24 Giugno 2010
il manifesto

Teorema Abramovic

 

di Gian Maria Annovi

Un dialogo con Marina Abramovic dopo la retrospettiva al MoMa di New York. Per tre mesi l’artista, in una nuova performance realizzata per la mostra, è rimasta seduta nel museo, in silenzio e senza interruzioni, disposta a guardare negli occhi chiunque si volesse sedere di fronte a lei.
Ormai quarant’anni fa, in una delle sue prime performance, Marina Abramovic si spazzolava i capelli fino a farsi male, ripetendo che l’arte deve essere bella (Art must be beautiful, 1975). Già allora era implicito che nel suo lavoro di performer il corpo dell’arte e il corpo dell’artista, con la sua concreta presenza fisica, non sono facilmente separabili e che è attraverso quest’ultimo che si devono mettere in crisi le convenzioni e gli assunti più comuni. Senza il rigore assoluto con cui Abramovic ha esplorato i limiti del corpo e della mente, il mondo dell’arte contemporanea non sarebbe quello di oggi e la performance art verrebbe forse ancora considerata come una forma d’arte minore ed effimera.
Riconoscendole questo ruolo centrale, il Museum of Modern Art di New York le ha appena dedicato una mostra retrospettiva, la prima in assoluto per un artista performativo. Curata da Klaus Biesenbach e intitolata The Artist is Present, oltre a ripercorrere quarant’anni di lavoro artistico, a partire dalle opere degli anni ’70 realizzate in coppia con l’artista tedesco Ulay, e in parte riprodotte impiegando giovani performer, Abramovic ha anche creato appositamente un nuovo lavoro che ha catalizzato in maniera inaspettata l’attenzione del pubblico e dei media americani. Nell’orario di apertura del MoMa e per i tre mesi di durata della mostra – 736 ore e 30 minuti, per l’esattezza – Marina Abramovic è rimasta seduta, senza interruzioni e senza parlare, in un’ampia area del museo, disposta a guardare negli occhi chiunque volesse sedersi di fronte a lei. Al termine di questa performance davvero epica, che si è conclusa il 30 maggio, abbiamo intervistato l’artista mentre si trovava nella sua casa di campagna vicino a New York, dalle cui finestre dice di osservare, di tanto in tanto, i cervi di passaggio.
Il titolo della sua mostra, con il suo richiamo alla presenza, mi pare si possa leggere anche come un’affermazione circa il ruolo dell’artista in questa società sempre più virtuale. È così?
Assolutamente sì, soprattutto se parliamo di performance. Quando il curatore della mostra mi ha suggerito questo titolo ho subito capito che non avevo alternativa: dovevo veramente essere presente. E così ho lavorato a una performance minimale, fatta quasi di nulla, il più immateriale possibile. Il pubblico viene sempre visto come gruppo e mai come somma di individui reali, ma creando una zona in cui lo spettatore è invitato a partecipare individualmente, a sedersi di fronte a me, si è stabilita una situazione completamente personale, una relazione concreta tra pubblico e artista. È per questo che tanta gente ha pianto ed ha mostrato le sue emozioni. È stato incredibile.
Come si è preparata per questa performance?
Ho iniziato la preparazione fisica sette mesi prima, modificando radicalmente la mia dieta. Sono stata in India, in una clinica ayurvedica, per purificare la mente e il corpo e ho fatto moltissimi esercizi. Avevo quasi la sensazione di essere un astronauta in partenza per lo spazio. Pensi che c’è gente che si è perfino chiesta come urinassi mentre stavo seduta per ore: semplicemente non lo facevo. Dopo aver performato per quarant’anni credo mi si possa riconoscere di essere almeno in grado di saper controllare il mio corpo.
Vederla al MoMa, in silenzio su quella sedia, mi ha fatto venire in mente uno dei personaggi di Teorema di Pier Paolo Pasolini. Conosce questo film?
Non solo lo conosco ma è il mio film di Pasolini preferito. Ne conosco ogni singolo fotogramma. Per tutta la mia vita ho sognato di rifarlo. Laura Betti, che raggiunge uno stato di illuminazione spirituale e inizia a levitare, è assolutamente meravigliosa. È un film interessantissimo, vorrei davvero farne un remake un giorno o l’altro.
