10 Gennaio 2019
L’Attacco

Il mistero negato del corpo che non tace, una installazione di Clelia Mori

di Katia Ricci

 

Nella sede dell’Associazione La Merlettaia di Foggia il 9 gennaio 2019 è stata inaugurata, a cura di Katia Ricci, la mostra-installazione dal titolo «Il mistero negato del corpo che non tace» di Clelia Mori, un’artista di Reggio Emilia, che ha illustrato il senso e la genesi della sua opera che risale al 2015. Iolanda Picciariello, un’operaia dello stabilimento Fiat di Melfi, ha raccontato la sua esperienza e Gemma Pacella, giovane dottoranda in Diritto del lavoro, ha parlato delle divise che le aziende impongono alle lavoratrici. Molte le domande, le curiosità e le osservazioni del pubblico che è intervenuto.
Nel 2015 Clelia Mori fu colpita da una notizia letta sui giornali a proposito della contestazione delle operaie Fiat di Melfi nei confronti delle tute bianche da lavoro che l’azienda aveva imposto alle operaie addette alla carrozzeria. 400 di loro firmarono una petizione, chiedendo di cambiare quel dress code che consideravano non adatto e non pratico a essere indossato dalle donne durante il ciclo mestruale, perché si macchiava facilmente di sangue, creando un profondo disagio. Si può bene immaginare gli sguardi e i risolini che quella vista poteva suscitare negli uomini, ma poi, come ha raccontato Iolanda, anche gli uomini hanno capito e appoggiato la protesta. La risposta dell’azienda, pur pratica da un certo punto di vista, fu ritenuta dalle operaie del tutto inadatta e che non coglieva appieno il senso della protesta: le tute bianche, uguali per uomini e donne, che dal punto di vista della Fiat rimandavano a un’idea di ordine, efficienza e pulizia, basata sulla parità di genere, mettevano invece in risalto che i corpi di donne e uomini sono differenti e che è necessario trattarli con cura e con uno sguardo diverso. In più quelle culotte offerte in dotazione alle operaie, insieme alla tuta, da indossare sotto i calzoni nei giorni del ciclo erano scomodissime, rigide e non lasciavano traspirare la pelle. Le operaie le considerarono un’imposizione umiliante e irrispettosa del loro corpo.
Letta la notizia, Clelia Mori ebbe l’idea di fare un intervento artistico sulle tute e ne chiese alcune alle operaie con cui riuscì a mettersi in contatto. Finalmente, dopo alcuni anni e relazioni epistolari, le arrivarono quattro tute che sono il fulcro del lavoro artistico che all’inizio s’intitolava “Ritratto di operaie” e in seguito “Il mistero negato del corpo che non tace”. L’artista ha ideato un intreccio indissolubile tra arte e politica, come è nel suo linguaggio e nella sua ricerca estetica di donna che da anni si è nutrita del “pensiero della differenza sessuale”: ha ricamato nei calzoni all’altezza del pube due cerchi concentrici con filo rosso, sotto due dei quali una macchia dello stesso rappresenta il sangue mestruale, segno irriducibile della differenza. Nella parte alta della tuta, invece, appaiono tre cerchi concentrici ricamati con il filo, dentro e intorno ai quali un ricamo con filo d’oro crea innumerevoli puntini e linee rette o curve che rappresentano le stelle e le reti di relazione che le donne continuamente riescono a tessere. Sul taschino della camicia, poi, sono inseriti specchietti che riflettono l’immagine di chi si avvicina per guardare.
Attraverso le macchie del sangue mestruale il corpo parla della propria differenza e, quindi l’artista gira in positivo, e al di fuori dei canoni tradizionali che fissa stereotipi, il legame antico e indissolubile tra corpo e femminilità. Infatti insieme con le tute Clelia espone una tela a olio intitolata “Salvator mundi” che riprende “L’Annunziata” di Antonello da Messina, ma trasforma in un gesto benedicente la mano di Maria che nell’artista rinascimentale è aperta nel momento in cui chiede all’Arcangelo Gabriele come farà a mettere al mondo il figlio di Dio, se non conosce uomo. Per Clelia è il “sì” della Vergine a salvare il mondo.
