Libreria delle donne di Milano
AfricaBurkina

DA "AFRICA", FASCICOLO MONOGRAFICO BILINGUE (ITALIANO E INGLESE) DI "LEGGENDARIA", NN. 55-56/2006 - Il fascicolo può essere acquistato in rete dal sito www.manifestolibri.it (vai su "Collane", vai su "Rivista Leggendaria")

La libertà della lingua che svela menzogne
Silvia Riva

Dal 2004 esiste sul web una base dati lessicografica, la BDLP[1], che è nel contempo un dizionario enciclopedico delle varianti del francese nel mondo francofono e una miniera di informazioni sull'evoluzione della lingua. E' costantemente aggiornata e molto attenta alle espressioni dell'oralità. Una ricognizione anche sommaria delle voci ci direbbe che in Acadie (una regione canadese che si affaccia sull'Atlantico) quello che in Francia è chiamato nombril (ombelico) diventa berlicoco; che un po' più a ovest, in Québec, parler à travers son chapeau significa parlare senza cognizione di causa; che in Africa centrale un père in termini ecclesiastici è sempre un Père blanc, mentre un sacerdote africano è piuttosto un abbé; che nell'isola di La Réunion sono ancora in uso parole francesi (per lo più appartenenti all'area della Normandia) che sono scomparse nell'Esagono ormai dal XVII secolo. Il fatto è che nel mondo circa 250 milioni di persone parlano, leggono o capiscono a livello più o meno fluente l'idioma di Montesquieu, il che fa del francese la nona comunità linguistica al mondo, ma la sola, con quella anglofona, ad essere presente su tutti i continenti.
E' questa caratteristica di diffusione capillare in ogni area del globo che rende interessante tanto l'uso della lingua parlata (molte volte ereditata da un passato coloniale, ma spesso anche scelta come lingua di elezione), quanto l'uso della lingua scritta, quella letteraria, eletta a codice di espressione artistica da autori diversissimi per gusto, immaginario, stile, origine, tradizione, realtà, vissuto; insomma, per spazio mentale e fisico. E spesso ognuno di loro è la somma di una grande quantità di sostrati che, a loro volta, si sovrappongono, dando luogo a quello che il caraibico Edouard Glissant chiamerebbe un prodotto della "creolizzazione", ossia della messa in relazione inaspettata e dell'incontro (che non si riduce mai a pura sommatoria) di radici multiple
[2].
Prendiamo, ad esempio, la grande scrittrice e saggista nata a Orano nel 1937, Hélène Cixous, che si autodefinisce (in inglese) in questo modo: "I was born in Algeria, and my ancestors lived in Spain, Morocco, Austria, Hungary, Czechoslovakia, Germany; my brothers by birth are Arabs. So where are we in History? [...] What is my name? I want to change life. Who is this "I"? Where is my place? [...] Which language is mine? French? German? Arabic?"
[3]. Eppure Hélène Cixous ha espresso le teorie femministe più convincenti in lingua francese, nei romanzi Dedans (1969), Le troisème corps (1970), Illa (1980) e Manne (1988), Osnabrück[4](1999) ; a teatro con Portrait de Dora[5](1976), La prise de l'école Madhuba? (1983) e L'indiade (1987); nelle poesie contenute in Un vrai jardin (1971) e Souffles (1975); e ancora in La jeune née (1975), La venue à l'écriture (1977)[6], Jours de l'an (1990), L'ange du secret (1991), Déluge (1992), Messie (1996), Or: les lettres de mon père (1997)…
Perché, allora, scrivere proprio in francese? Non certo, come sostiene con ironia lo scrittore originario dell'enclave francofono di Gibuti (Corno d'Africa), Abdouarahman A. Waberi, <<pour faire rager la perfide Albino>>; e nemmeno - lo afferma con altrettanta ironia - perché si è un <<ardent défenseur de l'exception culturelle française>> (espressione vuota, che è servita più sul piano politico e economico che non su quello propriamente culturale). La prima risposta (anche se, come vedremo, non è la sola) risiede piuttosto nel fatto che si è <<un pur produit postcolonial>>
[7]. E ciò ci rimanda immediatamente al prima del "post", ossia alla colonia.
