14 Gennaio 2012

Artemisia Gentileschi ARTE MI SIA

 

di Donatella Franchi

Artemisia Gentileschi e le sue Giuditte
(Palazzo Reale di Milano settembre 2011 – gennaio 2012)

Negli anni Settanta del Novecento Adrienne Rich in Segreti, silenzi e bugie, parlando del proprio rapporto con la creazione poetica dice che la donna che si accinge a creare si trova faccia a faccia con l’immagine della donna descritta dagli uomini, e quindi ciò che non trova è se stessa.
La grandezza di Artemisia sta nella sua capacità di trasformare ciò che la tradizione artistica le offre, e soprattutto gli archetipi femminili (le Giuditte, Dalile, Cleopatre, Lucrezie, Susanne e altre), modellati dallo sguardo maschile, in una propria originale visione della vita, dove le donne sono protagoniste, consapevoli di sé e orgogliose di se stesse, donne coraggiose, di straordinaria forza.
Artemisia manifesta questa sua originalità fin dalla sua prima opera, Susanna e i vecchioni, che dipinge a soli 17 anni (l’opera è firmata e datata), e che purtroppo gli organizzatori della mostra al Palazzo Reale di Milano (settembre 2011 – gennaio 2012) non sono riusciti a ottenere dalla Germania (Pommersfelden). In quest’opera la giovanissima Artemisia affronta il tema del rapporto di una donna con lo sguardo maschile.
La storia del vecchio testamento, dove la giovane e bella Susanna viene insidiata da due uomini mentre fa il bagno, è un tema molto popolare in Italia nel tardo ‘500, quando la seduzione era spesso legata alla violenza carnale; basta pensare alle varie rappresentazioni delle imprese erotiche compiute da Giove, il ratto d’Europa da parte del toro, Danae e la pioggia d’oro, Leda e il cigno ecc., e poi al ratto delle Sabine variamente rappresentato, che spesso erano solo un pretesto per offrire dei bei nudi di donna ai committenti.
Qui Artemisia interpreta la storia di Susanna in termini di sguardo. Se si legge bene questo quadro confrontandolo con quelli dipinti da celebri pittori del tempo, ci si rende conto dell’enorme differenza con cui Artemisia gioca con lo sguardo di chi osserva quest’opera. Susanna è al centro del dipinto, e non spostata da un lato, come ad esempio nel celebre quadro del Tintoretto o del Rubens, dei Carracci, dove la scena è ambientata in un giardino lussureggiante e il tema della violenza sessuale viene trasformato in situazione erotica eccitante. Qui scompare il giardino e la figura femminile appare intrappolata e senza scampo tra il nostro sguardo e quello dei due uomini, stretta contro la parete di marmo della vasca, in uno spazio claustrofobico e opprimente. Uno dei due non è vecchio, come nella tradizione, essi sovrastano la giovane nuda, che è inerme ed esposta, martirizzata dal loro sguardo ma anche dal nostro. Il quadro esprime la violenza dello sguardo maschile su una donna.

 

Artemisia dunque, pur usando quello che la tradizione le offre, non imita, trasforma temi e modelli perché attinge alla propria esperienza, guarda il mondo dal proprio punto di vista, con piena autonomia.
Forse per la prima volta nella storia dell’arte una donna ci consegna una visione così coraggiosa ed eroica di sé e dell’altra.
Ci si può chiedere da dove la giovanissima Artemisia, rimasta orfana di madre a 12 anni, cresciuta con il padre, pittore amico di Caravaggio, e tre fratelli maschi, in un clima sociale violento, abbia ricavato questa particolare consapevolezza di sé e una libertà, che manifesta fin da giovanissima, e da chi possa avere assorbito questo senso della forza creatrice e della potenza femminile. Come emerge dalla violenza subita da Artemisia da parte di Agostino Tassi, artista amico del padre, e dal processo per stupro che ne è seguito, il padre, Orazio Gentileschi, è incapace di proteggerla e di amarla, ma crede in lei come artista, è stato il suo maestro e ha inizialmente promosso la sua carriera.
La stima del padre le ha sicuramente dato fiducia nelle proprie capacità artistiche, ma non è sufficiente per spiegare la sua originalità e autonomia stilistica dal padre, la sua fiducia in se stessa come donna artista. Ancora oggi si parla troppo poco della genealogia di artiste che allora già esisteva.
Nel campo dell’arte un precedente di forza importante per Artemisia era la pittrice bolognese Lavinia Fontana, nata nel 1552, che era stata chiamata a Roma dal Papa Gregorio XIII all’inizio del ‘600, e dove è vissuta fino alla sua morte avvenuta nel 1614. Nelle sue lettere Artemisia più volte dice di volersi trasferire da Firenze a Bologna. Sappiamo che a Bologna tra ‘500 e il ‘600 si contano almeno 23 pittrici. La studiosa americana Whitney Chadwick sostiene che se le donne hanno avuto un Rinascimento, questo ha avuto luogo a Bologna, proprio tra il ‘500 e il ‘600. Artemisia dunque era consapevole di avere una tradizione di artiste alle spalle, come lo era Lavinia, che nel suo primo autoritratto si era ispirata alla cremonese Sofonisba Anguissola (1535-1625), che a sua volta si era ispirata alla fiamminga Catharina van Hemessen.
Dalle sequenze degli autoritratti delle artiste del ‘500, che si ispirano le une alle altre, emerge una consapevole ricerca di una rappresentazione di sé come donna artista e donna colta. Questa consapevolezza permette loro di esprimere la propria esperienza soggettiva uscendo dall’imitazione del padre maestro, anche se artista famoso e dotato di carisma.

