12 Settembre 2014
il manifesto

I fili scuciti del mondo

di Arianna Di Genova,

 

Da bam­bina, Maria Lai aveva impa­rato a cam­mi­nare sospesa nel vuoto insieme a un gruppo di zin­gari acro­bati che si erano fer­mati nel paese dove viveva per lun­ghi periodi con gli zii. Soli­ta­ria, non fre­quen­tava le ele­men­tari, pas­sava i pome­riggi a dise­gnare col car­bone. Fino al giorno in cui arri­va­rono i gitani. Le pia­ceva molto vol­teg­giare guar­dando il cielo terso della sua terra, tanto che quando i gio­co­lieri deci­sero di par­tire, lei si unì a loro, accuc­cian­dosi den­tro il car­roz­zone che andava via.
Fu quella solo la prima delle sue fughe: nel corso della vita ne segui­rono molte altre per­ché, diceva, biso­gna sem­pre man­te­nere la giu­sta distanza dagli altri per rima­nere se stessi («niente mi avrebbe distolto dal mio pozzo»). È una disci­plina quella della distanza da eser­ci­tare quo­ti­dia­na­mente, senza distra­zioni, soprat­tutto se si è donna, nata nei primi decenni del secolo scorso (1919), con il dèmone della curio­sità che ti bru­cia den­tro, in un paese aspro come la Sar­de­gna, terra ata­vica di pastori e tes­si­trici, luogo un po’ magico dove le janas, le fate delle grotte, aiu­tano a costruire le trame delle cuci­ture di tap­peti e di stoffe con il loro ordito che mescola rigore geo­me­trico e libera imma­gi­na­zione. Un luogo dove le caprette pasco­la­vano iner­pi­can­dosi per sen­tieri roc­ciosi e adesso – gra­zie a Maria Lai – cam­mi­nano com­po­ste in fila indiana, «cucite» con il ferro lungo le mura di cemento che con­ten­gono il ter­reno franoso.

Nel paese delle janas

«Aveva ragione mio padre a dire che ero una capretta ansiosa di pre­ci­pizi», rac­con­tava diver­tita nelle inter­vi­ste. Eppure quell’immagine di estrema sem­pli­cità non la disturbò mai; anzi, la fece sua, ne estrasse il net­tare sim­bo­lico («è la fan­ta­sia»), la ripro­dusse con alcuni segni essen­ziali – un ret­tan­golo e un trian­golo – in cui la lezione di un mae­stro ruvido e per nulla inco­rag­giante come Arturo Mar­tini, seguito per tre anni a Vene­zia, non venne mai meno. Poi, la portò ovun­que ce ne fosse biso­gno e ne regalò il copy­right alle donne tes­si­trici così che la potes­sero far rivi­vere ogni giorno nei loro ricami. L’ha dise­gnata anche sul dorso della mon­ta­gna, ma quella capretta bianca ha una per­so­na­lità par­ti­co­lare, viene da sto­rie lon­tane, è roto­lata nelle parole dello scrit­tore amico Giu­seppe Dessì e poi si è rimo­del­lata fra le sue mani.
A Ulas­sai, lì dove un tempo c’era la sta­zione del treno e oggi c’è un pic­colo museo per l’arte, tira un gran vento che scom­pi­glia le fronde degli alberi e fa ondeg­giare la scul­tura dedi­cata a Anto­nio Gram­sci. Maria Lai volle lasciare un suo con­tri­buto dedi­cato allo scrit­tore fia­be­sco che dal car­cere man­dava let­tere a Giu­lia per­ché leg­gesse la sto­ria della mon­ta­gna e del topo­lino al figlio Delio, costretto a cre­scere con il padre lon­tano: una grande strut­tura in ferro, fili­forme e nodosa, come fili­forme e nodoso era il corpo dell’artista, al cui ver­tice tro­viamo arram­pi­cati due bam­bini. Dovranno pian­tare un albero per far pla­care la natura ed evi­tare frane rovi­nose. E pro­prio lì, nel suo luogo natìo, in quel borgo abbar­bi­cato in mezzo a una gola, dove il dio del vento non smet­teva mai di sof­fiare e dove la comu­nità viveva sem­pre sotto la minac­cia di tem­po­rali cata­stro­fici, Lai ha agito come una jana, una fata: ha rega­lato quella visio­na­ria per­for­mance col­let­tiva, Legarsi alla mon­ta­gna (1981), donando una nuova ripar­tenza a tutti, ad anziani e bam­bini, scac­ciando i fan­ta­smi del pas­sato.
La leg­genda rac­conta di una bam­bina che, come Cap­puc­cetto Rosso, era stata man­data a por­tare il pane ai pastori. Di fronte all’avvicinarsi di un brutto tem­po­rale, que­sti si erano rifu­giati nelle grotte con il gregge. A un certo punto, la pic­cola vide un nastro cele­ste attra­ver­sare il cielo e presa da stu­pore, lo seguì cor­rendo. I pastori non ne vol­lero sapere di abban­do­nare il loro rifu­gio e quando la parete della mon­ta­gna venne giù, rima­sero sepolti fra i sassi. Il nastro, con la sua bel­lezza effi­mera, pro­prio come l’arte, aveva indi­cato una dire­zione di sal­vezza.
Maria Lai, chia­mata per dise­gnare un monu­mento ai caduti, rifiutò la com­mis­sione pub­blica e pro­pose invece la sua azione: un nastro (26 chi­lo­me­tri di stoffa di jeans) avrebbe legato le case e i loro abi­tanti uno a uno fino ad arri­vare alla mon­ta­gna. Per rea­liz­zare l’impresa, biso­gnava par­lare con le per­sone e con­vin­cerle a supe­rare anti­chis­simi ran­cori, ini­mi­ci­zie radi­cate negli anni. Lei ci riu­scì, inven­tando un lin­guag­gio del nastro: sarebbe pas­sato dritto dove le fami­glie non si par­la­vano, anno­dato dove vi fosse con­di­vi­sione di affetti, con un pane da festa appeso se vi fosse amore. Nes­suno, affac­cian­dosi fra quelle rocce sarde, lassù, dimen­ticò più quella gior­nata spe­ciale che finì con balli e canti a notte fonda, venne fil­mata da Tonino Casula e rimase impressa nella pel­li­cola di Piero Berengo Gardin.