Quante volte gli scrittori cosiddetti "francofoni", nati e cresciuti in epoca coloniale in Maghreb, in Africa sub-sahariana, nei Caraibi, in Indocina o alle Comore, ci hanno ricordato che quando a scuola cominciavano a studiare storia, i loro libri di testo esordivano con la frase, quanto mai paradossale,"Nos ancêtres, les Gaulois". In quel contesto, lo studio del francese (della sua storia, ma anche della lingua e della letteratura) ha pertanto avuto un enorme potere seduttivo (in senso strettamente etimologico) sui giovani discenti, futuri scrittori. Torna in mente una delle pagine più famose di uno dei romanzi più celebri dell'Africa nera francofona, quello del senegalese Cheikh Hamidou Kane, L'Aventure ambiguë (1961)
[8], dove si dice che se la Francia ha "vinto" in Africa senza avere ragione, non è stato certo per i cannoni, quanto piuttosto per il potere persuasivo, magnetico esercitato dalla scuola. Alain Mabanckou, uno dei narratori della nuova generazione (è nato nel 1966) e fra quelli oggi più in vista, ha ribadito questo concetto pochissimi mesi fa: <<J'écris en français parce que c'est avec cette langue que j'ai découvert les mots. C'est avec elle que je l'ai emporté sur un ami lorsque nous courtisions la même copine au collège, lui le faisait en langue, moi je convoquais Lamartine, m'appuyais sur Verlaine ou interpellais Ronsard. Avec le français, j'ai réalisé que la parole, la pensée, l'imaginaire pouvaient être marqués. Que l'émotion n'habite pas que la voix, mais aussi une page peuplée de signes. J'écris en français parce que c'est en français que j'ai pour la première fois lu et commencé à voyager à travers ces lectures…>>[9].
Mabanckou fa eco a un suo compatriota altrettanto famoso, Henri Lopes, che in un saggio intitolato proprio Ma grand-mère bantoue et mes ancêtres les Gaulois. Simples discours (2003), torna sul tema del potere attrattivo del francese, che è usato non tanto perché è parlato nel mondo (anzi, ricorda Lopes, <il y a plus d'individus qui s'expriment en chinois, en hindi ou en bahasa Indonesia qu'il n'existe de francophones sur toute la planète>>), ma perché <<il existe des nuances de la pensée, d'expression des sentiments et du goût qui ne peuvent bien s'exprimer que dans cette langue>>
[10]. Dunque un matrimonio perfetto quello fra scrittori francografi e lingua dei Galli? Per niente: tanta, tantissima strada è stata percorsa perché si potesse arrivare oggi a dirsi (e forse a sentirsi) totalmente affrancati da quelle "marques", da quelle cicatrici o da quei segni identitari percepiti come stranieri ed estranei, che per lungo tempo hanno costretto gli scrittori a fare i conti non soltanto con il codice linguistico, ma proprio col suo potere seducente.
Pensiamo innanzi tutto ai pionieri. Amadou Hampaté Bâ, il tradizionalista maliano noto per aver sostenuto che <<quando in Africa un vecchio muore è come su bruciasse un'intera biblioteca>>, nel suo unico romanzo L'Etrange destin de Wangrin (1973)
[11], usa una gustosa espressione per indicare chi, in epoca coloniale, sapeva scrivere e parlare in francese corretto: quel francese è per lui <<couleur vin de Bourgogne>>. E il suo romanzo - apparentemente semplice, ma estremamente complicato, come quasi tutti i romanzi africani sanno essere - è in effetti scritto in modo da rispettare in modo assolutamente corretto la lingua standard: se ci sono intrusioni di termini, espressioni, parole prese a prestito dal suo peul natio o da altre lingue africane, Hampaté Bâ si premura immediatamente di mettere una nota a pie' di pagina per spiegarne il senso all'ignaro lettore (che si suppone invariabilmente francese). Premura da filologo o da tradizionalista? Direi che Hampaté Bâ è stato e ha voluto essere innanzitutto un passeur di culture. La sua esigenza di chiarezza è pari al suo desiderio di condivisione e di messa in comune. Aggiungo che il suo romanzo si situa interamente in epoca coloniale e narra l'irresistibile ascesa, seguita da un'altrettanto vertiginosa caduta, di un interprete che approfitta del suo ruolo di mediatore culturale, oltre che linguistico, per trarre vantaggio da quella posizione privilegiata. La riflessione sull'uso e sulla manipolazione della lingua è quindi preminente nella letteratura africana francofona fin dalle origini.
