17 Marzo 2014

Segni che giocano nello spazio

Pubblicato in Letterate Magazine, Lm Home, Ritratti

Segni che giocano nello spazio

di Mariella Pasinati

Voleva essere “contemporanea della propria epoca e scoprire cosa significa”: è quanto Carla Accardi (1924-2014) scomparsa il 23 febbraio a Roma, aveva raccontato ad Hans Ulrich Obrist in un’intervista mostrando, così, il presupposto di un’arte che sfugge a ogni facile, univoco inquadramento e il segreto della presa che i suoi lavori hanno sempre esercitato anche sulle nuove generazioni di artiste/i nel corso del suo lungo e fortunato percorso umano ed estetico. Coerenza creativa e inclinazione a sperimentare nuovi approcci e inediti percorsi di ricerca hanno, infatti, caratterizzato i suoi lavori che, sempre nuovi e freschi, hanno mantenuto inalterata durante più di sessant’anni la pienezza e l’originalità di un linguaggio straordinariamente individuale e riconoscibile.

La ricerca dell’artista siciliana ha origine, come è noto, nel contesto della cultura astratto-informale del secondo dopoguerra, a partire dall’esperienza del gruppo Forma Uno1 destinata a concludersi in soli due anni e in seguito alla quale, dopo un periodo di ricerca, Accardi avrebbe iniziato a declinare il suo particolare linguaggio espressivo fondato sul segno cromatico.

È il 1953-4 e il taglio avviene con i quadri bianchi e neri in cui la caratteristica contrapposizione positivo/negativo è finalizzata alla resa della luce2: “cerco di rispecchiare l’energia primordiale e i contrasti violenti della vita stessa …. L’impulso vitale che è nel mondo”3. Si tratta dell’articolazione libera di segni che danno origine, in un primo momento, a complessi intrecci lineari e dinamici, per poi assumere una forma più “strutturata”4 (Integrazione, 1957).

E’ già evidente, fin da questi primi lavori l’asimmetria che caratterizza l’operare di Accardi rispetto ai confini dell’astrazione e dell’Informale, l’art autre in cui la include Michel Tapié5, ma nel quale l’artista non si riconosce pienamente -“mi sembrava molto facile e ripetitivo perché era diventato di moda, purtroppo6. Come non si riconosce nel gesto di Pollock, per quanto avverta anche lei la necessità di lavorare sulla tela distesa sul pavimento. La sua alterità, piuttosto, sembra orientata a porre l’arte nel vivo dello spazio e dell’esperienza, come dell’artista, così di chi guarda: “dirò subito che comincio con il porre lo spettatore davanti a una lettura instabile e precaria, egli … dovrà abbandonarsi senza reticenze ad una specie di stato ipnotico e sospeso …. in cui potrà sentire lo scorrere della vita stessa, in quel gioco visivo e ambiguo ed indefinito”7.

Alla fine degli anni ‘50 seguirà un ritorno al colore in una nuova definizione del rapporto segno-colore-luce capace di generare straordinari effetti ottico-percettivi ottenuti con l’accostamento di colori accesi e “abbaglianti” e con un’articolazione e ripetizione del segno quasi calligrafico che scorre lievemente sulla bidimensionalità della tela replicandosi e differenziandosi insieme, spesso a piccoli tratti che definiscono continue texture di superficie. Il ritorno al colore sarà sviluppato prima con l’uso sapiente di segni marcati in rosso e grigio, azzurro e viola, verde e arancio, accostati per timbri contrapposti e forte contrasto, al fine di accrescerne il grado di luminosità e ottenere l’effetto di luce; poi con il passaggio alla vernice fluorescente.

La ricerca sulla resa sempre maggiore della luce si radicalizza con il passaggio successivo che si compie a metà degli anni ’60 con l’esaltazione della trasparenza, la de-materializzazione, consentita dall’adozione di un nuovo supporto, il sicofoil, una plastica trasparente che sostituisce la tela. Analogamente al colore, anche il segno segue ora una trasformazione divenendo, come diceva la stessa Accardi, “anonimo”.

