17 Marzo 2005
CORRIERE DELLA SERA

India, la lotta delle donne-pittrici “Il progresso minaccia i nostri murali”

 


Scorranese Roberta

Il loro dio aveva larghe spalle taurine, un manto splendente e la forza di un elefante. Era un dio potente e animale quello che, diecimila anni fa, i primi abitanti di questo cuore indiano dipinsero sulle grotte. Lo stesso dio che, da secoli, le donne dell’ altopiano di Hazaribagh, India del Nord, continuano a dipingere sulle pareti delle case. In forma di elefanti e pavoni, serpenti e volatili colorati. Più che un monito, una preghiera: che nessuno ci porti via la casa e le radici. Ma, nell’ India dello sviluppo economico, ai miracoli non crede più nessuno. Nemmeno dio. O forse no. A crederci sono le donne della Tribal Women’ s Artists Cooperative (Twac) di Hazaribagh, nello stato di Jharkhand, che girano il mondo diffondendo la cultura e le tradizioni tribali. E così, anche al Festival di Udine “Vicino/lontano”, dipingeranno sui muri animali fantastici e segni propiziatori. Coloreranno case e pannelli con polvere e acqua, cantando nenie. Daranno voce a quel dio rupestre che ha resistito per anni e che ora rischia di soccombere per far posto a “progetti di sviluppo”. “Con le nostre opere – dice Juliet Imam, una delle Twac – facciamo parlare secoli di storia”. Quella degli Adivasi, abitanti originari dell’ India. Detti anche pre-ariani, fate voi, comunque sono l’ otto per cento dell’ intera popolazione. Ovvero, più di ottanta milioni. In questo angolo d’ India ai confini col Bengala occidentale, gli Adivasi hanno le sembianze delle bellissime donne di lingua Oraon, ornate di bronzo e stoffe. O dei maschi Santhal, pasciuti e bellicosi. Quando giunsero qui, gli inglesi allevati nelle scuole vittoriane si impressionarono non solo per i sacrifici umani degli indigeni, ma anche per una sorta di loro simbiosi mistica con la natura. Le donne Koya, dalla pelle color castagno, paiono un’ appendice della foresta, come partorite dagli alberi; le ragazze Munda hanno movenze feline mutuate dalle tigri; le tribù Kondh della vicina Orissa coltivano credenze licantropiche. “Un popolo – dice Bulu Imam, a capo dell’ Intach, associazione per la difesa del patrimonio locale – che da sempre trova la sua identità nella terra”. Un’ identità oggi a rischio. Già, perché qui non ci sono solo foreste, tigri e fiori rari: il sottosuolo è ricco di minerali e di carbone. Indispensabili all’ economia di uno Stato che si prefigge di agganciare presto la Cina nella corsa alla supremazia economica mondiale.Qui non c’ è stato bisogno di spiegarglielo con il linguaggio burocratico. Questi uomini dalla pelle raggrinzita dal sole e dal Cheroot (il sigaro birmano), queste donne brune e serie l’ hanno capito con il naso, così come intuiscono l’ arrivo dei monsoni: dovranno lasciare le loro case per far posto alle operazioni di scavo. Dovranno trasferirsi nelle periferie cittadine perché la loro foresta è indispensabile. Al governo. “Essere indiani è una vita istintiva”, ha scritto il premio Nobel V.S. Naipaul. E queste donne e questi uomini hanno uno strano rapporto con la parola, ridotta alla sua origine funzionale. Preferiscono agire, muoversi. Combattere o pregare, come antichi guerrieri. E le donne pregano a modo loro, rivolgendosi a quella divinità sconosciuta che si portano dentro da sempre e che, solo di recente, la grotta di Hazaribagh ha restituito: un dio dalle spalle taurine e dalla potenza animale. “Ecco allora il senso della Tribal Women’ s Artists Cooperative – dice Bulu Imam -. Con il progetto “Johar!” (il loro saluto) le artiste continuano la tradizione delle donne indigene di dipingere le case, riproducendo, inconsapevolmente, un’ antica pittura muraria che hanno scoperto solo negli anni Novanta”. Simile a quella di Lascaux, in Dordogna, questa pittura rappresenta scene di vita e figure antropomorfe. Putli Ganju è nata nella giungla di Saheda. Sin da piccola ha imparato a decorare le pareti fangose della sua casa: si polverizzano le pietre, si estrae il colore, si prepara il doppio intonaco, nero e poi bianco. Si passa infine alla pittura o al graffito: pavoni, serpenti, elefanti. Si insuffla vita alla casa. È come se la millenaria tradizione animistica si trasferisse alle pareti. Una benedizione pagana che promette l’ inviolabilità del territorio domestico. “Tradizione – dice Juliet Imam – che scandisce fasi precise della vita”. Già. Come ci mostreranno a Udine, la pittura femminile muraria accompagna le festività del Sohrai (ottobre-novembre, periodo del raccolto) e Khovar (tra febbraio e giugno, periodo dei matrimoni). Fertilità, vita. Come nei fiori di Philomina Imam: abile tessitrice, i motivi floreali e che riproduce sembrano obbedire a un’ orchestra nascosta. Nelle foto di Robert Wallis, Mario Popham e Daniela Bezzi scorrono vite che si aggrappano ai simboli per non scomparire nel presente. E così, in questa provincia di mondo dove si fronteggiano le religioni cristiana e induista, islamica e animista, la fede più autentica sembra nascere da questi disegni primitivi. Liturgie rupestri che rispondono ad un istinto primordiale: la difesa di radici, casa, origini. Qui, dove il sistema delle “caste” non è mai arrivato e dove l’ istinto omicida dei felini viene percepito come una forza divina, “la casa” è quella che l’ anglo indiano Salman Rushdie definisce come “gli occhi chiusi di una vita protetta”.

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