Che menzogna e lingua abbiano molto in comune ce lo ricorda Harald Weinrich in Linguistik der Lüge
[12]: lo studio della letteratura è, come richiama ancora Alain Ricard, innanzitutto lo studio delle convenzioni e delle istituzioni che costituiscono il sottobosco di qualsiasi creazione verbale[13]. Quando le convenzioni saltano, anche la lingua può pertanto ambire alla libertà, magari per denunciare proprio nuove menzogne. E' il caso del celeberrimo uso della lingua francese operato per la prima volta da Ahmadou Kourouma in Les Soleils des Indépendances (1968)[14]. In questo caso calchi e prestiti morfo-fonologici contraddistinguono l'opera fin dal titolo: nessuno in Francia per dire "epoca" avrebbe usato la parola "soli", come invece accade nella lingua malinké (la lingua d'origine dell'autore ivoriano). Spesso si è detto che Kourouma, per stigmatizzare le Afriche delle Indipendenze e delle dittature, ha fatto ricorso alla "malinkisation" del francese o alla ibridazione della struttura romanzesca (come è il caso per il romanzo del 1998 En attendant le vote des bêtes sauvages, in cui Kourouma riversa il respiro dell'epopea nello stampo del romanzo balzachiano, combinando estetiche che hanno visioni opposte e rivolte ad un pubblico, questa volta, eterogeneo). Con lui, e negli anni successivi, il "vin de Bourgogne" diventa decisamente sempre più scuro.
Ancor di più lo sarà negli anni Ottanta. Certo, non sempre e non ovunque. E ipotizzo qui che più la materia di cui uno scrittore intende trattare sarà delicata per tema e per valenza politica, più la lingua si farà complessa e stratificata. Penso, in particolare, a Le pacte de sang
[15], un romanzo uscito nel 1984 nello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo), dove si parla di traffico d'organi, di violenze arbitrarie, di soprusi del potere in una città retta dai "Seigneurs de la forêt", esponenti di una delle dittature più longeve e crudeli del continente, quella di Mobutu: nelle pagine moltissime parole in lingua cilubà non sono affatto tradotte e nemmeno contestualizzate. Chi abbia intenzione di capire in modo univoco di cosa si tratti deve accedere ad alcuni gradi di approfondimento - attingibili grazie alla lettura non solo di questo romanzo, ma di un vero e proprio ciclo/trilogia -, che sono caratteristici non solo della lingua/scrittura africana, ma anche dello stile di molti narratori africani e caraibici: la possibilità di iterare segni ed enunciati, la dialettica fra la libertà creatrice innovativa e uno stile collettivo predeterminato e codificato. Per quanto riguarda i Caraibi, poi, l'uso sempre più invasivo del creolo risponde a una lunga strategia di (ri)appropriazione. Come ha osservato Milan Kundera a proposito del romanzo Texaco (1992)[16], Patrick Chamoiseau <<n'a pas fait un compromis entre le français et le créole en les mélangeant. Sa langue, c'est le français, bien que transformé; non pas créolisé (aucun Martiniquais ne parle comme ça) mais chamoisisé>>[17]. Il "pensiero della traccia", caro a Glissant, ha fatto il suo corso.
