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il Manifesto
- 17 giugno 2004
«Resistere è creare»
era Il Palazzo senza presa
un libro di Miguel Benasayag e Florence Aubenas
La
rinuncia alla conquista dello stato per dare forma a un altro mondo possibile
senza nessuna attesa messianica del futuro. Per i due autori, è
questa la caratteristica che alimenta la radicalità del «movimento
dei movimenti». Con un grande rimosso, la questione di come interdire
l'esercizio del potere da parte delle istituzioni economiche e politiche.
di BENEDETTO VECCHI
«Le posizioni si moltiplicano, oscillano, si scontrano. Ci troviamo
nel momento tormentoso in cui le cose si svolgono e non si decidono».
Con queste parole Miguel Benasayag e Florence Aubenas descrivono lo stato
dell'arte del «movimento dei movimenti», quasi a ratificare
il fatto che sia irrappresentabile, data la sua magmaticità e la
sua irresistibile tendenza a mutare nel tempo e nello spazio. Un'irrappresentabilità
che non dispiace ai due autori, che la considerano anzi una delle caratteristiche
migliori dei gruppi e delle reti sociali che contestano la globalizzazione
neoliberista, e che tuttavia non è elemento sconosciuto al pensiero
critico. Ciò che invece costituisce una novità è
la diffusa convinzione che l'altro mondo possibile nasce «nel qui
e nell'ora della situazione» e il rifiuto programmatico di qualsiasi
attesa messianica o teleologica di un avvenire radioso. La rivolta contro
il neoliberismo non punta a costituire dettagliati programmi del «nuovo
mondo» che verrà. Semmai manifesta una caparbia determinazione
a costruire da subito relazioni e rapporti sociali altri rispetto a quelli
dominanti. Il movimento dei movimenti ha semplicemente rinunciato a prendere
il potere statale per trasformare la società, preferendogli la
costituzione di relazioni sociali che diano il segno di un cambiamento
irreversibile della vita quotidiana. Miguel Benasayag non è nuovo
a queste provocazioni. Lo ha scritto e detto in tutti i suoi libri. Dell'altra
autrice sappiamo che è una giornalista del quotidiano francese
Libération, mentre filosofi o psicoanalisti erano i coautori di
tutti i libri che il filosofo e psicoanalista ha firmato da quando, uscito
profondamente segnato dalle torture subite nelle carceri argentine dei
golpisti di Videla, si è trasferito in Francia. Da Il mito dell'individuo
(Mc editrice) a Contropotere (Eleuthera), da Per una nuova radicalità
(Il Saggiatore) a questo Resistere è creare (Mc editrice, pp. 116,
€ 14), lo studioso argentino ha sempre scelto la strada del sodalizio
intellettuale con un compagno o una compagna di strada per dare forma
e spessore al suo percorso teorico, che ha come leit motiv la sconfitta
dei movimenti radicali degli anni Settanta e la loro attraversata del
deserto della «rivoluzione neoliberista». E così per
tutti gli anni Ottanta e i primi anni Novanta l'attenzione era fissata
sull'individualismo e sull'egemonia culturale del postmoderno, fino a
quando in una regione sperduta del Messico un esercito di indigeni ha
dato vita alla più stravagante insurrezione popolare armata del
Novecento.
In Resistere
e creare, l'esperienza degli indigeni chiapaneci è infatti considerata
la esemplificazione dei nuovi movimenti sociali e della loro «politica
della situazione», cioè quel dare forma e senso a «un
altro mondo possibile». E politica della situazione sono le occupazioni
delle terre da parte dei sem terra brasiliani, le occupazioni delle case
a Buenos Aires o a Parigi, una mobilitazione per ottenere il permesso
di soggiorno in Spagna, un centro sociale occupato, una battaglia contro
la costruzione di una diga in India, un esperimento di «guerriglia
comunicativa» a San Francisco. Momenti di conflitto sociale e culturale
inseriti, però, nella dimensione molteplice della realtà
sociale. La «politica della situazione» non ha però
nulla a che fare con il localismo o la politica delle identità
costantemente evocati dalla pubblicistica. In questi movimenti sociali,
ogni uomo o donna è inserito in contesti variamente interconnessi.
Da qui all'invito a pensare localmente e agire localmente, perché
è nella situazione che si cerca di dare risposta al lungo elenco
di ingiustizie che si vuole combattere; ed è nella situazione che
si costruiscono le sue connessioni con il livello globale.
