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da Critica
Marxista
n.6 Novembre/Dicembre 2006
Donne:
Lavoro e Cittadinanza
Marisa Forcina
Nella società
contemporanea, la sostanziale indifferenza nei confronti del lavoro come
fonte di riconoscimento e di trasformazione sociale e politica di un contesto
- lavoro che, però, nella sua frammentazione e flessibilità
diventa sempre più pervasivo - non consente il radicamento di alcun
senso di appartenenza a strutture collettive (professioni, classi sociali,
sindacati, Stato e, persino, identità di genere). Tradizionalmente
sono state queste configurazioni sociali a introdurre o rendere stabili
dei cambiamenti politici. La disgregazione contemporanea di questi raggruppamenti
e una politica che si appella al lavoro flessibile (o precario) sembra
comportare anche una sempre più difficile possibilità di
cambiamento o anche di partecipazione, attraverso la mediazione del lavoro,
al governo del proprio contesto di riferimento. Gli orientamenti legislativi
e politici istituzionali sembrano andare in questa direzione, ma intanto
le donne sono oggi così presenti nel mondo del lavoro, con così
alte percentuali in alcuni settori (scuola, sanità, giustizia,
e vedremo in seguito ciò che questo significa) e questo è
già un modo per essere presenti nello "spazio pubblico"
(come Arendt definiva l'ambito politico) e costituisce già una
forma di cittadinanza femminile che ha delle grandi potenzialità
ancora non sufficientemente interrogate, che hanno già orientato
e possono continuare a orientare in maniera più radicale verso
un cambiamento sociale e politico fruibile da tutti, uomini e donne.
Va ancora esplicitato e raccontato il modo in cui le donne che lavorano
oggi nelle istituzioni hanno assunto consapevolmente su di sé il
peso e il valore del proprio rapporto col mondo. Non si tratta di opporre
il valore o i valori della femminilità o dell'essere donna ai valori
maschili o dell'essere uomo. La differenza sessuale non è in questa
contrapposizione schematica e oppositiva di valori, ma è segno
di un limite e di una parzialità, e assume valore quando il limite
è riconosciuto, accettato e, in un qualsiasi percorso, da situazione
ed elemento paralizzanti, viene cambiato di segno e fatto diventare, in
qualunque fase di stallo, via d'uscita positiva.
Dunque non c'è da opporre un valore maschile a un valore femminile,
un governo maschile a un governo buono femminile; c'è, semmai,
da opporre a visioni universalistiche di governi e di democrazie, dei
modi parziali, contingenti e però efficaci che, significando la
differenza sessuale, consentono un cambiamento di strada, che può
essere anche improvvisato e inaspettato, ma che sa stare nel tempo e nel
mondo, reggendo e governando un determinato problema.
Sappiamo che la differenza sessuale si manifesta, ad esempio, in una donna,
quando lei rende possibile qualcosa che nella indifferenza degli schemi,
delle norme e delle convenzioni sociali, non era previsto, e non quando
quella si appella a identità predefinite che la vogliono salvifica
o salvata. Nell'università abbiamo visto al lavoro questa differenza
che ha portato a luce contenuti nuovi nel sapere, che li ha trasmessi,
che ha reso possibili scuole estive, master e corsi e convegni e riconoscimenti
altrimenti impensabili. Abbiamo ravvisato anche la povertà di isteriche
rivendicazioni di diritti che si appoggiavano al ruolo svolto per avere
riconoscimento.
Sappiamo che non è, pertanto, solo la quantità di presenza
femminile che può, di per sé, modificare lo spazio pubblico,
così come tutti sappiamo bene che la democrazia non è solo
questione quantitativa, e che non è solo l'espressione della volontà
della maggioranza. Ma la quantità è già un dato non
indifferente.