Tre vie dunque per gli scrittori nati in epoca coloniale per usare una lingua che ha fatto irruzione in casa loro senza essere stata invitata: il rispetto impacciato (ma spesso anche ironico) degli scrittori pionieri, il compromesso che maschera diffidenza e menzogna tanto verso il passato coloniale quanto verso un futuro frequentemente neo-coloniale, la netta separazione fra ciò che può essere inteso da tutti e l'inaudito (delle dittature e delle violenze), che non trova parole per essere espresso in più di un modo - e anche quello appare inadeguato.
Infine, un fenomeno poco consueto in ambito francofono e che comincia solo ora a farsi strada: quello del rispetto reciproco nelle proprie, rispettive libertà, ovvero lo spazio della traduzione. Ci sono voluti cinquant'anni, ma ora l'opera del ruandese Alexis Kagame che, pur conoscendo perfettamente il francese, preferì scrivere in lingua kinyarwanda, è stata finalmente tradotta e non da lui
[18].
Degli scrittori più giovani, puri prodotti della "post-colonie" che qualcuno ha anche maldestramente chiamato esponenti della "migritude"
[19], si è già detto. Nessuno si preoccupa più del francese come di una "lingua madre" da cui prendere le distanze o a cui rifarsi. Si può dire che ora è proprio il francese ad essere diventato - come afferma con un'espressione molto azzeccata la giovane scrittrice camerunese Léonora Milano[20]- "bottino di guerra". Nimrod, nato in Ciad nel 1959, afferma al proposito che <<écrire, c'est exactement cela: non pas être materné, mais devenir pour soi-même la mère de sa propre langue. Pour s'accaparer le monde, rien ne vaut la puissance de forage des langues. Laissons la Bible à un certain imaginaire occidental le mythe de la dispersion des langues. Pour nous, elles ne furent jamais que des agents fédérateurs. Quoi que fasse un écrivain, son œuvre ressemblera toujours à la maçonnerie superbe et parfaite, qui le défie, lui, ainsi que les êtres de chair et d'os parmi lesquels il continue de vivre>>[21]. Ed ecco allora moltiplicarsi strati e strati di materiali di recupero veramente disparati: spesso ciò accade soprattutto nel romanzo giallo, dove al francese di Parigi (addirittura di quartieri ben definiti), si sovrappone il verlan della malavita, il lingala centrafricano, il wolof senegalese e altre diavolerie che hanno inventato proprio oggi, mentre state leggendo, nelle strade di Kinshasa, di Bruxelles, di Montréal o di Cape Town[22].
Un caso del tutto diverso tocca chi, come gli scrittori risparmiati dal trauma della colonizzazione, hanno scelto di esprimersi in francese.
Penso innanzitutto ai Quebecchesi, per i quali il rapporto con la lingua madre è il più antico (risale al XVI secolo) ed è stato molto complesso, all'insegna del desiderio, da una parte, e del rischio continuo di perdita (tenuto sotto costante minaccia dall'imperativo "Speak White!" che i cugini anglofoni non mancavano di ripetere). Sarebbe impossibile ripercorrere in poche righe la storia del rapporto assai complesso con la lingua francese e che, forse, potrebbe riassumersi in una battuta prendendo a prestito il titolo di una famosa canzone, "Je t'aime, moi non plus". Oggi, che si tratti di poesia (Jacques Brault, A.M. Klein), di romanzi (Nicole Brossard, Jean Forest, Daniel Gagnon, Monique LaRue, Francine Noël, Jacques Poulin, Régine Robin) o di teatro (Marco Micone, Robert Lepage), tutto è fatto all'insegna della molteplicità, dell'intertestualità e dell'incontro di parole dell'altrove e del qui, poiché il Canada francofono - si dovrebbe parlare di eccezione culturale canadese? - è terra di approdo felice della diaspora (haitiana: Emile Ollivier, Dany Laferrière; indiana algonchina: Bernard Assiniwi, e poi africana, maghrebina, italiana…)
[23].
