6 Novembre 2005
l'Unità

Trecce e tappeti: dall’Afghanistan alla Turchia l’arte è donna

 

Pier Paolo Pancotto

Tra le note positive e le altrettante incertezze che hanno costellato la Biennale di Venezia una piacevole sorpresa è stata la proposta della Fondazione Levi che ha ospitato contemporaneamente le quattro partecipazioni nazionali di Afghanistan, Iran, Turchia, Ucraina. Che, al di là dell’evidente significato culturale e politico che la presenza alla rassegna dei singoli Paesi ha costituito in sé, è risultata nel suo complesso come una delle iniziative più riuscite nell’ambito dell’intera Biennale poiché ha raccolto realtà artistiche che, pur mantenendo una propria specifica individualità (ben definita anche sotto il profilo logistico: le quattro mostre erano accuratamente dislocate in zone separate), erano integrate perfettamente tra loro sotto il profilo espositivo essendo esse accomunate da una serie di rimandi e di aspetti – intellettuali ed estetici – piuttosto speciali e per certi versi inattesi.
Tra gli elementi che accomunavano le presenze in mostra – e che più hanno colpito il visitatore – c’era una forte «componente femminile». Donne sono Mandana Moghaddam (Teheran, 1962) e Bita Fayyazi Azad (Teheran, 1962), chiamate a rappresentare l’Iran, e Lida Abdul (Kabul, 1973), dell’Afghanistan. A tematiche femminili – soprattutto alla condizione civile e professionale della donna nelle rispettive società d’appartenenza – si rivolgevano i lavori delle stesse Moghaddam (Chel Gis – Quaranta trecce, ispirato ad un antico mito iraniano il progetto si compone di un blocco di cemento tenuto al soffitto da capelli femminili intrecciati) e Azad (Kismet – Destino: cinquanta statue di neonati in alluminio sovrastano quella di una donna dal ventre luminoso a celebrare la maternità e i tanti risvolti emotivi, spesso contrastanti, che la coinvolgono) e quello dell’afgano Rahim Walizada (Bagalan, 1963). Quest’ultimo, Le studentesse di Faizabad, si presentava come un assieme di superfici in lana o cotone colorate naturalmente secondo le tecniche più antiche; Walizada, chiamando alcune donne a tessere nel proprio laboratorio o incaricando altre – impossibilitate a fare altrimenti per ragioni familiari o sociali – a realizzare in casa propria dei lavori a telaio, contribuisce in qualche modo a renderle più autonome. La stessa Faizabad citata nel titolo è sinonimo di libertà: il suo nome, infatti, corrisponde a quello di un piccolo paese a nord dell’Afghanistan ove anche durante il regime talebano la locale Università concedeva alle donne, pur tra una estrema povertà e mille disagi, l’iscrizione al corso di medicina.
Anche Lida Abdul ha tentato, a sua volta, di dare un’immagine diversa dell’Afghanistan e i suoi video pongono l’accento sulla ricchezza culturale del Paese più che sul dolore ed il senso di distruzione ai quali il suo nome viene normalmente associato. Una donna era protagonista del raffinato video del turco Hussein Chalayan (Nicosia, 1970), La presenza-assenza ove – in un clima che in altre circostanze si sarebbe detto di «realismo magico» – una fanciulla viene colta a svolgere azioni semplici e quotidiane esaltandone così la bellezza più intima e meno banale sottolineata da un abbigliamento del tutto essenziale e al di là delle mode, richiamando così anche altri aspetti del multiforme impegno creativo di Chalayan. E una componente femminile era, seppure indirettamente, evocata nell’allestimento proposto dall’ucraino Mykola Babak (nato a Voronyntsi, Cherkasy) il quale con I tuoi figli, Ucraina parla della propria terra. Per far questo raccoglie un gruppo di scatti fotografici vecchi e nuovi raffiguranti bambini partecipi di alcuni momenti fondamentali della loro esistenza, dal battesimo al funerale; le foto sono inquadrate in cornici e tessuti artigianali a comporre un’immaginaria iconostasi mentre anche altri elementi richiamano all’infanzia (e dunque alla maternità): suoni in sottofondo e bambole di pezza colorata, come quella con la quale la nonna (altra figura che riconduce alla maternità) spaventava l’artista da bambino. In una sala successiva Babak proietta le immagini girate a Kiev nel 2004 durante una manifestazione: i bambini di ieri sono gli adulti di oggi e al bianco-nero delle impressioni fotografiche si è sostituito il colore della pellicola cinematografica.

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