Il rapporto donna-governo non può funzionare come strumento di
cambiamento sociale nella cruda immediatezza dei numeri che si appoggiano
al binomio, ma ha bisogno di mediazione per diventare efficace e trasformativo
del mondo dato; ha bisogno di attraversare e di attivare dei percorsi
femminili di riconoscimento e di valorizzazione e di stima (si tratta
di una pratica più sfumata rispetto all'affidamento teorizzato
sul finire degli anni '70 in Italia). Questo non per un rispecchiamento
nell'altra e per un trovarvi l'appoggio e la conferma della propria esistenza
o della propria identità, ma per dare parola e rendere dicibile
l'esperienza e il desiderio femminile del mondo.
Il lavoro è stato ciò che storicamente ha consentito di
avviare processi di identità e di riconoscimento, che permettevano,
specularmente, l'accesso e la modificazione dello spazio pubblico, e proprio
il lavoro, ancor prima del riconoscimento formale dei diritti, ha consentito
e messo in scena modelli di identità sociale, di consenso e dissenso
politico e progetti di cambiamento sociale.
Nella società borghese la pratica e la teorizzazione della cittadinanza,
come insieme di diritti che sono riconosciuti ai singoli entro un contesto
sociale, è stata parallela al riconoscimento che ai singoli derivava
dal lavoro. Oggi, l'erosione delle appartenenze che derivano dal lavoro
è equivalente all'erosione della pratica della cittadinanza, intesa
anch'essa come status che deriva da un'appartenenza. E tuttavia, il bisogno
del riconoscimento che avviene sia attraverso il lavoro che attraverso
la modalità giuridico-politica della cittadinanza, che definisce
le condizioni formali dell'appartenenza politica alla comunità
di riferimento, è ancora molto forte.
Vorrei analizzare brevemente come e perché lavoro e cittadinanza
siano strettamente connessi, e in quali forme la questione della difficile
cittadinanza femminile, se è capace di assumere su di sé
ed esprimere coerentemente la differenza sessuale, possa portare suggerimenti
e cambiamenti innovativi in una politica del lavoro attenta ai soggetti
che partecipano realmente ai modi e ai fini della produzione e soprattutto
al governo di sé e quindi della democrazia.
Il lavoro come operazione di costruzione e di trasformazione del mondo
è stato, tradizionalmente, strettamente connesso all'attività
del soggetto e alla configurazione di una società dispensatrice
di benessere per tutti coloro che avessero avuto, appunto, l'accesso al
lavoro. Soggetti e società trovavano la loro piena integrazione
politica nella rivendicazione del lavoro come diritto per ogni membro
di quella relazione (e già questo altro non è se non una
relazione di cittadinanza). La cittadinanza non è, quindi, solo
legata per la sua nascita e costituzione, come pure tante volte si è
ripetuto, agli imperativi universalistici di uguaglianza proclamati della
Rivoluzione francese, e ai suoi ideali che, giustamente, Maria Luisa Boccia
definisce "impermeabili" a ogni differenza (1), ma anche alle
possibilità e alle varie modalità del lavoro.
L'essere cittadini implica la possibilità di partecipazione a processi
di trasformazione del proprio contesto, così come storicamente
è avvenuto per l'essere lavoratori. In un caso e nell'altro è
ed è stato in gioco il riconoscimento di sé e dei propri
desideri, la fruizione di un certo benessere, l'esercizio di libertà,
il godimento di possibilità, la possibilità di una propria
realizzazione integrale, fino all'esaltazione della creatività.
La mancanza, invece, di riconoscimento di cittadinanza, equivale alla
mancanza di esercizio di attività pratiche, libere e gratuite,
e ciò comporta una mancanza di pratiche aperture di senso, di conoscenza,
di critica, una rinuncia persino alla possibilità di ogni forma
di governo, ossia della distribuzione del potere.
