6 Febbraio 2016

Si parla di utero in affitto (o maternità per altri) alla Libreria delle Donne di Milano

di Marina Terragni

 

Il dibattito alla Libreria delle Donne di Milano

Questo il mio intervento al dibattito di ieri sull’utero in affitto alla Libreria delle Donne di Milano. Con me, la filosofa Luisa Muraro e Daniela Danna, ricercatrice in scienze sociali all’Università Statale di Milano (purtroppo non dispongo di loro testi da pubblicare, né della discussione che è seguita, ma qui è visibile tutto lo streaming). A chi frequenta abitualmente questo blog gli argomenti che porto saranno in buona parte già noti. Sono molto soddisfatta della serata e ringrazio le tantissime che hanno partecipato.

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“Penso su questa cosa dell’utero in affitto più o meno in solitudine da tanti anni, ma a volte diventa tutto così complicato che non vorrei pensarci più per attenermi alla semplicità quello che Eduardo fa dire a Filumena Marturano, “i figli non si pagano“.

Ma in questi tempi di dirittismo esasperato le cose tendono a complicarsi. La verità della relazione madre-figlio è molto semplice ed è un fondamento di civiltà sottratto al mercato (appunto, i figli non si comprano e non si pagano). Quel due indistinguibile dall’uno è una delle poche verità fondative che ci restano. Anzi, lo metto in forma di domanda: che cosa c’è in quella relazione che va assolutamente preservato, e che cosa c’è invece che si vuole rimuovere e nascondere?

Se cominci ad ammettere eccezioni, se tu pensi che separare madre e figlio sia un’operazione ammissibile, che tutto ciò che le tecnologie riproduttive ti consentono sia eticamente e umanamente accettabile e in automatico possa tradursi in mercato e neo-diritti, quella verità ti esplode fra le mani e deflagra in una complessità ingovernabile e in un enorme disordine simbolico.

Quando nelle relazioni, quando per esempio in una famiglia si arriva a mettere tutto sul piano dei diritti vuole dire che le cose non stanno andando bene.  Il “dirittismo” ossessivo e pervasivo con cui oggi si pretende di regolare la convivenza umana è il segnale che qualcosa sta andando storto, che c’è una guerriglia in atto.

Vi faccio un esempio di questo dirittismo esasperato: una bioeticista, Chiara Lalli, sostiene che è tutto da vedere se per i bambini che nascono da utero in affitto sarebbe preferibile non essere nati, dice che non abbiamo elementi per sostenerlo: e poiché quei bambini possono nascere solo con utero in affitto, negare questa possibilità equivarrebbe a negare a questi individui in potenza il diritto di tradursi in atto, ovvero di venire al mondo. Cioè si attribuiscono diritti non solo all’individuo esistente, ma perfino all’idea di individuo, all’individuo in potenza, a ciò che potrebbe essere individuo e ancora non lo è ma potrebbe esserlo.

Si tratta forse di riportare la questione da questo enorme disordine simbolico a quello che Luisa Muraro per prima ha chiamato ordine simbolico della madre, e forse è questo il tentativo che oggi faremo qui. Tanto per cominciare, facendo un po’ di pulizia su questi neodiritti.

Per esempio, il diritto alla “genitorialità, figlio di una cultura dirittistica e adolescenziale che non distingue tra desideri e, appunto, diritti, e fonda un diritto per ogni desiderio. Sarebbe come affermare il diritto ad avere un marito o una moglie: il mio diritto, semmai, è che nessuno mi impedisca di legarmi liberamente a qualcuno/a, ma non posso certo pretendere che mi venga garantito un legame affettivo. Così per i figli: ho diritto a metterli al mondo, se intendo farlo, ho diritto a che nessuno mi impedisca di diventare madre o padre minacciando per esempio di licenziarmi, come avviene correntemente alle giovani precarie (diritto per il quale si battono in pochi). Ho diritto a cure mediche ragionevoli, se la mia salute riproduttiva le richiede. Ma non posso chiedere che lo Stato mi garantisca di essere padre o madre a ogni costo e in qualunque condizione, fino a consentire un vero e proprio mercato dei figli. L’unica titolare di diritti è la creatura: diritti a cui le convenzioni internazionali riconoscono assoluta superiorità, e che nei discorsi sull’utero in affitto e più in generale sulla fecondazione assistita vengono invece tenuti spesso come terzi e ultimi.

