettere in moto una pratica politica di donne che ha prodotto un cambiamento felice. La leva è stata la costruzione di relazioni con donne incontrate casualmente in istituzioni necessarie alla gestione dei progetti. Tra le donne promotrici dei progetti e le donne che lavorano nelle istituzioni è prima nato e poi è stato curato nel tempo un rapporto non solo professionale ma più profondo. In entrambi i casi le relazioni e le esperienze di cosa stava succedendo sono cresciute nel tempo. Tutte hanno imparato facendo. La prima, quella promossa dal circolo Città Felice è cresciuta in modo rizomatico: come le fragole, che agendo sotto, nel terreno, gemmano altri rizomi in altri terreni dove esistono le condizioni adeguate alla crescita e così si diffondono. La seconda, quella narrata da Giovanna Piano, è cresciuta per approfondimento della stessa relazione fra donne. La relazione è diventata sistematica e duratura nel tempo. Le une venendo dal di fuori e le altre all’interno dell’istituzione, parlando con lessici profondamente diversi (si può immaginare bene la scena), hanno colto nell’altra un desiderio. E tutte assieme si sono reciprocamente e sistematicamente sostenute mantenendo aperto il desiderio nel tempo e alimentandolo con la relazione durevole. Fino a liberare la loro carica di libertà, una libertà nuova e diversa che andava oltre a quella semplicemente professionale, e oltre lo scambio strettamente necessario allo scopo del lavoro.
Questo effetto felice di una relazione, cioè liberare una pratica ulteriore di libertà è forse una delle mete più agognate della nostra pratica politica di donne. E rassicura circa la forza politica di cambiamento della relazione fra donne.
L’ultima riflessione che ho fatto tra me mentre ascoltavo, è stata attorno a un’esperienza alla quale sono stata presente. Il progetto è durato una decina d’anni e ha dato luogo a entrambe le forme di crescita, per diffusione e per approfondimento della relazione fra donne di diverse istituzioni. In questo progetto la pratica della relazione, che chiamerei felice perché i risultati non sono necessariamente sempre brillanti come quelli narrati oggi, ha messo in moto il lento mutamento delle condizioni di libertà di altre donne. Anche in questo caso la pratica ha colto un desiderio già in noi presente e forse ancora nascosto, e hanno saputo esprimerlo con pratiche istituzionali non interamente ortodosse (lo sono diventate in seguito perché riconosciute come buone pratiche dati i visibili successi conseguiti). Nel caso di cui parlo, stupisce la vastità, il grande numero di donne coinvolte in una relazione felice. L’occasione fu data dalle politiche sui tempi della città. Un progetto che ha visto la presenza di donne in quanto abitanti che vivono duri conflitti fra tempi di vita, orari di lavoro e cura di sé e del mondo, donne con ruoli di funzionarie presso enti locali, donne elette, donne sindacaliste, donne ricercatrici e altro.
Desidero raccontarvi non questa mia esperienza ma la sua fine. Una domanda che ci dobbiamo porre è se queste pratiche, che abbiamo osservato produrre buoni cambiamenti, rimangono anche stabili nel tempo. E come possono rimanere stabili nel tempo.
Ho partecipato a queste pratiche nel ruolo ufficiale di esperta del Politecnico di Milano, ruolo che ho svolto nella massima libertà e responsabilità di ciò che ritenevo buono e utile per la crescita delle politiche volute, fatte e gestite da un vasto movimento di donne. La presenza di un’università di prestigio come il Politecnico ha certamente dato forza al progetto. A un certo punto ho deciso di smettere (avevo l’autorità e l’autorevolezza per farlo), ho deciso di togliere al progetto, di sottrarre la presenza: di me stessa, del laboratorio di ricerca nel quale lavoravano numerosi ricercatori, del nome del Politecnico e anche di un gruppo folto di donne che si era organizzato al suo interno. Perché? Mi ero resa conto che la nostra presenza – che in una lunga fase mi era parsa fertile per la crescita, diffusione, risultati del progetto e che aveva messo in risonanza la relazione fra donne di istituzioni diverse – stava creando una sorta di tappo, una sorta di eccesso di autorità, un freno a uno sviluppo più liquido, più legato alle circostanze favorevoli, più aperto a nuovi modi di esprimersi e di desiderare il cambiamento da parte delle donne. Stava diventando una confezione tecnica più che una relazione aperta.
È lì, secondo me, nelle circostanze che si vanno creando e che continuamente si creano nei contesti dinamici, messi in moto magari da una nostra iniziativa, che si può esercitare al meglio la nostra presenza e cogliere le occasioni di relazioni felici fra di noi fino a liberare una nuova libertà che si esercita con successo nel cambiamento di qualcosa del mondo. Lì, in quelle circostanze e in modo opportuno. Se ha senso più generale questa mia personale esperienza, allora occorre non solo saper agire ma anche saper sottrarre, togliere la presenza per lasciare libero spazio ad altre più opportune. Questa della fine è una questione che vi pongo alla riflessione.
Marisa Guarneri
Anche nella mia esperienza il fatto di non avere padrini è stato favorevole e sfavorevole nello stesso tempo. Sfavorevole dal punto di vista economico, favorevole dal punto di vista politico nel senso che si sono create delle relazioni, anche qui nel Comune di Milano: rete antiviolenza, case delle donne maltrattate. Sulla qualità del lavoro, su questo mi riconosco molto nell’esperienza che portava Giovanna Piano. Se c’è qualità del lavoro a un certo punto il riconoscimento deve venire, però l’istituzione non demorde: adesso che siamo in fase di rinnovo di convenzione, vengono avanti coperte da un discorso di legge sulla privacy delle cose che per noi sono fondamentali dal punto di vista dell’anonimato, della segretezza che garantiamo alle donne. Qui si apre un altro fronte con cui misurarsi e vedere se il contenuto riesce a spostare il terreno.

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