Sino all'inizio del '900 il lavoro è stato ciò che ha consentito
l'accesso allo spazio pubblico. L'analisi di Max Weber ne è testimonianza
con la lettura dell'etica protestante che, attribuendo al lavoro un'importanza
decisiva anche sul piano della salvezza, ne aveva fatto una pratica di
vita non inferiore alle altre per rispondere alla chiamata. È superfluo
ricordare l'analisi weberiana di Beruf che associa il significato il significato
politico e religioso a quello di professione, vocazione, mestiere. Negli
stessi anni in Francia, anche Charles Péguy aveva richiamato una
valenza rivoluzionaria connessa al lavoro-ben-fatto, in grado di essere
l'equivalente di una preghiera, e, come quella, in grado di essere anche
l'equivalente di uno statuto di identità trasformativa del mondo.
Inoltre, anche il marxismo e il neomarxismo ne avevano fatto (ad es. Lukács)
ciò che costituiva l'integralità dell'uomo, che però
nel modello di produzione capitalistico era scaduto a mezzo e a merce.
In definitiva, l'uomo del marxismo era ciò che il lavoro gli permetteva
di essere. Il riscatto dall'alienazione sarebbe avvenuto attraverso l'emancipazione
non del cittadino, ma attraverso l'emancipazione da alcune determinate
forme di lavoro: quelle della proprietà privata e dall'assetto
capitalistico borghese della società (vedi di Marx La questione
ebraica). In tutta la tradizione rivoluzionaria, fino alla istanze dell'"autonomia
operaia" degli anni 70 in Italia, ogni nuovo progetto di cambiamento
politico è passato attraverso il progetto di una trasformazione
degli assetti lavorativi. Ma già alla fine degli anni '50 il lavoro
rivelava una serie di contraddizioni e una società di consumatori,
descritta magistralmente da Hannah Arendt, si sostituiva alla società
dove il lavoro aveva costruito identità.
Il nostro clima di sostanziale indifferenza verso l'identità che
deriva dal lavoro, ha identificato la libertà come "libertà
di consumare il mondo intero" (2) e questo ha avuto una ripercussione
anche sulla politica, dove si consuma il potere e si aprono sempre di
più dei vuoti di legittimazione e di consenso sociale. Proprio
il bisogno di legittimazione politica e di consenso fa sì che oggi
si cerchino le condizioni per nuove conferme sociali e si cerchino i contesti
in grado di esprimere delle progettualità orientate con consapevolezza
politica verso il cambiamento.
La questione della cittadinanza (vedi anche nel lessico dell'associazionismo
contemporaneo i richiami continui "cittadinanza attiva", "democrazia
partecipata", il riconoscimento di quote del 50% per la rappresentanza
politica femminile) sembra aprire le porte a queste aspettative; tanto
più che, richiamandosi esplicitamente alla sua matrice che è
la democrazia della quale essa costituisce il banco di prova, la cittadinanza
sembra recare con sé promesse di libertà, di uguaglianza
e persino di felicità (v. E. Balibar).
In particolare, molto ampie sono le attese politiche rispetto alla cittadinanza
femminile: dalle donne ci si aspetta anche la realizzazione e la rappresentazione
politica della uguaglianza realizzata. Le politiche di pari opportunità
sono state pensate, infatti, con questo fine, salvo a nascondere un meccanismo
perverso che, includendo, assimila e cancella ogni differenza e quindi
ogni possibilità di riconoscimento e di costruzione di una soggettività
capace di orientare verso un cambiamento in direzione della realizzazione
dell'uguaglianza. Non solo, ma il meccanismo meramente distributivo che
sostiene le politiche di pari opportunità, paradossalmente, implica
una mancanza di democratica e paritaria partecipazione al governo, perché
la possibilità stessa di distribuzione di poteri è impossibile
tra soggetti assimilati e cancellati nella loro differenza. La distribuzione
è possibile tra soggetti presenti e individuabili, capaci di conservare
la propria soggettività.