Pensavo proprio alla radicalità del personaggio della cameriera interpretato da Laura Betti. Non a caso la levitazione è un’idea che anche lei ha esplorato in molte delle sue performance. Anche nel suo lavoro, oltre all’attenzione sul corpo, c’è una forte componente spirituale, persino mistica.
Nella maniera più assoluta, anche se nel mondo dell’arte la gente non ama parlare di spiritualità. È una forma di strano tabù. Per questo non parlo mai direttamente di misticismo anche se è un’esperienza che ho sperimentato su di me: quando la gente mi si sedeva di fronte durante The Artist is Present, era come se il loro spirito si aprisse, vedevo la loro luce mentre tutto intorno spariva. Dopo un po’ anche loro non erano più consapevoli dei suoni che li circondavano e io stessa non ero altro che uno specchio, tanto da svanire del tutto nella loro percezione. Riuscire a fermarsi e riflettere sulla propria vita è di certo un traguardo spirituale.
Che cosa ha significato lavorare con la perfomance in uno spazio istituzionale come il MoMa, dove pubblico e performer sono costantemente controllati?
Prima di tutto sono stanca che la performance art venga considerata una forma d’arte alternativa. Della mia generazione nessuno fa più performance: sono rimasta solo io. Sentivo il dovere di fare della performance una forma d’arte mainstream e quando ho ricevuto l’invito dal MoMa ho subito capito che quella era la mia grande opportunità, tanto che ho deciso di dare tutta me stessa, per tre mesi. Tre mesi d’inferno, ma ce l’ho fatta. È vero, queste grandi istituzioni hanno delle regole, moltissime regole. Quello che posso dire è che durante la mia performance la security mi ha facilitato, aiutando il pubblico a concentrarsi, a concentrarsi su se stessi. Ma a parte questo, bisogna essere disposti al compromesso, che non deve però mai essere totale.
Può spiegare meglio cosa intende?
Per Imponderabilia, per esempio, il pezzo che feci originalmente con Ulay a Bologna, l’idea della performance era che l’artista costituisse l’ingresso del museo: al MoMa l’attenzione è invece stata tutta sulla nudità dei performer che stavano uno di fronte all’altro obbligando il pubblico a passare in mezzo a loro. Così, rispetto alla versione di Bologna, hanno voluto un’apertura più larga. I performer coinvolti nell’opera, però, hanno cominciato di propria iniziativa ad avvicinarsi di più, in modo da ricreare ugualmente la stessa situazione. Credo davvero che cercare di far diventare questa disciplina parte del circuito artistico istituzionale possa aiutare le generazioni di artisti più giovani. Per questo considero la mia mostra al MoMa molto importante per il significato attuale della performance art. E la ragione della sua importanza è che quando entriamo in un museo non abbiamo mai nessuna esperienza personale. È questo il motivo per cui uno straordinario numero di persone ha partecipato, ha atteso, ha pianto: sembrava una specie di Lourdes. Questa è la cosa che ha completamente shockato il museo.
Nel caso di Imponderabilia, la stampa americana si è scatenata dopo che diversi membri del pubblico sono stati allontanati per aver toccato i performer nudi. Crede che questa reazione abbia a che vedere con un recente cambiamento nel modo di rapportarsi al corpo?
No, non credo, è davvero un problema dell’America: gli americani hanno un atteggiamento malato verso la nudità. Quando Janet Jackson ha mostrato accidentalmente un capezzolo in tv, se n’è parlato di più che della guerra in Iraq. È una maniera come un’altra di deviare l’attenzione generale. Sono rimasta sconvolta dal basso livello con cui i media si sono occupati della mia mostra: sembrava che volessero mantenere la gente nella stupidità. Era tutto un parlare di nudità, di erezioni… ma non uno che abbia colto l’aspetto poetico di Imponderabilia. Un’opera, vorrei ricordarlo, del 1977.
Tra i critici d’arte, qualcuno si è invece scandalizzato per la sua idea di re-performance. Perché ha deciso di riproporre, usando giovani artisti, cinque delle sue performance storiche accanto alle foto e ai video delle opere originali?