 

La ricerca delle storiche femministe ha fatto affiorare e ha messo in luce una genealogia femminile di studiose, scrittrici, artiste, un’eredità nascosta dalla storia tramandata dagli uomini (a parte qualche rara eccezione come il De Claris Mulieribus del Boccaccio, 1361) che restituisce ad Artemisia e alle altre artiste un contesto di reti di donne colte e creatrici da cui la narrazione storica tradizionale le aveva isolate come “magnifiche eccezioni” (Vasari).
All’inizio del 1400 con La città delle dame di Christine de Pizan inizia la querelle des femmes, una lunga controversia sulla posizione delle donne nella società che è presente si sviluppa in tutta Europa. Nel Merito delle donne (Venezia1592) Moderata Fonte (pseudonimo di Modesta Pozzo) scrive dei versi che sarebbero un ottimo commento per i quadri di Artemisia: “Libero cor nel mio petto soggiorna, non servo alcun, né d’altri son che mia”. In questo testo sette donne, con posizioni diverse tra loro, riflettono insieme sul rapporto tra i due sessi. Lucrezia dice: “Noi non stiamo mai bene se non sole” ma “per le misere donne è assai meglio l’aver il governo e la compagnia loro che starne senza… È meglio averne uno almanco per amico… che, stando sole, averli tutti per nemici”. E Corinna ribatte: “Piuttosto morrei che sottopormi ad un uomo alcuno”. E ancora: “Se l’uomo contiene in sé qualche buon costume, lo ha dalla donna con cui pratica”. Nel 1601, sempre a Venezia, Lucrezia Marinelli continua il dibattito con La nobiltà e l’eccellenza delle donne.
In varie corti d’Europa immagini di donne autorevoli confermavano e simboleggiavano la fiducia delle donne nelle proprie capacità. Maria de’ Medici, reggente al trono di Francia per il figlio Luigi XIII, è una donna di forte carattere che paragonava se stessa a grandi figure femminili del passato. Aveva commissionato al Rubens un ciclo di pitture, Vita di Maria de Medici, per il palazzo del Lussemburgo, dove appariva in veste di Minerva. Orazio Gentileschi, che aveva lavorato per lei, introduce la figlia alla corte dei Medici di Firenze, dove Artemisia soggiorna tra il 1614 e il 1620.
Quando la pittrice va a visitare a Londra il padre, pittore alla corte di Carlo I d’Inghilterra, lo affianca nel dipingere la Queen’s House a Greenwhich, che Henrietta Maria, figlia di Maria de’ Medici e moglie del re, ha progettato come palazzo delle meraviglie. Henrietta si circonda di donne intellettuali e assume una umanista coltissima, Bathsua Makin, autrice di un trattato sull’educazione delle donne, come precettrice dei figli.
La prima metà del ‘600 è anche la grande stagione dei salotti delle Preziose. Nel 1618 Madame de Rambouillet compie il gesto inaugurale progettando personalmente la Camera Azzurra. Le Preziose
contribuiscono notevolmente, insieme al teatro di Corneille, loro ammiratore, all’esaltazione eroica dell’io femminile e del coraggio delle donne, creando l’ideale femminile intrepido e casto della femme forte. Un’incarnazione di questo ideale era, agli occhi di molte, Cristina di Svezia “prova vivente di come una donna potesse unire a una grande cultura il talento della politica e della guerra” (Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi, 2001, p. 198).
Artemisia dunque è consapevole della presenza e del pensiero delle donne che agivano sulla scena politica e intellettuale del tempo, i suoi personaggi femminili sono tutti di grande temperamento, tutti inequivocabilmente delle femmes fortes.

Le Giuditte
Una delle eroine preferite di Artemisia è Giuditta, un altro archetipo femminile che lei eredita dalla tradizione.
Il personaggio biblico di Giuditta nell’interpretazione medievale è uno strumento nelle mani di Dio per liberare la città di Betulia dall’assedio del generale assiro Oloferne.
Nel Rinascimento diventa un personaggio con qualche ambiguità, Giuditta è avvicinata a Dalila, è un’eroina ma anche una donna che raggira un uomo con l’inganno e la seduzione. Diventa una sorta di femme fatale (Cristofano Allori, 1613).
Nel quadro del Caravaggio (Roma 1598-99), che Artemisia ha probabilmente visto, Giuditta è una giovinetta marmorea, con un’aria disgustata. Il pittore si identifica con Oloferne, con la caduta dell’uomo forte, e l’ancella Abra è una vecchia un po’ laida, rappresentata come una mezzana. Per il Botticelli Giuditta è simbolo di grazia, leggiadria e castità. Sono interpretazioni molto lontane dalle Giuditte di Artemisia.

