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Intervento
di Elisabetta Marano
Per me che
una donna dica "mi piace lavorare" è una conquista. Per
me,
Elisabetta, è fondamentale che l'elemento del piacere sia presente
nella mia
vita in tutto quello che faccio, e quindi sono felice di essere uscita
dall'idea del lavoro come costrizione dettata dalla pura necessità
economica. E' proprio per questa mia affezione al lavoro che capisco la
sofferenza di chi come la protagonista del film viene privata della possibilità
di auto realizzazione personale in un contesto che le sta a cuore.
Vorrei dire però a Oriella e Nilde di non stupirsi del fatto che
la regista non racconti di relazioni significative della protagonista
nel luogo di lavoro, perché purtroppo è così anche
per me. Mi capita spesso di intrecciare rapporti sul posto di lavoro in
cui la simpatia reciproca garantisce un aiuto ed una collaborazione superiore
alle aspettative medie; ma non posso dire che queste relazioni mi/ci hanno
permesso di lottare quando lo ritenevo, lo ritenevamo necessario. Credo
sia molto difficile creare in quei contesti un tessuto di fiducia ed affetto
tali da farti carico di te, dell'altro e della relazione. Questo lo dico
con disagio perché anch'io so quanta energia, forza e quanto coraggio
sanno darmi le relazioni con le donne con cui faccio politica. Sto parlando
di relazioni che rispondono alla mia necessità di avere un confronto
sincero e serrato. Costituiscono lo spazio per esprimermi fino in fondo,
con tutte le mie contraddizioni e i miei desideri. Sono relazioni che
vincono la solitudine e la fatica di pensarsi e agire senza radici e riferimenti.
Mi piacerebbe riprodurre queste relazioni, che mi permettono di progettare
una vita più felice, in altri contesti, come il mio luogo di lavoro,
ma non ci riesco, o semplicemente non mi sono mai capitate.
Così davanti alla paura di "perdere la pagnotta" anch'io
mi sento impotente.
Quindi il problema che affronta la Braschi di trovarsi impreparata davanti
ad una serie di situazioni impreviste è un po' anche il mio.
Inoltre quello che le manca è la capacità di riconoscere
immediatamente ciò che le stanno facendo. Quindi dopo un primo
momento di imbambolamento, ha una fase di adattamento al sistema. Accetta,
accetta e tira avanti. A me questo adattamento non torna, è li
che vorrei capire cosa le manca per inventarsi un'alternativa, una strategia.
Lei sta davanti al suo capo come una ebete, salvo reagire con rabbia quando
ormai è allo stremo
delle forze. Ed allora il punto è sempre lì: quando sei
allo scontro forte con un dispositivo maschile, cosa fai? Ti adatti, ti
arrabbi e poi vai via inevitabilmente, o c'è altro che è
fattibile? Voi richiamate giustamente all'importanza delle relazioni sul
posto di lavoro. A me questo non pare sufficiente se non affronto anche
la questione dei miei nodi, anche intimi, di un rapporto con gli uomini
in cui non riesco bene a destreggiarmi. Mi sento in una situazione di
lotta arenata, perchè il sindacato non mi da fiducia e con il maschile
non riesco a confliggere costruttivamente. O almeno così pare dica
implicitamente anche la regista, che dirige un film dove non si dice un
acca del rapporto con il maschile. Niente di niente. Pare che la questione
non ci sia, o almeno non è quello il punto. E allora il punto secondo
lei dov'è? Nel fatto che siamo comunque vittime? E io, come comincio
a lottare ?
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