Liberata dall’opacità della tela, ecco allora che la pittura -il segno pittorico fluorescente- si svincola dal supporto per estendersi nella terza dimensione, prendendo possesso dell’ambiente e “conquistando” lo spazio. Nascono così i primi Rotoli, cilindri brillanti senza telaio disposti a pavimento cui seguiranno i telai e le sagome a parete, in cui il foglio trasparente è tracciato da segni ripetitivi che, negli anni ’70, arriveranno a scomparire del tutto lasciando solo la trasparenza naturale della plastica sul telaio in legno (Trasparente, 1977). È così che Accardi svela “i misteri che sono dietro l’arte”.

Ma è soprattutto Tenda (1965-6) che mostrerà le grandi sollecitazioni percettive di questa estensione ambientale della pittura che l’artista presenta come puro atto estetico, esito di un percorso che Accardi ha definito come un “liberarsi del sovrappiù”, ossia come spiegava Carla Lonzi, un “portare a una fase ulteriore di liberazione ottica i segni”8. Esempio precoce delle installazioni che avrebbero di lì a poco segnato sempre più il panorama dell’arte, l’opera è un ambiente “abitabile” di cui fare esperienza fisica; è composta da pannelli di sicofoil in fogli doppi dipinti con segni fluorescenti -rosa intenso in uno, verdi nell’altro- che si intersecano visivamente. La sua configurazione rimanda idealmente alle strutture abitative nomadiche, alle tende da campo turche -a detta della stessa Accardi- provvisorie e leggere, resistenti e trasformabili. L’artista dà forma, così, ad un ambiente che propone in termini dialettici il rapporto interno/esterno, trasparenza/opacità, determinando una forma “architettonica” dal respiro più vasto e politico per  i suoi confini mobili, per il suo contrapporsi alle strutture fisse e statiche dell’identico. Non a caso, La Tenda dialoga con le ricerche contemporanee e con i lavori di artiste che, sotto la spinta del femminismo, avrebbero segnato il decennio successivo. Da un lato, infatti, l’opera precede il primo Igloo (1968) di Mario Merz e le esperienze scultoree di altri artisti, in particolare dell’arte povera, che in quegli anni si confrontavano con l’idea di un’arte abitabile9. Dall’altro appare come il diretto antecedente di quei lavori centrati sul tema dell’esperienza nomadica, della domesticità, del rapporto spazio pubblico/spazio privato che avrebbero caratterizzato tanta parte della produzione delle artiste a partire dagli anni ’7010.

Negli anni successivi Carla Accardi avrebbe continuato a guardare allo spazio dell’esistenza quotidiana con Ambiente arancio (1968): una stanza invasa dal sole, uno spazio luminoso, fresco, allegro costruito intorno al Grande Ombrello del ’67, per poi riproporre il tema della tenda con Triplice Tenda (1969). Si tratta di tre strutture a base circolare una dentro l’altra, in cui i segni marcano gli strati di plastica e sembrano sovrapporsi e intrecciarsi nello spazio “abitabile” e percorribile dominato dal rosa. “L’avevo pensata rossa, pensa! Era allucinante e troppo sessuale. Ho dovuto ammettere che la volevo rosa ma avevo una sorta di pudore”11 rivelerà Accardi e, nel 1976, Anne Marie Boatti Sauzeau metterà a fuoco come l’artista avesse avuto, allora, “la visione dell’esperienza primordiale del desiderio femminile, il labirinto rosa e luminoso, la madre, l’amore anteriore alla castrazione e all’intervento rivale del padre, la realtà circolare anteriore alla metaforizzazione della donna.”