Scissa rispetto alla questione del lavoro, la questione della cittadinanza
femminile è ancora quasi un ossimoro, perché le donne non
sembrano ancora essere soggetti politici a pieno titolo, nemmeno nei tempi
più recenti che hanno visto formalmente riconosciuta la loro cittadinanza,
ma non pienamente espressa. Anzi, la cittadinanza femminile appare sempre
di più come una contraddizione in termini, e non come una istanza
che col tempo troverà il suo compimento. Essa è soprattutto
una problematica questione politica e di governo in senso tecnico: la
bassissima percentuale di rappresentanza femminile persino nei paesi considerati
tra i più democratici dell'occidente ne è testimonianza.
Inoltre, ancora integralismi religiosi condannano le donne a una vita
politica e civile subalterna e tradizioni arcaiche infieriscono sui loro
corpi. Tuttavia le donne, attraverso le loro storie e il loro lavoro,
testimoniano una consapevolezza politica partecipe e cosciente anche in
contesti in cui sono state maggiormente asservite. È avvenuto in
ogni tempo quando la differenza sessuale si è manifestata. È
avvenuto con le varie "Madonna Oriente" e con Guglielma e Maifreda,
è avvenuto con "le amiche di Dio"(3), è avvenuto
con alcune significative filosofe e scrittrici del Novecento, è
avvenuto in Italia con le donne che hanno fatto la Costituzione, è
avvenuto tante volte, persino con ciascuna di noi.
Questa consapevolezza politica, passa anche attraverso il lavoro delle
singole e diventa consapevolezza della differenza sessuale ogni volta
che tra sé e il mondo qualcuna pone la mediazione dell'esperienza
femminile riconosciuta. Si tratta di una modalità che può
essere assunta come paradigma per una concezione nuova della cittadinanza,
a patto che, appunto, la differenza sessuale riesca ad assumersi come
significante. Quando, ad esempio, tante donne tra Sette e Ottocento si
dedicarono ad attività filantropiche e aprirono ospedali, ambulatori,
ospizi, case per bambini e per altre donne "svantaggiate", agirono
la loro esperienza della differenza e, insieme, governarono un passaggio
epocale attraverso una pratica filantropica che aveva cambiato di segno
e che risultò essere innovativa politicamente tanto da essere molto
più simile alle moderne forme di Welfare che alle vecchie pratiche
di filantropia.
Fu quello un esercizio e una pratica di cittadinanza che, certamente,
non avrebbe potuto essere così denominata, e non lo fu, se dal
punto di vista giuridico la cittadinanza si riferisce alle condizioni
formali che definiscono l'appartenenza degli individui ad uno Stato, e
implicano un bagaglio di diritti. Ma se il contenuto della cittadinanza
si esprime anche nella scelta tra possibili cose da fare, tra politiche
possibili, se esprime responsabilità riguardo alle scelte, se esprime
la qualità della partecipazione dei soggetti, allora certamente
la piena cittadinanza femminile ha origini lontane nel tempo e può
persino mostrare un modo di governare.
L'in-differenza della politica, incapace di riconoscere altre modalità,
al di là dell'inclusione politica delle donne nei suoi meccanismi
e nella moderna rappresentanza politica, non è senza colpe. Il
mancato riconoscimento della differenza sessuale in politica serve a evitare
accuratamente possibili cambiamenti nelle modalità di erogazione
e gestione del potere in tutte le sue varie forme, quindi nessun cambiamento
effettivo di governo. Al contrario, se la nozione e la pratica della cittadinanza
sono in grado non di richiamarsi alla loro origine razionalistica e universalistica,
che definì l'ideologia borghese, ma a un pensiero critico, come
quello della differenza, anche la democrazia potrà assumere connotati
concreti e non formali.
Questo pensiero critico ha posto come prima basilare questione il fatto
che un effettivo esercizio di cittadinanza dipende non tanto dalla effettiva
rappresentanza, ma dalla rappresentazione che si dà di qualcuno.
