13 Dicembre 2015
il Manifesto

Svetlana Aleksivic, il riscatto delle guerriere

di Valentina Parisi

«Appartengo a una generazione che è stata educata sui libri, non sulla realtà»: questa ammissione, contenuta in una intervista rilasciata nell’ormai lontano 1995 alla poetessa Tat’jana Bek, sembra fornire tuttora la chiave più appropriata per penetrare nella scrittura di Svetlana Aleksievic e in quell’universo di voci da lei pazientemente intessuto sulla base di innumerevoli testimonianze orali. Un metodo creativo cui la giornalista bielorussa si mantiene fedele da più di trent’anni e che di recente, all’indomani dell’attribuzione del premio Nobel, ha suscitato non pochi dubbi sull’opportunità di conferire il massimo riconoscimento letterario a una opera che, nel suo complesso, sembra negare così recisamente il concetto stesso di finzione. Aleksievic infatti non inventa, non rielabora, e non narra, si limita a trascegliere e assemblare in una sorta di montaggio i monologhi o soliloqui delle persone da lei incontrate.

Certamente, dire che «si limita a» è fuorviante vista la monumentalità dei suoi libri, dove dialogano, collidono e si fondono centinaia di voci diverse. L’acribia documentaria si accompagna infatti per Aleksievic al caparbio rifiuto di attribuire un determinato significato paradigmatico ad alcune testimonianze piuttosto che ad altre, così l’accumulazione tenace di storie personali – simili, eppure uniche e irripetibili – diventa il sigillo etico di un lavoro di scavo appassionato e potenzialmente infinito.Questa venerazione per i frammenti di realtà passati al filtro della memoria individuale si profila, fin dalle prime prove dell’autrice risalenti agli anni settanta, e si ricollega all’ardua ricerca di un realismo non più socialista, ossia di una prospettiva che, sbarazzandosi di formule retoriche svuotate ormai di ogni significato, metta a fuoco l’uomo sovietico così com’è stato, non più l’eroe positivo che sarebbe dovuto diventare. Un tentativo che, ovviamente, non poteva non comportare un faticoso lavoro di disseppellimento di quei temi fin lì rimossi ed esclusi dalla vulgata sovietica, che negli anni della stagnazione brezneviana avevano cominciato a farsi sentire con la dolorosa insistenza di un arto fantasma.

Sembra quasi impossibile che lo sforzo eroico di più di un milione e duecentomila donne sovietiche inquadrate nei ranghi dell’Armata Rossa e di innumerevoli combattenti partigiane durante il secondo conflitto mondiale fino agli anni ottanta non fosse mai stato ritenuto degno di un racconto a sé, considerando anche che la pobeda («vittoria») contro la Germania nazista si era trasformata con il tempo nell’elemento fondante dell’identità collettiva sovietica. My pobedili («abbiamo vinto») era l’orgogliosa consapevolezza che ciascun cittadino dell’Urss portava con sé, sentendosi riscattato da una esistenza grama, fatta di privazioni quotidiane. Ma quale fosse il volto reale di quel my, di quel «noi», al di là degli stilemi del filone bellico ampiamente coltivato sia in letteratura che nel cinema, era un problema in parte irrisolto. Anche perché la partecipazione femminile a quella che, secondo la dizione russa, è a tutt’oggi la Grande Guerra Patriottica era stato sottaciuta se non travisata da una gestione patriarcale della memoria.

Comprensibili appaiono dunque sia l’irritazione scandalizzata, sia l’ondata di grata commozione che aveva suscitato al suo apparire in Unione Sovietica La guerra non ha un volto di donna, ora tradotto in italiano da Sergio Rapetti (Bompiani, pp. 442, euro 20,00). Pubblicato su rivista nel 1984 e poi l’anno successivo in volume (in forma censurata), il libro di Aleksievic aveva alle spalle una lunga fase compositiva durata dal 1976 al 1981 e si ricollegava all’opera dello scrittore bielorusso Ales Adamovic che, giovanissimo, aveva partecipato alla lotta partigiana e negli anni settanta aveva affrontato per primo con gli strumenti dell’oral history i risvolti più scomodi e rimossi della Vittoria. Ad esempio, il sacrificio di migliaia di vite a Leningrado, fatto che è al centro del Libro dell’assedio, composto insieme a Daniil Granin e di recente trasposto in un film da Aleksandr Sokurov.