Temi che allora non era facile “accogliere”, non a caso Accardi noterà: “nel ‘69 alla mia mostra … mi hanno abbracciata ma non mi hanno registrata culturalmente”12 toccando il nucleo del rapporto arte-cultura patriarcale-femminismo, problema che l’artista sente ed ha già iniziato ad elaborare nel dialogo con Carla Lonzi cui la legava da anni una profonda amicizia e uno scambio intenso sui temi dell’arte e della critica (è Lonzi che scrive la presentazione del lavoro per la Biennale di Venezia del ’64), della fruizione estetica e del femminismo13.

E’ già iniziata, infatti, per Accardi la fase della pratica politica nel femminismo, ed è del 1970 il Manifesto di Rivolta femminile, scritto insieme a Carla Lonzi ed Elvira Banotti.

Il rapporto con Carla Lonzi si sarebbe, tuttavia, esaurito nel giro di alcuni anni per una diversa posizione nei confronti di quel mondo dell’arte e della cultura di cui entrambe riconoscevano il marchio maschile14 e che per Lonzi era divenuto inconciliabile con l’impegno femminista, tanto da portarla all’abbandono della sua attività di critica d’arte. Diversamente, Accardi non cedette all’idea di un segno ineliminabile impresso dal patriarcato sulla creatività femminile, nel convincimento che la posta in gioco non fosse tanto combattere contro attività che erano state esclusivo privilegio maschile, piuttosto imprimervi il segno dell’intelligenza femminile.

Gli anni dopo l’allontanamento, e siamo al 1975-76, sono segnati di nuovo dalla rinuncia del colore. Fra le opere meno note è Origine (1976) realizzata per la prima mostra della Cooperativa Beato Angelico, che Accardi contribuì a fondare quello stesso anno, a Roma, insieme ad altre artiste, poete e storiche dell’arte15 con l’intento di costruire un luogo dell’arte segnato dal femminile. In quella mostra, dedicata ad Artemisia Gentileschi, Accardi esponeva un lavoro in cui l’artista aveva attaccato fotografie della vita propria e della madre su lunghe strisce di sicofoil che pendevano morbide e libere dal muro dando, così, profondità spaziale alla parete. Un opera unica, che ricostruisce la propria genealogia materna, il luogo dell’origine, appunto.

Il ritorno al colore avviene qualche anno più tardi con l’opera-ambiente Dimenticare, mettersi in salvo (1978) in cui il colore ritorna ai bordi del quadro, sui telai degli otto grandi triangoli di sicofoil disposti a parete. E con gli anni ’80 ecco ancora una trasformazione linguistica con il ritorno alla tela grezza e di grande formato. Il segno si fa più largo, quasi vistoso, si espande a formare intrecci complessi su fondi contrastanti, si combina con equilibrio al colore steso per ampie campiture generando spazialità per sovrapposizione e trasparenza (Pieno giorno (Veduta),1987).

Da allora il suo lavoro vedrà progressivamente accrescere i riconoscimenti internazionali, arricchendosi ulteriormente in un percorso di ricerca che sempre si rinnova, continuamente riproponendo e differenziando segno, forma e materiale. Fino alle opere più recenti come i brillanti Coni in maiolica (2004) o l’ampia Superficie in ceramica del 2007, un’opera realizzata con Gianna Nannini in cui si combinano effetti sonori e visivi su una superficie di segni cromatici che questa volta lascia la parete per disporsi in orizzontale a formare un pavimento di piastrelle in gres dipinto su sfondo bianco con segni verde e blu cobalto, ultima versione, ancor più arricchita, della sintesi fra segno-colore-spazialità architettonica.Un lavoro, inoltre, che esplicita ulteriormente quell’invito ad entrare nell’opera, quell’invito alla relazione, che è obiettivo costante, oltre che grande insegnamento, di un’artista che ha dedicato  la sua vita all’arte, nella fiducia che questa non può cambiare il mondo ma può mutare la coscienza di uomini e donne che potrebbero cambiarlo”.

[1] Fondato nel 1947 insieme ad Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Turcato e Sanfilippo (che sposerà nel ‘49), costituì la prima espressione della giovane arte italiana del dopoguerra consapevole della crisi della figurazione e intenzionata ad  utilizzare “le forme della realtà oggettiva come mezzi per giungere a forme astratte oggettive”.