Delle donne la rappresentazione che si dà è contraddittoria
e inquietante o è ancora quella legata comunque a un'appartenenza
al nucleo familiare. Se quest'appartenenza produsse esplicitamente nell'Ottocento
la contraddizione di un'assenza dell'esercizio dei diritti civili per
le coniugate e il riconoscimento per le nubili, oggi produce confusione
tra single e madri e non madri; qui nuove retoriche provocano desideri
indotti e costruiscono inquietanti identità in conflitto.
Per quanto il pensiero della differenza si sia sforzato di decostruire
i percorsi identitari, nella gente e soprattutto in ognuna di noi, permane
il desiderio legittimo di un riconoscimento di identità, che, pur
non essendo statica e definitiva, permette a chiunque di riconoscersi
nei vari cambiamenti e nelle diverse fasi della vita. La rappresentazione,
veicolata dai media, della donna di oggi, come single forte e rampante
e dunque non bisognosa di nulla, o come immagine legata alla casa e a
possibili figli, produce confusione anche nelle politiche sociali e in
quelle per l'immigrazione, dove gli aiuti non sono finalizzati ai singoli
soggetti, ma alle famiglie, il cui peso sociale e personale ricade però
ancora, nonostante molti provvedimenti, e come attestano molti dati, ancora
sulle donne.
Con l'accesso delle donne a tutte le professioni la piena cittadinanza
si direbbe realizzata. E sembrerebbe che solo la politica istituzionale
che, in tutto e per tutto, è da considerarsi un lavoro, rappresenti,
stranamente, oggi un settore particolare del mondo del lavoro, il settore
dove si trova la percentuale più bassa di presenza femminile. Ma
questi dati bassi non possono essere considerati in maniera totalmente
separata rispetto alle percentuali di presenza delle donne nel mondo del
lavoro.
Analizzando le percentuali di personale femminile in servizio nei vari
settori, troveremo dati interessanti:
nei Ministeri le donne sono 47,3%
Scuola 74,3%
Magistratura 33%
Carriera prefettizia 44,4 %
Enti pubblici non economici 51, 3 %
Università 40,8 %
Segretari comunali e prov. 35,4%
Servizio sanitario naz. 58, 6%
Enti di ricerca 37,5%
Regioni e autonomie locali 45,4%
Questi dati
ci dicono non solo che dove si accede per concorso, ossia dove la preparazione
dei soggetti viene sottoposta a valutazione quantificabile e comparativa,
le donne accedono in percentuale alta: vedi scuola, sanità, magistratura,
università e ricerca. Ma ci dicono anche che la presenza femminile
è maggiore nei segmenti più importanti per una società,
che sono, appunto, la scuola, la magistratura, la sanità. Il dato
della magistratura, con la presenza femminile del 33% ci rivela ulteriormente
che le donne sono fortemente presenti anche nei luoghi dove solo da poco
tempo, relativamente, hanno avuto accesso (com'è noto la carriera
di magistrato fu aperta alle donne solo con la legge 66/63). Questo ci
permette un confronto con il dato della rappresentanza politica e dice
che, quindi, non è questione di tempi.
In quarant'anni la presenza femminile nel mondo del lavoro, e più
in generale nella società, ha avuto un'ascesa esponenziale. Segno
questo che la bassa percentuale di presenza femminile nella politica istituzionale
non è solo questione di professionalità che tradizionalmente
si sono strutturate sull'esclusione delle donne e che ora stentano a decollare.
Se consideriamo poi che nella scuola, nella sanità, nella magistratura,
nell'università e nella ricerca, che, ripeto, sono i settori trainanti
di ogni società, la percentuale di presenza femminile è
notevole, dobbiamo dedurre che non solo le donne esprimono costanza e
professionalità nel lavoro, ma che i settori trainanti della società
sono in mano femminile.