È molto semplice. All’inizio, negli anni ’70, nessuno, me compresa, pensava neanche lontanamente non solo di riperformare ma nemmeno di ripetere una performance. Era un assoluto tabù: non si prova, si fa la performance, non si ripete. Ma poi negli anni ’80 e ’90 molti giovani artisti hanno iniziato a scoprire alcuni pezzi ormai storici e a farli propri. E altrettanto giovani critici, senza alcuna cognizione della storia dell’arte, li elogiavano come se fossero nuove creazioni. Come quando anni fa una ragazza ha dormito per giorni in una galleria di Londra…
Sta alludendo a Tilda Swinton alla Serpentine Gallery?
Esatto, una banalità assoluta. Ci sono molti altri artisti che hanno dormito in pubblico a partire dagli anni ’70 e nei contesti più diversi: ma a questo non si accenna nemmeno. E poi se si guarda Mtv, la danza, il teatro, hanno tutti preso elementi e immagini della performance art cambiandone il contesto. È una cosa che mi fa infuriare: se usi un brano musicale o una citazione da un libro devi dire chi è l’autore. Puoi prendere Bach e creare del techno-Bach, ma non puoi evitare di dire che è Bach. La performance, invece, nessuno la rispettava, era una terra di nessuno, perché veniva considerata una forma d’arte alternativa. Ed è per questo che, nel 2005, ho riproposto sette performance storiche di vari artisti al Guggenheim di New York.Secondo me l’unico modo in cui la performance può sopravvivere è proprio la re-performance, perché la rende viva e non solo una cosa morta nei libri. Ma in tal caso bisogna stabilire delle regole: innanzitutto chiedere all’artista il permesso, in secondo luogo pagare i diritti direttamente all’artista o alla fondazione che lo rappresenta, nel caso sia morto, poi occorre comprendere il pezzo originale, farlo proprio ma sempre facendo riferimento all’autore. Durante la mia mostra, un gruppo di artisti senza curatore è venuto a dirmi che stavano per farmi l’onore di riperformare, senza però avermi chiesto alcun permesso, diversi miei lavori, compresi Rhythm 0 e Rest Energy. Ma io non do il permesso di rifare tutti i miei pezzi, e soprattutto non darei mai il permesso di rifare quelli più pericolosi, come Rhythm 0! In un certo modo ho aperto un vaso di Pandora. A suo tempo l’ho fatto con le migliori intenzioni ma la situazione ora è fuori controllo. Devo capire come educare meglio queste nuove generazioni a rispettare la tradizione.
Come mai i suoi primi lavori erano più legati all’idea di pericolo mentre oggi si concentra invece su tempo, autocontrollo e presenza?
Prima di ogni altra cosa mi sono sempre concentrata sul corpo. Non sarei mai arrivata dove sono ora, se non lo avessi fatto. È stato uno sviluppo logico. Nel mio lavoro dovevo conoscere il corpo, comprenderne i limiti, controllare il dolore. E a dire la verità anche se le mie prime performance erano più pericolose erano molto più semplici dei lavori di lunga durata che sto facendo ora, per i quali occorre davvero un’incredibile forza di volontà. Quello che ho appena fatto al MoMa per tre mesi, ad esempio, è estremamente difficile. Ho guardato 1565 paia di occhi: sono cose che ti cambiano profondamente. La vita non mi ha mai cambiato, è stato il mio lavoro a cambiare la mia vita.
Come vede il futuro della performance art e quali sono i suoi progetti attuali?

Penso che di recente la performance abbia avuto un grande revival tra le giovani generazioni di artisti. Sto lavorando alla creazione del mio Institute for Performing Arts, che voglio aprire nel 2012 a Hudson, New York. L’istituto avrà una scuola, ma anche una commissione di artisti per far realizzare opere di lunga durata. Tutto quanto verrà prodotto dovrà essere di almeno sei ore di durata, non meno. Sarà il primo luogo al mondo dedicato solo a opere di lunga durata, perché è questa la forma d’arte che ha oggi il maggiore potenziale trasformativo. E poi vorrei dedicarmi all’educazione del pubblico. Nessuno lo ha mai fatto veramente. La gente guarda l’arte attuale come faceva nel XIX secolo. Invece quello che succede oggi, come ha detto Damien Hirst nella sua ultima mostra, è che siamo veramente alla fine di un’era, la fine dell’epoca del consumismo materialistico. La gente è stanca della cultura materialistica, è persa in un mondo tecnologico, ha bisogno di qualcosa di diverso e la performance non è solo una forma d’arte, ma un grande strumento per ritrovare se stessi.

Print Friendly, PDF & Email