2 “Più che i colori io amo da sempre gli accostamenti e l’emanazione di luce che ne deriva. Anche il mio periodo bianco e nero era luce, contrasto, come nella salina di mia madre a Trapani, abbagliante” (dalla testimonianza di Carla Accardi contenuta in Anne Marie Boetti Sauzeau, “Lo specchio ardente”, in DATA n. 18, settembre-ottobre 1975, pag. 50)

3 Citato in Achille Bonito Oliva (a cura di), Accardi. Il campo del togliere, Milano, Mazzotta, 1986, p. 55

4 “.. lo strutturalismo era una scoperta attuale … Ho dato immagine alla visione strutturalista del mondo” (Vanni Bramanti, Carla Accardi, catalogo della mostra, Ravenna 12 Febbraio-27 Marzo 1983, Ravenna, Essegi, 1983, p. 84

5 teorico del tachisme, l’informale come pittura di segno, gesto, materia descritto in Un art autre, Tapié aveva scoperto nel 1952 il lavoro della Accardi ed iniziato con lei un rapporto che sarebbe stato essenziale per l’affermazione, anche internazione, dell’artista.

6 Hans Ulrich Obrist, “Andare a fondo”, in Flash Art, 245, 2004

7 Vanni Bramanti (a cura di), Carla Accardi, catalogo della mostra, Essegi, Ravenna, 1983, pp. 90-91

8 Carla Lonzi, Scritti sull’arte, Milano, et al/edizioni, 2012, p. 477

9 dal titolo di una mostra del ’69 della Galleria Sperone di Torino in cui artisti della neonata Arte Povera esponevano lavori connessi al tema dell’abitare (La Casa Ideale di Pier Paolo Calzolari; Camping di Emilio Prini, gli Habitat di Luciano Fabro, gli  Oggetti in meno di Michelangelo Pistoletto).

10 In tempi più recenti torna alla mente la Multi-Story House (2007) di Mary Kelly:  spazio domestico della presa di coscienza, questa casa-tipo si apre agli spettatori con le sue pareti trasparenti e illuminate su cui sono riportate, all’interno, riflessioni di donne che hanno vissuto l’esperienza del femminismo e, all’esterno, frasi di donne più giovani che quella esperienza non hanno fatto, non una evocazione nostalgica, piuttosto un’esplorazione sulla continuità nel presente di quelle pratiche politiche.

11 Anne Marie Boetti Sauzeau, “Lo specchio ardente”, in DATA n. 18, settembre-ottobre 1975, pag. 51

12 Anne Marie Boetti Sauzeau, “Carla Accardi”, in DATA n. 20, marzo-aprile 1976, pp. 72-74

13 ne resta documentazione in Autoritratto (1969), l’opera nella quale Lonzi demolisce i modi della critica d’arte tentando un nuovo discorso basato sulla soggettività e sullo scambio critica-artista.

14 “L’arte è sempre stata il reame dell’uomo. Noi, nello stesso momento in cui entriamo in questo campo .. il bisogno che abbiamo è di sfatare tutto il prestigio che lo circonda e lo ha reso inaccessibile … Perché la donna … dopo quel primo movimento che l’ha portata a comportarsi come gli uomini … si è fatta avanti dicendo: “eh, che ci avete raccontato per tanto tempo, ecco, noi ci entriamo, questa è una cosina semplice, guardatela anche voi che è così”(da Discorsi: Carla Lonzi e Carla Accardi, in marcatre nn. 23-25, 1966, ripubblicato in Carla Lonzi, Scritti sull’arte, Milano, et al/edizioni, 2012, p.477).

15 Nilde Carabba, Franca Chiabra, Regina Della Noce, Nedda Guidi, Eva Menzio, Teresa Montemaggiori, Stephanie Oursler, Suzanne Santoro e Silvia Truppi.

Maria Luisa Boccia, Ciao Carla ti darei un bacio

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