Un arazzo formato da un antico lenzuolo tessuto a mano su cui è ricamata una grandissima macchia del “sangue di vita” e una serie di disegni, infine, concludono l’installazione. Così li descrive Clelia Mori: «Sul totale dei disegni ci sono 3 o 4 fogli, dipinti con tempera oro per indicare la preziosità del mestruo». Ognuno degli altri 13 disegni (con macchie di china rossa e blu) è stato nominato “uno di tredici”, “due di tredici”, “tre di tredici” ecc. fino a “tredici di tredici”. È la rappresentazione del numero di volte in un anno in cui le donne di solito sono mestruate (il Sangue di Vita). «Ho ottenuto – dice Clelia – 13 dividendo 365 giorni per 28 (i giorni del ciclo lunare). Il disegno su di un foglio più piccolo ha una macchia d’oro all’interno di nove cerchi: è un simbolo dei 9 mesi della gravidanza… il 9 dice anche tanto altro… Ho unito il sangue mestruale con la vita che CREIAMO. Ho fatto tutto questo sul mestruo perché ho pensato che va dipanata la matassa neutra della parola “sangue” con cui identifichiamo qualsiasi sangue: quello di ferita, di malattia, di morte e mestruale. Credo che vada detto che quello mestruale è differente ed è di VITA.»
Clelia Mori esprime nella sua ricerca un atteggiamento comune a tante artiste che rifuggono i canoni della tradizione maschile, seguendo il proprio desiderio, per cui danno valore a tutto ciò che non era stato considerato arte per rifiutare il mito dell’artista genio e per creare un proprio spazio e linguaggio allo scopo di significarsi come donne e ripensare all’immagine di sé, da un punto di vista sessuato, femminile.
Clelia Mori ha colto attraverso l’arte il nesso indissolubile tra corpo, esperienza e linguaggio di cui le donne sono portatrici e che inevitabilmente in maniera più o meno consapevole portano in ogni ambito perché la differenza sessuale è iscritta nel corpo e oggi più che mai è visibile anche nel lavoro. Scrive, infatti, Giordana Masotto nell’articolo Il lavoro ha bisogno di femminismo, nell’ultimo “Sottosopra” Cambio di civiltà, punti di vista e di domanda (recentemente presentato a Foggia presso Parco-città), della Libreria delle donne di Milano, che le donne sono «ben ancorate in quel nesso corpo-parola che è la nostra forza. Questo nesso è peculiare del soggetto inedito che sono le donne portatrici di una complessità e di una contraddizione radicale […] Le donne sono portatrici di un tale scardinamento dell’idea, della qualità e del senso del lavoro che non possiamo pensare di affrontare discriminazioni e segregazioni senza cambiare il punto di vista sul quadro generale. Le donne al lavoro ci vanno intere… il di più che portano chiede di ripensare il lavoro per tutti […] Un insieme di denaro, tempo, senso, espressione di sé, relazioni».
Nella vicenda delle operaie di Melfi Clelia Mori ha colto che loro, come tante donne, non hanno mai lottato solo per rivendicare la parità di trattamento e di retribuzione, ma per avere condizioni affinché possano esprimersi come soggetto incarnato e dare voce ai desideri di un corpo femminile diverso dal corpo maschile, e che produce linguaggio e un immaginario differenti. Infatti all’essere donna non corrispondono solamente caratteristiche e cicli fisiologici diversi dagli uomini ma anche sensazioni ed emozioni corporee differenziate e, quindi, un pensiero e un linguaggio costituiti sulla base della consapevolezza della differenza. Come dice Chiara Zamboni: «È interessante che le donne diano molta importanza al corpo. Ora, il corpo è in gran parte inconscio, così che la nostra esperienza del corpo non può essere oggettivata. Il rapporto con il corpo e con il mondo di cui facciamo esperienza prende dunque una qualità altra nell’esperienza delle donne».

(L’Attacco, 10 gennaio 2019)

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