13 Gennaio 2014
exibart.com

La mia Africa, e non solo

Intervista a Paola Mattioli di Matteo Bergamini

Il pretesto per incontrarci e parlare, stavolta, è dato dal libro Mémoires d’Afrique. È l’ultima tappa di una serie di viaggi in Africa fatti da Paola Mattioli con Sarenco, negli scorsi anni, che sulla carta stampata (con prefazione di Achille Bonito Oliva) hanno trovato una nuova dimensione. Io diligentemente ho preparato una serie di domande, inviate prima alla fotografa, pensando che sarebbe potuto essere un modo semplice per seguire una traccia precisa. Quando arrivo in studio, invece, non solo trovo le risposte, ma un vero e proprio saggio (composto da numerosi frammenti di altri testi) che – come spesso accade – rappresentano per Mattioli quelle “note a margine” imprescindibili dai suoi scatti, dal suo modo di vedere la realtà. Ecco il risultato, decisamente originale, di un’intervista con tanti “Cfr”.

Vorrei partire da un altro punto di vista. Che significato ha per te, come fotografa, l’oggetto-libro?
«Le fotografie o si mettono su un muro di una esposizione, o si impaginano in un libro. Un libro vuol dire lavorare su doppie pagine. In più c’è un rapporto con il testo, anche per evitare le didascalie. La mia generazione (nutrita per esempio da Scheiwiller, Einaudi, Adelphi, e in più dai libri d’artista) ha avuto un rapporto d’amore verso l’oggetto libro. Ogni libro contiene una sua piccola architettura, e qualche segreto per il lettore attento (in questo caso ci sono delle stelline rosse…)».

È un aspetto che ha che fare con la “mania della catalogazione” che si riconduce anche alla pratica del fotografare come necessità di cogliere un residuo del mondo? Azzardo alle immagini dello sterminio, raccontate da Didi-Hubermann: qualcosa “dell’altrove” che possa permanere
«Residuo. In che senso? A voler catalogare troppo, rischi di ricostruire il mondo intero; forse il problema è la scelta di quale “residuo del mondo” catalogare, in funzione di un senso. Vorrei valorizzare l’aspetto “diario”, il partire da sé, dalla propria esperienza e dunque dalla parzialità, l’archivio per un fotografo».
Ci racconti dei vari step di “Memorie d’Africa”? Il libro è nato a distanza di anni dai tuoi viaggi con Sarenco?
«Quando Sarenco mi ha proposto di seguirlo in Africa, ho pensato a Mulas che è andato negli Stati Uniti a fotografare la Pop Art, al suo senso di responsabilità culturale nel far conoscere quel mondo, quindi mi è sembrata una opportunità irrinunciabile (fotografare come modalità del conoscere e poi del far conoscere). Sarenco è un poeta visivo e la sua entratura in Africa è poetica. Il patto era generoso: ti porto con me, e ti offro la mia conoscenza. Il libro è seguito dopo qualche anno, per motivi indipendenti dal progetto».
Che effetto ti ha fatto ripercorrere le storie di Seni Camara e delle Signares per cui eri partita?
«La ripresa del tema Seni Camara-Signares mi ha permesso di riprendere l’argomento e di collocarlo in un contesto più ampio  e complesso: l’altro mondo, l’alterità, lo spaesamento: Effetto unheimlich. L’essere artista in Africa, le Regine d’Africa, dunque le donne, e infine – tra un capitolo e l’altro – i lavori miei che l’Africa ha suggerito (1)».
Nel corso della tua carriera hai fotografato soggetti diversissimi, spostando l’obiettivo dalla rielaborazione di esperienze personali (come “Il frutto del fuoco”) alle serie dedicate al lavoro (“Fabbrico e Dalmine”) fino alle questioni più sociali (“Immagini del No”). 
«Karen Blixen, nella Mia Africa, racconta una storia che le veniva narrata da bambina: una notte, un uomo che viveva nei pressi di uno stagno viene risvegliato da un terribile fragore: è l’argine che sta cedendo. Si precipita a tappare la falla correndo di qua e di là e, quando ha finito, se ne torna a letto. Al mattino, affacciandosi alla finestra, vede che i suoi passi disordinati hanno creato sul terreno il disegno di una cicogna. «Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?» si chiede Blixen. Il mio prossimo progetto: mettere insieme tutti i lavori, tutte le fotografie, rompendo le sequenze e stare a vedere come le immagini si ricompongono (sì, lo fanno in gran parte da sole, chiamandosi: le fotografie camminano, fanno il loro percorso, diventano altro, ti sfuggono, vanno a imparentarsi con altre immagini con le quali instaurano rapporti di vicinanza, relazioni di simpatia, e tu in fondo c’entri solo fino a un certo punto…) su un tavolo di montaggio (2) che mi stupisca, mi dica del mio lavoro più di quanto io sappia, quel di più che per fortuna non è del tutto controllabile».
Visto che abbiamo già delle note a margine ti chiedo: Quanto è importante il contributo dei testi critici nella definizione del tuo percorso? 
«Ci sono diversi esempi nei quali io ho preso parole per me. Per esempio, quando Gigliola Foschi, nel 2008, ha inventato il titolo “Una sottile distanza” per una mia mostra – traendolo dal suo testo critico – o quando Elisabetta Longari ha sottolineato in un suo scritto “la centralità del montaggio, come il maggior produttore di senso” a proposito degli accostamenti di immagini che di solito propongo, o quando tu stesso hai scritto, nel testo per Ultimo quarto che “l’unica possibilità che ci è data per sopravvivere al labirinto, è cercare di attraversarlo a passo di danza” in riferimento a un mio lavoro».
Come si potrebbe definire la ricerca che ha accompagnato “Memorie d’Africa”?
«Mi piacerebbe avere da te una definizione, piuttosto che darla io. Bonito Oliva, nella prefazione: «Un luogo comune assegna alla fotografia il luogo di una crudele oggettività, il senso di una pratica chirurgica che seziona, taglia e preleva il dettaglio dalla rete di relazioni con il mondo. Paola Mattioli, che pratica da molti anni una tangenza con il mondo dell’arte, capovolge questo luogo comune e introduce nell’ambito dell’immagine fotografica la torsione che appartiene alla storia della pittura, adoperando rigorosamente gli strumenti del linguaggio fotografico. Si mette nella posizione del duello, nella frontalità istituzionale del fotografo di fronte al dato, ma non lascia scattare il dito sulla macchina precipitosamente, bensì promuove una serie di relazioni e di rispecchiamenti, per cui arriva all’immagine mediante un rallentamento mentale e l’assunzione di una posizione di lateralità rispetto al proprio mezzo».
Che cosa cerchi da un soggetto, e da uno scatto?
«L’Africa vista da te (o da voi due) mi ha sbalordita, come rivedere una persona che conoscevo stanca e malata, rivederla raggiante, in forze, nuova, stupefacente», ha scritto in una mail Luisa Muraro. Da un singolo scatto mi aspetto abbastanza poco, mi aspetto molto da una serie, da un progetto che vuole approfondimento, studio, dedizione e anche coerenza con gli altri progetti ai quali ti sei dedicata. Certo, il singolo scatto deve essere “buono” (nel senso ricordato da Berengo Gardin (3) perché più è buono, più ha senso, più è pulito, più si intreccia e risuona con le altre immagini (di qui un grande lavoro di selezione, ri-pulitura, essenzialità)».