Anche perché affermare un diritto significa ipotizzare un corrispettivo dovere: se, quindi, si pone un diritto alla genitorialità, chi è titolare del dovere corrispondente? se ho diritto ad avere un figlio, chi ha il dovere di darmelo? Una donna, al momento non c’è alternativa. Quindi toccherebbe alle donne farsi carico di questo dovere.

Un altro diritto di cui si discute è quello a fare del mio corpo quello che voglio.

Qui è interessante quello che ha detto Judith Butler, ovvero che “il corpo è mio e non è mio”. L’idea che il corpo sia solo mio è un trompe l’oeil, un’illusione, come tante volte abbiamo detto che è un’illusione l’individuo assoluto, cioè letteralmente sciolto da ogni legame e libero da ogni dipendenza. Questo in qualche modo è assunto dalla nostra legge e dalla nostra Costituzione, per la quale il corpo è indisponibile: non posso, cioè, farne sempre quello che mi pare, né tanto meno oggetto di mercato. L’unica eccezione è un uso solidale. Posso cioè donare sangue, midollo, o anche un rene a un consanguineo, ma non posso metterli in vendita o comprarli. Nessuno di noi ha perciò diritto di mettere in vendita parti del proprio corpo. E’ una limitazione alla propria libertà? Sì, lo è.

Anche nel caso dell’utero in affitto la legge ammette, ad alcune precise condizioni, la pratica solidale: i nostri tribunali hanno già ammesso casi di “utero solidale” dopo aver vagliato attentamente le situazioni, aver accertato l’esistenza di una relazione affettiva tra la donatrice e i riceventi, e aver escluso ogni passaggio di denaro. Si deve peraltro dire che l’utero solidale è solo un numero infinitesimo di casi.

Ma l’analogia si ferma qui: perché se la donazione d’organo è un fatto tra due, il donatore e il ricevente, nel caso dell’utero c’è un terzo, il nascituro, le cui ragioni vanno tenute per prime. L’esserci di questo terzo rende problematico anche il paragone dell’affitto di utero con la prostituzione. Nella cosiddetta libertà di prostituirsi c’è un accordo –anche se spesso niente affatto libero- tra due, qui c’è questo terzo che al momento dell’accordo non ha voce in capitolo, e che non può essere pensato come prodotto, ma è a tutti gli effetti il protagonista muto della vicenda.

E ancora, l’uguale diritto di uomini e donne, che non tiene conto della differenza sessuale. Quando si evidenziano i limiti “naturali” (ovvero fondati nella biologia dei corpi) che impediscono a molti desideri di tradursi automaticamente in diritti, molte e molti reagiscono con stizza, come bambini a cui sia negato di avere tutto ciò che vogliono e che di “no” (o magari di doveri che bilancino i diritti) non vogliono sentir parlare. Ma spesso si tratta di desideri indotti da un mercato che non si dà limiti di profitto, il cui obiettivo non è certo farci crescere in umanità, e che di consumatori-bambini ha sempre più bisogno.

Si fa la lotta per i diritti degli omosessuali, senza tenere conto della differenza sessuale che riguarda anche gli omosessuali. Si commette un grave errore quando sul fronte della genitorialità, secondo una logica paritaria fuorviante, si fa un tutt’uno tra gay e lesbiche, invocando “uguali diritti”. Non mettiamola sul piano di gay e lesbiche uniti nella lotta, mettiamola sul piano degli uomini e delle donne, a prescindere dall’orientamento sessuale. Ci viene per così dire in aiuto il fenomeno degli etero padri single, che in America sta diventando cospicuo. Si tratta di uomini single eterosessuali che si fanno “produrre” un figlio tutto per sé. Perché non hanno una compagna, o non intendono condividere con una donna l’esperienza della genitorialità. Una vera partenogenesi maschile, ha quanto meno un merito: quello di sgomberare il campo dalla questione dell’orientamento sessuale degli uomini che ricorrono a madri surrogate. E sgonfia la possibile accusa di omofobia nei riguardi di quel femminismo che lotta contro l’utero in affitto. In questione non è l’essere gay o etero. In questione è l’essere uomini che fanno scomparire la madre. E quale legame ha questa scomparsa con le radici del patriarcato.

