29 Marzo 2017
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Milano centro, Paola Di Bello

di Francesca Pasini

In Milano centro, Paola Di Bello collega la costruzione dello sguardo al centro della città. Applicando alle vetrate della Sala Fontana del Museo Del Novecento i particolari delle foto di Piazza Duomo, stampati su pellicole trasparenti, attira il Duomo stesso dentro l’edificio. Si crea un montaggio mobile tra le luci del neon di Fontana, l’architettura reale che appare attraverso il vetro e quella ritratta da Di Bello, visibile in trasparenza. Esterno e interno convivono simultaneamente attraverso la fotografia.

La sincronicità, che Di Bello mette in scena, crea però uno sfasamento. Perché applicare alle finestre delle immagini di ciò che è comunque visibile attraverso le finestre stesse? Tutto quello che guardiamo richiede una messa fuoco dei continui aggiustamenti di quanto emerge mentre ci muoviamo interiormente e, oggi, anche tecnologicamente. Come dice Paola di Bello, la questione non è “cosa si guarda, ma come si guarda”.

Lo sfasamento che ritrae è un punto di svolta decisivo: riduce la “sacralità” dell’immagine a favore della sincronia nella relazione. Prima di tutto tra giorno e notte, che Paola Di Bello realizza sovrapponendo in un’unica lastra l’esposizione diurna e notturna. Piazza Duomo viene pervasa da una luce che a prima vista sembra un effetto speciale, ma i lampioni accesi, non separabili dalla luce del sole, svelano l’enigma dell’ora, come direbbe De Chirico. Luce e ombra non hanno più una dinamica contrapposta, una slitta sull’altra.

Cosa significa? È immediato pensare alla coscienza (di giorno guardiamo, di notte sogniamo) e all’esperienza quotidiana, affettiva, lavorativa. E la domanda diventa: come posso creare un montaggio che faccia dello sfasamento un centro del mio sguardo? Come posso pensare a un centro senza fissa dimora?

Le fotografie di Paola Di Bello sono infatti un centro sincronico vivibile solo nello spazio percettivo. Restituiscono lo sfasamento tra il tempo dello spazio, quello dell’occhio della macchina e di chi scatta. Chi guarda l’immagine si posiziona al centro di questa molteplicità, che a sua volta fa scattare la sincronicità con lo sguardo dell’altro.

È un centro da assimilare più che descrivere, bisogna usare “la lettura della mente” che – come scrive Massimo Ammaniti ( Noi. Perché due è meglio di uno, il Mulino 2014) – “si acquisisce prima della lettura di testi”, cogliendo i significati negli sbalzi espressivi, nei movimenti, nella temperatura, nei colori di cose e persone. La conoscenza che ne deriva, e che definirei emotiva, si sviluppa predisponendo momenti sincronici tra sé e l’altro nel momento in cui “vediamo”. Nell’arte è un processo verificabile, indipendentemente dall’epoca alla quale appartiene.

Già nel 1972 John Berger, in Modi di vedere (ora Bollati Boringhieri 2015), dichiara che “il vedere viene prima delle parole” e così legge la storia dell’arte. “La convenzione della prospettiva, propria dell’arte europea, e comparsa agli inizi del Rinascimento, fa del singolo occhio che osserva il centro del mondo visibile, in esso ogni cosa converge come nel punto di fuga all’infinito. Il mondo visibile si dispone per lo spettatore così come, un tempo si credeva, l’universo dovesse disporsi per Dio”. Da qui, secondo Berger, nasce la contraddizione intrinseca a quel tipo di prospettiva. “Essa, infatti, strutturava tutte le immagini del reale in modo che si indirizzassero a un unico spettatore, il quale, a differenza di Dio, poteva trovarsi in un solo luogo alla volta”. L’invenzione della macchina fotografica rese evidente questa contraddizione e “distrusse l’idea che le immagini fossero senza tempo: rivelò che ciò che vedevi aveva a che fare con la posizione che occupavi nel tempo e nello spazio. Non era più possibile immaginare che tutto convergesse nell’occhio umano come nel punto di fuga all’infinito. […] Ogni disegno o dipinto che si serviva della prospettiva suggeriva allo spettatore che egli era l’unico centro del mondo. La macchina fotografica – e più specificamente – la macchina da presa dimostrarono che il centro non esiste”.

Nell’arte, la lettura della mente è lo strumento per intonare lo sguardo e interpretare il visibile che ha preso corpo lì, in quell’opera. Ed è uno sfasamento rispetto alla tradizionale ipotesi di realtà oggettiva. Succede anche con le parole, quando ci fanno provare/immaginare una dilatazione rispetto al loro specifico valore semantico.

Mentre la critica alla “convenzione della prospettiva” di Berger contribuisce alla lettura che si stacca dalla contraddizione di cui lui parla, diventando il perno per organizzare la percezione contemporanea del visibile quotidiano. Ed è cruciale per elaborare l’uscita dall’iconografia cristiana. La fotografia, la pittura, la scultura non sono più legate a una dimora stabile (chiese o regge aristocratiche), la direzione con Dio è interrotta. Siamo dunque a faccia a faccia con la necessità di organizzare un centro in grado di ruotare attorno alla reciprocità dello sguardo e non alla sua fuga verso l’infinito.

Consapevoli che anche quando ci sentiamo al centro di quell’immagine, non è una percezione stabile, ma una relazione tra due soggetti (l’opera e l’osservatore), che muta in base al tempo, allo spazio, ai sentimenti, come avviene tra le persone. Concordo con l’idea di Berger, “non esiste un centro”: purché si veda nell’opera un soggettoche non sta di fronte a un altro soggetto, ma interviene in modo attivo nella costruzione di uno sguardo reciproco, come già aveva detto Duchamp, e quindi permette la percezione di un centro dove incontrarsi.

È una lettura “trasparente”, come avvertono le fotografie di Paola Di Bello. Da un lato rende visibile il distacco dall’iconografia cristiana, nonostante il Duomo; dall’altro evidenzia l’indipendenza dalla convenzione prospettica rinascimentale e rende possibile la lettura storica della mente in base alla conoscenza che si sviluppa nella dinamica soggetto-soggetto. Paola Di Bello usa l’occhio fotografico per potenziare quello umano, rendendo così possibile la sincronicità di due momenti effettivamente distanti. Non è la soluzione di un enigma che ci era sfuggito, né la semplice potenzialità tecnica contemporanea. È la svolta che permette di “vedere” la sincronicità. È diverso dalla mail che affido al mio computer con la fiducia che sarà letta in tempo reale nonostante l’ora diversa, perché mantiene “fisicamente” la sincronicità di due momenti distanti, sia quando li osservo “dal vero”, sia quando li vedo riprodotti.

La prospettiva “finita”, della molteplicità dello sguardo dei viventi, è in atto.

Paola Di Bello

Milano Centro

a cura di Gabi Scardi

Milano, Museo del Novecento, 14 dicembre 2016-2 aprile 2017

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