30 Dicembre 2016
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I bicchieri di Veronese e i vasi di Chiara Camoni

di Francesca Pasini



Gli oggetti nell’arte raccontano l’affezione del quotidiano, fluttuano tra memoria e consumo.

Per oggetti intendo i manufatti che legano la “tradizione” visiva ai rapporti d’identità. È un passo dopo l’iconografia cristiana e le sue grandiose invenzioni artistiche; dopo che le avanguardie del secolo scorso hanno rotto lo specchio, dall’Impressionismo a Munch, a Duchamp, al Cubismo, a De Chirico.

E dopo Pae White che, con i suoi fantastici lampadari, si allea alla luce del Chandelier (2014), di Sirous Namazi (Galleria Nordenhake, Berlino), che a sua volta ci trasporta in un ambiente “orientale”. E dopo Chiara Camoni che, con i suoi vasi di terracotta, transita dall’archetipo arcaico alla manualità anonima della scultura, cioè alla creazione allo stato nascente che ognuno potenzialmente ha. E dopo Elisabetta Di Maggio con le sue ceramiche incise, come la calotta-cuffia che protegge l’emisfero del cervello e il volto assente, che ipoteticamente ognuno potrebbe inserire in questa fragile, reticolare, bianca testa “morandiana”. (Museo della Ceramica – Mondovì). E dopo Urs Fischer, che dissemina il pavimento della galleria di Massimo De Carlo (via Ventura, Milano) con sculturine in ceramica di frutta, piccoli animali, personaggi in pose senza scrupoli. E dopo molti e molte.

La difficoltà del contemporaneo sta nel riconoscere i passaggi anonimi che prendono forma e nome con l’arte, e nel capire quale evento emotivo è riconoscibile in un oggetto che, senza l’investitura artistica, rimarrebbe un prezioso possesso personale, mentre una volta entrato nel circuito dell’arte è patrimonio di tutti quelli che lo vedono.

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Ritorna Duchamp, ma non è più un oggetto d’uso spostato in un’altra sede e titolato in modo allusivo “Fountain”, è una creazione che tiene dentro di sé il concetto d’uso e lo offre come deposito affettivo e visivo: ci fa immaginare una casa a cavallo tra Iran e Svezia (Sirous Namazi) o il piacere della luce interna nell’abitare occidentale (Pae White) .

Tutto questo è anche il frutto di una femminilizzazione dell’arte che influenza il linguaggio di uomini e donne.

Gli otri scuri, i meravigliosi, trasparenti, bicchieri di Murano, sparsi sulla tovaglia nel Convito a casa di Levi di Paolo Veronese, erano un accenno umanizzante dentro la visione sacra. Ora gli oggetti d’uso quotidiano non sono più un’inserzione dedicata alla vita di Cristo, ma a uomini e donne. Ad esempio, i passeggini da bambini vuoti di Nari Ward.

Chiara Camoni ha segnato un punto importante su questo tema nella mostra alla galleria Spazio A di Pistoia, (“La storia viene sempre dopo”) e nella “Quarta Vetrina” alla Libreria delle donne di Milano (Barricata). Il punto sta in una serie di vasi in terracotta che mantengono il proprio uso e nello stesso tempo aprono il concetto di contraddizione e di inizio.

I vasi a Pistoia sono disseminati su basi bianche, hanno forme libere, variatissime e impreviste, colori che evocano la mobilità della materia e della mano. Hanno una funzione: emettono fischi. Una pratica diffusa nella cultura materiale. Durante la mostra sono stati usati come impensati strumenti d’orchestra, uno aveva una doppia uscita e il fischio è stato modulato in sincrono da Chiara e dal marito Luca Bertolo.

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Alla Libreria delle donne di Milano, i vasi in terracotta scura, sono ammassati gli uni agli altri, mantengono la funzione e accolgono fiori freschi recisi. Sono una Barricata dedicata alle donne, alle artiste, alle madri simboliche e alla sua mamma.

Chiara sottolinea che tutto ha origine da un punto, tutto va incontro in modo circolare alla bellezza e al negativo, all’accoglienza e al rifiuto, alla fragilità e alla forza, alla forma e alla sua costante mobilità. I vasi di Chiara accolgono il contatto tra forma e cultura materiale. Da qui inizia la consapevolezza rispetto a sé e agli altri. A volte è in grado di ricevere, suono, colore, a volte no.

La simbologia del vaso è sinonimo di archetipo. Riguarda la nascita della pittura greca, i vasi Attici, e l’origine della vita condivisa che affiora dai contenitori del cibo coltivato. Può essere una metafora dell’iconografia della fede? Non credo. È una visione dello scambio necessario per vivere e crescere. Richiama il ventre materno, ma anche quel respiro che si dilata di fronte alla spensieratezza della gioia e si coagula in un grumo, sul fondo, con l’ansia e il dolore.

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Anche per questo Chiara Camoni ha messo al mondo questa folla di vasi che fischiano come uccelli e contengono fiori per tenere compagnia alla casa. Imparare a guardarli in questo modo significa andare oltre Duchamp, non perché sia stato superato, ma perché ogni oggetto è “un appuntamento”, come lui stesso definiva il readymade.

Un appuntamento con chi? Con i bicchieri di Murano di Paolo Veronese, un inizio circolare che si sviluppa dal fiato del vetraio. Non sono entrati nell’iconografia della fede, ma in quella della vita, fragile più che mai.

Oggi Chiara Camoni dichiara che la metafora del ventre materno e la simbologia del vaso, non riguardano solo il momento della generazione, ma il procedere quotidiano tra le cose, gli affetti, i pensieri che talvolta, fortunatamente, acquistano una forma in cui riconoscersi. È una  forma volatile, raccoglie il continuo movimento dei tanti frammenti viventi nel pianeta.

È una nuova iconografia? Per il momento accettiamo proustianamente che le cose e gli oggetti incidono su di noi e hanno bisogno di essere rappresentati e raccontati.

(www.exibart.com, 30 dicembre 2016)

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