 

Con i primi due quadri di Giuditta e Oloferne, quello di Capodimonte (1613) e quello degli Uffizi (1620) Artemisia celebra l’autodeterminazione, l’energia femminile.
Qui due donne, entrambe giovani, compiono un’azione insieme, sono complici in campo nemico, ed è molto significativo che Abra possa apparire come un autoritratto di Artemisia. Le braccia di entrambe, che tengono fermo il corpo riverso dell’uomo, creano un movimento rotatorio ed emanano un’energia straordinaria, i volti sono concentrati nell’azione. Esprimono una fisicità dinamica e prepotente, come quella di tutte le donne di Artemisia, figure di eroine e di sante, di gentildonne, di donne incontrate nella quotidianità, sono tutte rappresentate come donne forti, dai corpi possenti, che sembrano non voler essere contenute entro lo spazio del quadro.
Nella Giuditta di Palazzo Pitti (1613-14), dove le due donne sono in piedi, una di fronte all’altra, unite nell’impresa, la mano di Giuditta è sulla spalla di Abra. Sono tese, vigilanti e in guardia, hanno compiuto la missione e devono uscire dalla tenda di Oloferne senza essere viste dalle sentinelle, sfruttando il buio della notte. Giuditta è un personaggio epico, una guerriera, con l’elsa della spada appoggiata alla spalla.
Anche il padre di Artemisia aveva dipinto l’ancella giovane (1612), ma tra le due donne non c’è l’unità psicologica che si trova nei quadri della figlia, dove la responsabilità dell’azione è distribuita tra le due donne.
Un’altra serie di Giuditte nella mostra ha come capostipite la Giuditta di Detroit (1625), che purtroppo non è presente a Milano. Le due che possiamo vedere a Palazzo Reale sono state dipinte a molti anni di distanza, e sono molto meno intense. Qui Artemisia fa un particolare uso del chiaroscuro. Giuditta e l’ancella hanno appena ucciso Oloferne e si preparano a uscire dalla tenda. Giuditta copre con la mano la luce della candela, devono usare l’oscurità per operare, la luce può essere loro nemica, la loro è un’azione di guerriglia nel territorio nemico: è quello che Artemisia ha fatto per tutta la vita. Questo quadro esprime la donna eroica come artista che si deve misurare con un mondo maschile.( Mary Garrard).
Le Giuditte di Artemisia non sono seducenti, né pie, né umili, sono donne che compiono un’impresa insieme a un’altra donna, sembra per loro stesse, esprimono un’energia che non è sotto nessun controllo maschile, né divino. Per lo sguardo femminile questa è la narrazione di quanto avviene nella vita reale delle donne, che devono usare la loro intelligenza e una continua vigilanza per vivere in un mondo maschile (vedi Mary Garrard).
Interpretare le Giuditte di Artemisia come vendetta per la violenza sessuale subita ne oscura e impoverisce la complessità e lo spessore, l’estrema originalità, al di fuori di ogni stereotipo tradizionale.
Per questo motivo penso che l’interpretazione di Emma Dante nell’opera che apre l’esposizione di Artemisia a Milano sia molto riduttiva, e che non sia la chiave capace di restituire lo spessore di un’artista come Artemisia, anche se trovo affascinante l’installazione in se stessa. Inoltre, essendo un’interpretazione personale che un’artista fa di un’altra artista, ho vissuto come una forzatura il fatto che sia posta all’inizio della mostra.

Le Cleopatre
Nell’immaginario maschile occidentale Cleopatra ha sempre impersonato la quintessenza del femminile, misterioso, irrazionale, mutevole, vicino alla natura (Shakespeare), magico, Cleopatra come femme fatale, tentatrice lussuriosa, distruttrice di uomini.
La fama negativa di Cleopatra era stata costruita già dai romani: Egitto e Roma sono due mondi contrapposti.
Nella tradizione egiziana le regine erano considerate un’incarnazione di Iside, e il serpente era il simbolo dell’eredità matrilineare.
Nella grande tela di Cleopatra del 1635 (collezione privata) è messa in luce la regalità di Cleopatra, che sembra essersi incoronata da sola, poco prima della morte (la corona le è scivolata dietro al cuscino).
La Cleopatra del 1621-22 (collezione privata) tiene l’aspide come uno scettro. Ma tutte le Cleopatre di Artemisia sono delle fanciulle fisicamente piuttosto normali, come tutti i nudi che l’artista dipinge.

 

Artemisia proietta nella leggenda e fa apparire eroiche le donne della vita reale.
Filtra il realismo pittorico caravaggesco, nella cui aura era stata educata all’arte dal padre, attraverso il suo realismo originalissimo, quello di una donna consapevole del suo valore che vuole trasformare in visione la propria esperienza di vita.

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