Sulla scelta di una donna, lesbica o non lesbica, di diventare madre non è necessaria la mediazione della parola pubblica: è lei che decide, che sia sola o abbia un compagno o una compagna, con l’unica possibile differenza di non concepire, forse, se è lesbica, via rapporto sessuale. Nel caso di un maschio, invece, che sia gay o un eterosessuale deciso a concepire fuori da una relazione con una donna, la parola pubblica è decisiva, perché il suo desiderio necessita di almeno tre livelli di mediazione: dev’esserci un mercato dove acquistare ovociti e “affittare” uteri (o molto più di rado averli in dono); dev’esserci una medicina che ti assista, dal momento del prelievo (doloroso) degli ovociti, all’impianto dell’embrione, alla gestazione; dev’esserci un quadro normativo che ti permetta di condurre in porto l’operazione.

Non vi è, quindi, alcuna uguaglianza del corpo né “parità di diritti” su questo fronte fra uomini e donne, che siano etero o omosessuali. Questo è triste e doloroso per i gay che vogliono un figlio geneticamente proprio ma che non ama sessualmente le donne? Immagino di sì, ma non ci si può fare molto. Esiste pur sempre l’opzione di fare quel figlio con una donna che lo desideri, e che sarebbe sua madre (senza costringerla a scomparire).

L’utero in affitto ci riporta al dispositivo patriarcale nella sua purezza quando pensa alla madre portatrice come semplice contenitore-incubatore: la visione aristotelica fondativa del patriarcato postula la naturale inferiorità del genere femminile. Nella riproduzione, secondo Aristotele, il maschio è attivo, è il vero genitore che dà forma alla materia inerte femminile, la donna è invece “passiva” in quanto  “è quella che genera in se stessa e dalla quale si forma il generato che stava nel genitore” (il maschio). Questa riduzione della potenza materna sta proprio al centro del dispositivo patriarcale, questo movimento di predazione dell’utero, mosso dall’invidia dell’utero, del vaso alchemico, è movente primario del patriarcato.

La coppa piena di sangue del Graal, eternamente ricercato, somiglia molto a quella coppa piena di sangue che è l’utero. Invidia dell’utero come ben sapete rovesciata dalla narrazione patriarcale nel suo punto più alto e sofisticato in invidia del pene. Ecco, forse il dibattito in corso sull’utero in affitto, ha quanto meno il merito di fare molta chiarezza, è un riflettore puntato sulla questione. C’è un dibattito su questo anche tra psicoanaliste che osservano il fenomeno e parlano di fantasma dell’utero vagante, scisso dal corpo, “di un’isteria collettiva –la radice di isteria è appunto la parola greca per utero- in un’epoca riconoscibile come borderline, nella quale si grida “diritti” ma non doveri, non attese, non rinunce”.

Chi pensa alle portatrici come semplici contenitori che alla fine della gestazione consegnano docilmente il prodotto ai committenti, si allinea alla violenza di questo pensiero patriarcale. La “semplice” portatrice non ha legami genetici con il bambino, ma ha importanti legami epigenetici, che influenzano il fenotipo (ovvero la morfologia, lo sviluppo, le proprietà biochimiche e fisiologiche comprensive del comportamento etc.) senza modificare il genotipo.  In parole semplici, durante la gestazione tra lei e il feto avvengono scambi biochimici decisivi per lo sviluppo del bambino, scambi che continuano nella fase perinatale e che fanno di quel bambino quello che sarà”.

La madre è lei.

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