Aleksievic si richiamava esplicitamente al collega più anziano sia nella forma scelta (un «romanzo di voci» la cui intensità è spesso sconvolgente), sia nel titolo stesso, che in realtà è la citazione dell’incipit di un romanzo bellico di Adamovic del 1960 e si presta a una duplice interpretazione. Da una parte, Aleksievic sembra voler smentire l’assunto dello scrittore, dichiarando che un volto femminile la guerra lo aveva avuto, eccome, e che le testimonianze delle ragazze, da lei raccolte a distanza di anni, stavano lì a dimostrarlo. Al tempo stesso, tuttavia, il titolo va inteso letteralmente nel senso di una presunta incompatibilità tra la natura della donna-madre che dà la vita e il mestiere delle armi. Il libro di Aleksievic appariva inaccettabile proprio perché – secondo critici e censori – infrangeva il mito della «sacra» unità del popolo sovietico contro l’aggressione nazista – per sostenere l’esistenza di una specifica «guerra al femminile», segnata da questa ineludibile contraddizione di fondo.

In altri termini, l’autrice osava per la prima volta affermare che le giovani donne sovietiche si erano sì precipitate ad arruolarsi spontaneamente per rimpiazzare gli effettivi maschili falcidiati dai tedeschi ma, in genere, erano state marchiate molto più dolorosamente degli uomini dalla «terribile fatica di uccidere», proprio perché sprovviste di esperienze pregresse o dell’adesione a modelli eroici interiorizzati che venissero loro in soccorso. Il loro sguardo era molto più straniato, capace di cogliere – malgrado il desiderio di difendere la propria terra o di vendicare i propri cari – tutto l’orrore che stava dietro la prassi bellica. Questa impreparazione biologica e culturale delle donne alla guerra si rifletté specularmente nelle difficoltà sperimentate all’indomani della Vittoria, allorché, dopo essersi abituate a marciare con scarponi più grandi di qualche numero del loro piede, le ex combattenti dovettero tornare alle scarpette col tacco – o, almeno questo era ciò che la società si aspettava da loro, da quando la parola d’ordine era diventata: dimenticare.

Che il ritorno alla normalità fosse stato tutt’altro che indolore lo dimostrano i destini paralleli di Zinaida e Ol’ga, entrambe istruttrici sanitarie pluridecorate in squadroni di cavalleria, nonché figlie di Vasilij Korz, eroe della guerra civile spagnola e di quella patriottica poi. Una volta tornata a casa, Ol’ga a lungo non aveva voluto separarsi dal suo pastrano militare; Zinaida invece, pur intenzionata a venderlo e a sostituirlo con uno femminile, era scappata dal mercato, incapace di sostenere la vista dei tanti mutilati che lo affollavano, nel terrore che uno di loro potesse riconoscerla e rimproverarla di non averlo trascinato via abbastanza in fretta dal campo di battaglia.

Sensi di colpa, il rimpianto di aver perso la propria spensieratezza giovanile in battaglia, terrificanti incubi perseguiteranno per anni le reduci, insieme all’incomprensione della società patriarcale che rimproverava loro la promiscuità sperimentata con gli uomini in trincea. Angosciante è, tra le altre, la testimonianza di una ragazza tornata al suo villaggio da Berlino, carica di ordini e medaglie e scacciata dalla madre timorosa di non riuscire a trovare marito alle figlie minori, se l’avesse riaccolta in casa.

Stante il surplus di nozioni libresche che Aleksievic attribuiva a se stessa e ai propri coetanei, si può facilmente immaginare con quale reverenza abbia ascoltato le confessioni delle appartenenti a quella generazione che aveva abbandonato di colpo banchi di scuola e compagni d’infanzia per andare ad arruolarsi e magari tornare agli studi quattro anni dopo, precocemente invecchiate. Dal rispetto discende la cura estrema profusa dall’autrice nel rendere le voci di queste donne spesso mai rientrate davvero dal fronte, sole o costrette a vivere tra di loro in appartamenti in coabitazione, comunque amareggiate dalla sensazione di essere state defraudate della vittoria. Un coro su cui, forse, spicca a mo’ di epitaffio, la scritta, invidiabile per coraggio e lucidità, lasciata da una di loro sulle pareti del Reichstag: «Io, Sof’ja Kuncevic, sono venuta qui per uccidere la guerra».

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