L'altro caso, col quale concluderò questa breve panoramica, è quello di chi ha scelto di esprimersi in francese pur non condividendo con la Francia né un passato coloniale, né un destino storico. Molti di loro hanno appreso il francese in tarda età. Penso al greco Vassili Alexakis (classe 1943), alla cinese trapiantata a Vancouver Ying Chen, all'iraniana Chahdortt Djavann, al russo Andreï Makine (rifugiatosi in Francia nel 1987) e di cui Tatyana Tolstava, in The New York Review of Books, ha scritto: "La letteratura russa può vantare uno strano successo: Andreï Makine, un russo di indeterminate origini francesi, ha ricevuto due dei più prestigiosi premi letterari per un libro scritto in Francia, in francese e riguardante la Francia - un libro che è, nonostante tutto ciò, la quintessenza della Russia".
Penso ancora al libanese Percy Kemp, nato nel 1952 a Beyrouth dove vive tuttora, che ci ricorda - come molti altri degli scrittori appena citati (e ne mancano molti all'appello) - che il francese è stato per lui la lingua della riflessione e della distanziazione. Una lingua che ha consentito a molti di loro di crearsi uno spazio di libertà. In fondo, come ha affermato Roland Barthes, la letteratura è "cette tricherie salutaire, cette esquive, ce leurre magnifique, qui permet d'entendre la langue hors-pouvoir, dans la splendeur d'une révolution permanente du langage"
[24].
Così, giocando un po' con la lingua e chiudendo quasi da dove siamo partiti, lascio di nuovo la parola a Abdourahman A. Waberi che, alla domanda; "Perché ha deciso di scrivere in francese?" risponde: <<J'écris en français parce qu'il faut rendre à Césaire ce qui lui revient>>.
[25]

[1] http://www.tlfq.ulaval.ca/bdpl/default.asp
[2] Edouard Glissant, Poetica del diverso, Roma, Meltemi, "Gli Argonauti", 1998.
[3] Hélène Cixous, The Newly Born Woman, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1986, p. 71.
[4] Osnabrück. Traduzione di Monica Fiorini, Ferrara, Tufani, 2001.
[5] Ritratto di Dora. Traduzione di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano, 1977.
[6] La venuta alla scrittura. Traduzione di Monica Fiorini, "Studi di estetica" (17, 3, 1998), p. 7-53.
[7] Abdouarahman A. Waberi, "Parce que je suis un pur produit postcolonial", in Libération, Supplément au n° 7730, jeudi 16 mars 2006, p. 7. Di A. Waberi sono state tradotte in italiano le seguenti opere: Mietitura di teste. Pagine per il Ruanda (Moisson de crânes, Textes pour le Randa, 2000) a cura di Marie-José Hoyet, Roma, Edizioni Lavoro, "L'altra riva", 2001; Balbala (1998), Roma, Edizioni Lavoro, "L'altra riva", 2003 (a cura di Marie-José Hoyet); Transit (2003), Milano, Morellini, "Griot", 2005 (traduzione di Antonella Belli).
[8] Tradotto in Italiano con il titolo L'ambigua avventura. Prima edizione: Milano, Jaca Book, 1979. Riedizioni: Jaca Book, 1995; Jaca Book, "Mondi letterari", 1996.
[9] Alain Mabanckou, "J'interpellais Ronsard pour faire la cour", in Libération, Supplément au n° 7730, jeudi 16 mars 2006, p. 10. Tra i romanzi di A. Mabanckou, non ancora tradotti in italiano, segnalo Bleu-blanc-rouge (1998); L'Enterrement de ma mère (2000), Et Dieu seul sait comment je dors (2001); Verre cassé (2005).
[10] Henri Lopes, Ma grand-mère bantoue et mes ancêtres les Gaulois. Simples discours, Paris, Gallimard, "Continents noirs", 2003, p. 44. Di Henri Lopes sono stati tradotti in italiano i seguenti romanzi: Cercatore d'Afriche (Le Chercheur d'Afriques, 1990) a cura di Mario Bensi (traduttore: G. Spiga), Milano, Jaca Book; 1994; Sull'altra riva (Sur l'autre rive, 1992), Milano, Jaca book, 1996.