Questo è la cosa più importante e significativa oggi. E
da qui dobbiamo, credo, ripartire per ogni ulteriore riconsiderazione
sulla nostra posizione di donne, cittadine, dopo la svolta che l'autocoscienza
ci ha permesso di imboccare al passaggio degli anni Settanta. La parola
responsabilità, anche quella di cittadine, dopo la stagione del
separatismo, non ha più significato solo fatica e cura quotidiana
volta agli altri, ma cura di sé, responsabilità di sé,
per essere testimoni e garanti di un processo che aveva bisogno innanzitutto
della nostra soggettiva capacità di ognuna di partire da sé,
per sbloccare non solo la rigidità rassicurante ed escludente delle
parole oggettive, ma per cominciare a governare davvero anzitutto i nostri
bisogni.
Insegnare, curare, dire ciò che è giusto, ricercare non
solo in maniera soggettiva, ma con la mediazione del nostro lavoro nelle
istituzioni deputate, non è stato l'imprevisto bisogno teorico
di una cittadinanza femminile, definita asimmetrica e incompiuta, perché
nel governo istituzionale la percentuale di presenza femminile rimaneva
sempre troppo bassa; è stato il modo concreto per prendere in mano
la possibilità di governare un destino che ci avevano convinte
fosse "naturale" e invece era storico anch'esso e legato a ruoli
sessuali e a un corpo femminile descritto da altri in mille modi, e ancora
non detto da noi stesse.
Certamente la scuola, la magistratura e la sanità non sono istituzioni
senza difetti, tutt'altro; si dice che vi sia un indebolimento del livello
generale, e ciò sembra essere il loro comune denominatore soprattutto
negli ultimi anni che hanno registrato una forte presenza femminile. Possiamo
rispondere che in quelle istituzioni, nonostante tutto, viviamo con grande
agio e grande libertà, perché abbiamo imparato ancora da
quella pratica che fu l'autocoscienza (definirei anche quella come forma
di cittadinanza), che autonomia e autodeterminazione non sono pratiche
che coincidono e che la libertà di scelta è una forma della
soggettività, che esiste anche in presenza di eteronomia, cioè
di leggi pensate da altri.
Pertanto, non abbiamo mai voluto a una scuola autonoma femminile o sessuata
o una scienza sessuata o una sanità o una magistratura col fiocco
rosa. Piuttosto, dopo Simone Weil e dopo Non credere di avere dei diritti,
abbiamo capito che il diritto e diritti non valgono niente se non c'è
qualcun altro che autorizzi quei diritti, una comunità di riferimento,
una comunità femminile che li renda possibili ed efficaci.
La storia, e non solo Hobbes, ci insegna che il rapporto immediato tra
sé e il mondo è un rapporto estremamente difficile e violento
che espone ciascuno al dolore e alla morte. Per questo gli uomini hanno
inventato le istituzioni che consentono un governo del mondo attraverso
la mediazione di quelle.
Sino a qualche decennio fa, salvo delle eccezioni, la mediazione, anche
per le donne, nelle istituzioni e nelle questioni di governo, è
stata maschile; maschile la misura, e di segno maschile sono state le
istituzioni e, con queste premesse, il cambiamento era proprio impossibile.
Sino a quando è presente l'incapacità di riconoscere autorità
ad un'altra, ad altre donne, la società rimanda specularmente un'immagine
femminile svalorizzata, perché "la realtà esterna non
manca mai di rimandarle indietro il giudizio che lei ha già pronunciato
dentro di sé e cioè che quello che una donna pensa e vuole
non ha valore"(4).
Invece, ritornando alla questione del lavoro e alla presenza delle donne
nella scuola, nella sanità e nella giustizia, osserviamo quanto
la loro presenza abbia già modificato quelle istituzioni. Più
che le dichiarazioni d'impotenza ascoltiamo il nuovo che circola, ciò
che le donne pensano, scrivono e insegnano e vedremo che già la
differenza sessuale ha già iniziato un'operazione di governo.
C'è una coincidenza tra ordine sociale e ordine simbolico: da quando
le donne hanno imparato a valorizzare il più elementare rapporto
che le definisce socialmente, quello con la propria simile, anche la società
non solo non mostra più scarsa considerazione, né usa le
donne per la riproduzione dei suoi stessi modelli, ma è già
stata modificata da esse.