(1) «Effetto Unheimlich, per usare un termine di Freud, sul bordo dell’angoscia di una distanza tanto più invalicabile quanto più ti si avvicina. L’arte di questa soglia (l’arte dell’ospitalità) appartiene a chi, lui o lei, riesce a entrare in casa tua senza che tu abbia preparato la visita; l’ospite è quello che sa accettare l’arrivo. Un’arte e una passività entrambe molto difficili, perché giocano di fioretto tra la vita e la morte».
Pier Aldo Rovatti, in un testo inedito (scritto nel 1997) per una mia fotografia (1968)
(2) «Un’immagine senza immaginazione è semplicemente un’immagine su cui non si è passato abbastanza tempo a lavorare. Poiché l’immaginazione è lavoro; è quel tempo di lavoro delle immagini che agiscono senza posa le une sulle altre per collusione o per fusione, per frattura o per metamorfosi… Il tutto agendo sulla nostra attività di sapere e di pensiero. Per sapere, bisogna dunque davvero immaginare: la tavola di lavoro speculativa si accompagna sempre a una tavola di montaggio immaginativa».
Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto
(3) «Avevo un rapporto bellissimo con Ugo. Lui era molto generoso, di consigli e di affetto. Ci trovavamo a casa sua con Ferdinando Scianna, entrambi giovani e con poca esperienza, ma avidi di ascoltare i suoi racconti e i suoi consigli. Ricordo una volta in cui Mulas mi mostrava le foto e io, ammirato ed esaltato, non facevo che ripetere: “Bellissimo! Bellissima! Stupenda!”. A un certo punto, Ugo mi ha minacciato che se non l’avessi finita di dire che le sue foto erano belle, mi avrebbe cacciato di casa. Io, imbarazzatissimo, risposi che non sapevo cosa avrei potuto dire e lui “devi dire che è una buona fotografia, non una bella fotografia. C’è una differenza enorme. Le belle fotografie sono esteticamente magnifiche ma non dicono niente. Mentre una buona fotografia ha contenuti eccezionali e in questo sta il suo valore”».
Gianni Berengo Gardin – Inediti (o quasi)
Print Friendly, PDF & Email