Dalle trame alle mappe

Ricu­cire il mondo – le tre ras­se­gne in omag­gio all’artista che impe­gnano la sede del Palazzo di Città a Cagliari, il Museo Man di Nuoro e Ulas­sai – rap­pre­sen­tano un per­corso espo­si­tivo che rispetta, con­cet­tual­mente, quel «legarsi» l’uno all’altro voluto for­te­mente da Maria Lai. Sono tappe di una retro­spet­tiva (visi­ta­bili fino al 2 novem­bre pros­simo) che costrin­gono a uno spo­sta­mento reale, a un pel­le­gri­nag­gio laico, chia­mando lo spet­ta­tore a un’attiva par­te­ci­pa­zione. Lo immer­gono in una mol­te­pli­cità di uni­versi – let­te­rari, poe­tici, infan­tili, fia­be­schi, tea­trali, geo­gra­fici, cosmici – e non è così scon­tato che alla fine ne esca fuori, «a rive­der le stelle». Potrebbe rima­nere impi­gliato nei telai che dis­se­mi­nano trame, nelle mappe che fanno sva­nire i con­fini degli stati, nelle lava­gne con le scritte lavate dall’acqua del mare, fra le pagine di leg­gende d’amore e morte, fino a per­dersi in nostal­gie lan­ci­nanti in quel «cimi­tero di bam­bini», distesa di ex voto rea­liz­zati con il pane, rito con­so­la­to­rio in onore di chi non c’è più e insieme il riat­ti­varsi di una tra­di­zione arcaica. Una ragna­tela è anche quella che avvolge le sedi stesse e alcune opere, un’installazione ideata dall’artista Clau­dia Losi con lo sti­li­sta Anto­nio Mar­ras.
Con più di tre­cento opere – repe­rite fra col­le­zioni pub­bli­che e pri­vate – e un numero assai mag­giore in corso di cata­lo­ga­zione, si va a com­porre un mosaico crea­tivo che pre­ce­den­te­mente lamen­tava molti pezzi man­canti. Oggi, come ha spie­gato Bar­bara Casa­vec­chia, cura­trice insieme al diret­tore del Man Lorenzo Giu­sti della mostra di Nuoro, l’attività tea­trale e didat­tica dell’artista ha ritro­vato alcuni «fili» dispersi e com­ple­tato la sua nar­ra­zione (pure con un breve video di ani­ma­zione che Lai aveva rea­liz­zato con i pic­coli stu­denti).
Così se a Cagliari, sotto la cura di Anna Maria Mon­taldo (diret­trice dei Musei Civici), va in scena la prima parte di una pro­du­zione ric­chis­sima – dagli anni Qua­ranta agli anni Ottanta, com­preso un cor­pus di dise­gni sor­pren­dente per la moder­nità di un segno che non con­cede nulla al décor e che nel suo mini­ma­li­smo costrut­ti­vi­sta molto ricorda quello delle avan­guar­die russe – a Nuoro invece ci si lascia cul­lare dall’affabulazione magica dei libri «scu­citi», dai vario­pinti varani pronti a pro­iet­tare ombre calei­do­sco­pi­che sulle fine­stre, dalle scrit­ture per ini­ziati, dal gioco dell’oca e da quello delle carte, da oggetti banali rivi­si­tati attra­verso la manua­lità ludica dell’artista (che spesso lavo­rava con la sorella e la nipote Maria Sofia Pisu, «men­tre cuci­vamo, dove­vamo pen­sare che sta­vamo scri­vendo a qualcuno»).