La presenza così numerosa e a vari livelli, anche se mai ai vertici
del potere, delle donne in istituzioni tanto importanti per una società,
quali scuola, giustizia e sanità, ha già modificato una
configurazione sociale e ha governato, attraverso il riconoscimento tra
donne nelle istituzioni, un cambiamento che è ciò che ha
consentito alla giovani ventenni-trentenni di oggi di essere e di sentirsi
molto più libere nel progettare il proprio futuro, rispetto a quanto
le erano le loro nonne.
È la stessa cosa che è già avvenuta in filosofia.
Cito solo il titolo di un convegno internazionale indimenticato del 1992:
Filosofia, Donne, Filosofie. Il termine donne, che posto in mezzo, fungeva
da mediazione, richiamando e mostrando esplicitamente anche una differenza
sessuale, governò allora un passaggio: la filosofia non fu più
condannata a riprodurre la sua specificità ed essenza e quella
di un unico logos, ma diventò plurale, nella libertà delle
letture e dei racconti plurali. Aveva cambiato, ufficialmente, di segno.
Così il lavoro delle donne nelle istituzioni ha già cambiato
di segno quelle istituzioni. In meglio? In peggio? Non è questo
che ci interessa, perché dovremmo sempre chiederci rispetto a che
cosa e a quali paradigmi di riferimento. Quello che è importante
è che la mediazione sia stata femminile, e che, partendo da sé,
abbia modificato il contesto, che in tal modo ha assunto una valenza di
pluralità e nella pluralità c'è posto anche per l'espressione
di un desiderio femminile(5); quindi in qualche modo quelle istituzioni
oggi rispondono anche a ciò che noi desideravamo. E anche questo
è un cambiamento in direzione di una esperienza di democrazia.
Noi che siamo qui dobbiamo però ancora capitalizzare e significare
i vantaggi della stagione della nostra storia, perché già
un'altra mediazione, quella più neutra di tutte, quella del denaro,
ci sta mettendo di fronte a un altro cambiamento e ci sta sfuggendo di
mano il segno e il senso di ciò che abbiamo fatto e di ciò
che sopraggiunge.
L'indifferenza della politica istituzionale nei confronti del valore identitario
del lavoro, cerca di mettere tra parentesi, presentandolo come insignificante,
il fatto che nelle istituzioni e in quelle più importanti e prestigiose,
una sempre maggiore presenza femminile, con il proprio lavoro, abbia già
governato e espresso un cambiamento, consentendo una pluralità
di inserimenti femminili nello spazio pubblico e, di fatto, abbia già
realizzato una maggiore governo democratico di quello spazio. Di fronte
a questa vera e propria rivoluzione che è sotto gli occhi di tutti,
una sorta di paura del cambiamento àncora il potere alla sua gestione
tradizionale e il potere cerca tutti i modi per riprodurre se stesso,
cooptando solo chi è omologo a sé: uomini e donne.
Ma noi sappiamo che la politica della differenza sessuale non può
essere arrestata o promossa con meccanismi o giochi di provvedimenti presi
dal potere, semplicemente perché essa è un dato della realtà
e dipende solo da sé e non dagli altri, nemmeno dai poteri più
forti.
Per questo è libera. E la sua libertà, praticata - anche
attraverso il lavoro - come forma di cittadinanza e come funzione critica,
è garanzia per la democrazia.
(1) Cfr.
Maria Luisa Boccia, La differenza politica. Donne e cittadinanza,
Il Saggiatore, Milano 2002.
(2) Hannah Arendt, Vita activa, trad. it., Bompiani, Milano 1989,
p. 93.
(3) I riferimenti sono ad altrettante ricerche di Luisa Muraro, facilmente
rintracciabili nella sua bibliografia.
(4) Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti,
Rosenberg & Sellier, Milano 1987, p. 194.
(5) Lia Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche Ed., Milano
1995.
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