[11] Amadou Hampaté Bâ, L'interprete briccone. Tradotto da Leonella Prato Cruso, Roma, Edizioni Lavoro, "Il lato dell'ombra l'altra riva",1988. Traduz. inglese: The Fortunes of Wangrin, Bloomington, Indiana University Press, 2000.
[12] Harald Weinrich, Conscience linguistique et lectures littéraires, Paris, Maison des Sciences de l'Homme, 1990. In italiano è uscito il saggio a cura di Cesare Segre, Lingua e linguaggio nei testi, Milano, Feltrinelli, "Campi del sapere", 1988.
[13] Alain Ricard, Languages and Literatures of Africa. The Sands of Babel, Oxford, Trenton, Cape Town/James Currey, Africa World Press, Dave Philip, 2004 (adattamento di Littératures d'Afrique noire, des langues aux livres, Paris, Karthala, CNRS, 1995).
[14] I soli delle indipendenze. Tradotto da Monica Amari e Mario Bensi, Milano, Jaca book, "Mondi Letterari, 1996; riedizione a cura di Mario Bensi, Milano, e/o, "I Leoni", 2004.
[15] Pius Ngandu Nkashama, Le Pacte de sang, Paris, L'Harmattan, "Encres noires", 1984.
[16] Texaco. Traduzione Antonella Colletta, Torino, Einaudi, 1994; riedizione a cura di Sergio Atzeni, Nuoro, Il Maestrale, 2004.
[17] Milan Kundera, "Beau comme une rencontre multiple", L'Infini n° 34 (été 1991), p. 50-62.
[18] Alexis Kagame, Indyohesha-birayi, Éditions Royales, Kabgayi, 1949. Tradotto da Anthère Nzabatinda, col titolo Le Relève-goût des pommes de terre, Paris, Les Classiques africains, 2004.
[19] Jacques Chevrier, "Afrique(s)-sur-Seine: autour de la notion de "migritude"", in Notre Librairie, n. 155-156, p. 13-18.
[20] Nata nel 1975 a Douala, Léonora Milano ha pubblicato nel 2005, per i tipi di Plon (Parigi), il romanzo L'Intérieur de la nuit.
[21] Nimrod, "Un idiome de plus dans notre Babel", in Libération, Supplément au n° 7730, jeudi 16 mars 2006, p. 17. Poeta, romanziere e saggista, di Nimrod, non ancora tradotto in Italia, ricordiamo i romanzi Les jambes d'Alice (2001), Le Départ (2005), la raccolta poetica En saison, suivi de Pierre, poussière (2004) e il saggio Tombeau de Léopold Sédar Senghor (2003).
[22] Achille F. Ngoye, Agence Black Bafoussa, Paris, Gallimard ("Série Noire" 2413), 1996; Sorcellerie à bout portant, Paris, Gallimard ("Série Noire" 2486), 1998; Ballet noir à Château-Rouge, Paris, Gallimard, 2001 ("Série noire" 2617) (tradotto in tedesco col titolo Schwarzes Ballett in Château-Rouge, Frankfurt am Main, Zebu Verlag, 2004).
[23] Cf. Sherry Simon, Le trafic des langues: traduction et culture dans la littérature québécoise, Montréal, Boréal, 1994.
[24] Roland Barthes, Lezione inaugurale della cattedra di Semiologia letteraria del Collège de France, pronunciata il 7 gennaio 1977.
[25] Abdouarahman A. Waberi, "Parce que je suis un pur produit postcolonial", in Libération, Supplément au n° 7730, jeudi 16 mars 2006, p. 7. Il gioco di parole è ovviamente su César/Césaire. Aimé Césaire, nato a Basse Pointe (Martinica) nel 1913, è una delle figure più importanti della letteratura francofona, nonché colui che ha inventato la parola "Négritude" nel suo lungo poema in prosa Cahier d'un retour au pays natal (1939) (traduzione italiana di Graziano Benelli: Diario del ritorno al paese natale. Testo francese a fronte, Milano, Jaca Book, 2004).