Il ritmo della poesia

Qui e lì, a Cagliari e a Nuoro, ma anche nel lava­toio di Ulas­sai, sfi­lano i grandi telai, seguiti dalle mera­vi­gliose geo­gra­fie, mondi da esplo­rare libe­ra­mente, che intrec­ciano terra e cielo, astri e sassi. Ovun­que, in tutte le sedi espo­si­tive, aleg­giano le sue figure di rife­ri­mento, affet­tive e intel­let­tuali, quelle a cui rimase legata per l’intera esi­stenza: Sal­va­tore Cam­bosu, ritratto più volte, mae­stro e poeta che le inse­gnò a leg­gere le parole attra­verso il ritmo («il mio sogno è che all’ingresso di ogni museo e scuola possa esserci la scritta ‘non importa se non capi­sci, segui il ritmo’», dirà Lai anni dopo), la spinse a ripar­tire dalla Sar­de­gna, dopo la guerra, quando ormai i viaggi di istru­zione erano alle sue spalle e tutto le sem­brava per­duto; e il vicino di casa e sodale, lo scrit­tore Giu­seppe Dessì, che la rim­pro­ve­rava per­ché «faceva sca­ra­boc­chi», men­tre in realtà la appog­giò incon­di­zio­na­ta­mente e col­la­borò con lei, con alle­gria e eru­di­zione.
L’oralità e la scrit­tura sono le due stelle polari che hanno gui­dato l’arte di Maria Lai («da pic­cola, guar­davo mia nonna che ram­men­dava len­zuola, a me sem­bra­vano scrit­ture e quando lei mi chie­deva scher­zo­sa­mente di leg­gerle, io inven­tavo sto­rie»). Il punto di sal­da­tura è nel gioco e quando avviene il mira­colo, scen­dono in campo temi ance­strali, remi­ni­scenze jun­ghiane e let­ture pro­fonde. Per­ché, a distanza di un anno dalla sua scom­parsa (Maria Lai se n’è andata a 93 anni nell’aprile del 2013), si può tran­quil­la­mente sca­vare nel suo alfa­beto ori­gi­nale e sco­prire, una volta per tutte, che in lei non c’era nulla di naïf. L’ossatura intel­let­tuale di Maria Lai era robu­stis­sima, nutrita anno dopo anno con fre­quen­ta­zioni di let­te­rati, archi­tetti, arti­sti e, per­ché no, bam­bini.
Anche la «pre­i­sto­ri­cità» delle figure prese in pre­stito dalla sua terra, era un lascito «avver­tito», un’eredità for­tu­nata. Bastava saperla cogliere per il verso giusto.

 

(il manifesto, 16 luglio 2014)

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