In Resistere
è creare le mobilitazioni contro il G8 o il Fmi o la Banca mondiale
sono quindi considerate come un «obiettivo situazionale» tra
i tanti, ma spogliate della valenza simbolica che hanno assunto nelle
discussioni del «movimento dei movimenti», quasi che abbiano
sostituito la simulazione giocosa di un assalto al palazzo d'inverno che
non ci sarà mai. Il movimento dei movimenti deve dunque pensare
localmente e agire localmente, perché la situazione è l'espressione
più pregnante della molteplicità assunta dall'attuale modo
di produzione. In altri termini, è la globalizzazione stessa che
plasma il locale in funzione del globale, visto che «la totalità
può esistere solo nella singola parte e non come somma di tutte
le parti». Nel volume c'è un forte accento sul fatto che
se una politica della trasformazione si gioca «qui ed ora»,
la dimensione locale assume una centralità strategica, una centralità
che non ritroviamo negli interventi di altri intellettuali critici della
globalizzazione capitalista.
Resistere
è creare può essere collocato negli oramai voluminosi ripiani
dei testi dedicati ai nuovi movimenti sociali. In particolare nella sezione
che sottolinea gli aspetti di discontinuità con la cultura politica
del movimento operaio in tutte le sue varianti. Certo, Miguel Benasayag
rivendica la sua passata militanza nel partito argentino dei lavoratori,
ma lo fa quasi sempre per quel vezzo tutto latinoamericano di chi vuol
indicare che viene da lontano e che vuol andare lontano. La sua decennale
riflessione ha però ben pochi punti di contatto con quell'esperienza.
Parole d'ordine come «politica della situazione», «contropotere»
sono infatti usate per indicare semmai il fallimento della politica radicale
novecentesca e, al tempo stesso, per significare il campo d'azione degli
attuali movimenti sociali. Pensare la molteplicità del movimento
come a un insieme di reti politiche sociali che si compongono e scompongono
per affinità elettive, rifiutando al tempo stesso ogni volontà
politica di coordinarle e unificarle dall'esterno, è cosa ben diversa
dal pensare a una scansione dell'agire politico come politica dell'organizzazione
con tutte le virtù, e i difetti, che questa ha avuto nella storia
del movimento operaio. C'è una profonda e condivisibile insofferenza
verso il rapporto strumentale che i partiti politici hanno da sempre intrattenuto
con i movimenti, raccolta nella dissacrante frase che i due autori dedicano
ai politici di professione: «Non perdere tempo a farti gocciolina,
cavalca l'onda, non farne parte». E' quindi preferibile «occuparsi
del mondo» perché questo significa «vivere in un mondo
diverso» da subito, senza nessuna attesa salvifica del sole dell'avvenire.
Vivere, amare, lavorare, fare figli, coltivare rapporti di amicizia: aspetti
che sono da sempre considerati fattori inessenziali della vita da parte
del rivoluzionario di professione. Per Benasayag e Aubens, va invece ribaltata
la prospettiva: è da questa bistrattata quotidianità che
inizia il nuovo mondo.
Temi, argomenti
che sono presenti nell'agire politico da circa trent'anni, grazie sicuramente
alla riflessione e alla pratica femminista sintetizzata nello slogan «il
personale è politico», come riconoscono i due autori[…]
Quello del
potere è dunque il nodo irrisolto non solo del «movimento
dei movimenti», ma anche del volume Resistere è creare. Trovarne
il bandolo significa fare i conti con quella politica dell'organizzazione
che sembrava ormai dissolta nella crescita della contestazione al neoliberismo.
Non è così, ovviamente, e il continuo alternarsi di grandi
manifestazioni e la dispersione molecolare del movimento dei movimenti
ha origine proprio nella difficoltà nel produrre istanze organizzative
che facciano tesoro dell'innovazione avviata dal manifestarsi della «nuova
radicalità» così appassionatamente sottolineata dai
due autori. Negli anni scorsi, c'è stato un gran fermento attorno
al modello reticolare di organizzazione politica, perché la rete
è uno strumento flessibile, inclusivo, rispettoso delle differenze,
ma allo stesso tempo capace di moltiplicare il potere dei movimenti. Insomma,
è l'immagine cambiata di segno dell'attuale modello produttivo.
In un'altra era c'è chi ha teorizzato che un'organizzazione politica
dovesse ricalcare la struttura della grande fabbrica, perché solo
così si potevano creare le condizioni di una politica della trasformazione.
Ma era, appunto, un'altra era. Oggi la proposta di una struttura centralizzata
che porti dall'esterno le risposte al che fare sarebbe giustamente rigettata.
E tuttavia il metodo di pensare una rete organizzativa come risposta all'esercizio
del comando è la cruna dell'ago da passare per pensare non la «grande
politica», ma la politica sans phrase.
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