Libreria delle donne di Milano
paradiso
"A volte penso che il paradiso debba essere un continuo infinito leggere"
(Virginia Woolf, luglio 1934)


Discussione a proposito del libro "Il dio delle donne" di Luisa Muraro
Circolo della Rosa, 2003

Trascrizione di Serena Fuart, rivista da Luisa Muraro

L'iniziativa parte da una proposta di Liliana Rampello:

"Vorrei discutere Il Dio delle donne con Luisa che lo ha scritto e con altre che lo hanno letto.
Vorrei capire, meglio che posso, come si traduce in politica, per me, l'esperienza che la sua scrittura attraversa.
Non è facile, anzi penso che alcuni tratti di questa esperienza siano unici e singolari…".

Lo scopo dell'incontro quindi non va ricercato nella presentazione del libro, tanto meno nella sua sfida più alta, che è quella anche filosofica e teologica.
"Tratterò solo alcuni punti che hanno a che vedere con la mia reazione come lettrice..." dice Liliana Rampello, introducendo la discussione.
Tutto questo vuole essere comunque soprattutto un ringraziamento, un omaggio a Luisa Muraro, per aver scritto questo libro, "…un libro che dà felicità anche a chi lo legge" continua la relatrice "…e permette a me, una sua lettrice comune, senza particolari competenze nella materia, che Luisa usa invece con sofisticatissima capacità, di discuterlo".
L'intenzione di Liliana Rampello quindi è di trattare tale testo secondo quel taglio politico che più può trovare in lei una rispondenza, un' eco e una risonanza come lettrice.
Questo libro lo definisce innanzitutto sussultorio.
"Ci sono moltissimi punti in cui ho come respirato a pieni polmoni..." dice "... e moltissimi altri in cui invece mi sono come ritratta, nel senso che non riuscivo a capire se non stavo comprendendo, se non capivo abbastanza il lavoro di Luisa o se proprio io resistevo al tipo di percorso che lei sta presentando o se in qualche modo non ne vedevo l'immediata traducibilità. Questo è un libro, almeno nella mia lettura, che costruisce un arco in tensione tra la politica e la teologia in lingua materna. Questo, naturalmente dal mio punto di vista, sottrae il testo ad una lettura solamente teologica o filosofica proprio perché mi sembra di sentire, perfino nella forma scelta da Luisa di comunicare, le conquiste e i risultati del suo pensiero, mi pare di poter rilevare una volontà politica molto forte che è quella appunto di arrivare a tante, a moltissime, con questo testo. Luisa insegna sia la politica che la teologia in lingua materna e Luisa impara dalla politica e dalla teologia della lingua materna, quindi il modo in cui ho cominciato a leggerlo era cercare di capire che cosa potevo imparare io di questa tensione tra due ambiti che non immediatamente normalmente vengono coniugati. Rispetto a quello che avevo imparato in politica proprio con lei e con altre, mi sono chiesta se si trattava semplicemente di un cambio di parole, ovvero quali parole sono modificate rispetto la mia politica nella proposta di Luisa, cosa c'è di diverso, cosa c'è di nuovo o in più rispetto a prima che io lo leggessi."
Questo libro, dice Liliana Rampello, tenta in ogni caso continuamente di rompere con ogni costruzione costringente del pensiero, per aprirlo all'infinito che è il generarsi di un senso libero della differenza, e per questo, Luisa Muraro, mette a disposizione il nome di Dio in una doppia possibilità: quella di usarlo e quella di essere usato.
"E già questo per me è un primo complicatissimo problema..." Dice "...nel senso che il farmi usare dal nome di Dio è qualcosa di cui lei, evidentemente, ha fatto esperienza nel suo percorso, la vede come una via praticabile che invece io non conosco. Oltretutto nel mettere a disposizione questo nome di Dio, ci apre appunto lo spazio di una libertà infinita, ma di nuovo, perché io possa muovermi in una libertà infinita so di aver bisogno di una misura e non mi è chiara la misura che Luisa mi propone in questo testo".
Non c'è dubbio, l'infinito dà gioia, dice Liliana Rampello, e questo è un testo che si legge con sussulti proprio perché le suggestioni sono tantissime.
"Il problema a cui ho cercato di dare una risposta dentro me stessa era da dove passa questa esperienza. Fino ad adesso quello che sono riuscita a imparare, a giocare e a rigiocare nella mia differenza, ha avuto a disposizione un altro infinito che aveva il nome comune donna"
In un punto del testo, Luisa Muraro scrive che nascere donna è nascere predisposta allo sbilanciamento del senso di gravità fuori di sé, è qualcosa che va continuamente fatto, che non è mai dato una volta per tutte.
"Prima di leggere questo libro..."Continua Liliana Rampello "...era come avessi due bussole: il fatto che la libertà fosse relazionale e che quindi la struttura della relazione mi permettesse di agire libertà e il fatto, ancora più vecchio e rigiocato anche da noi, dell'universale come mediazione.
L'infinito prende il nome di Dio e Luisa ci fa vedere il percorso di altre donne invitandoci a non leggerlo come un percorso isolato.
Farò solo questa di citazione diretta del libro di Luisa nell'ultimo capitolo, naturalmente dove poi le cose si coagulano più intensamente "…non isoliamo nell'eccezionalità di un destino anche l'insegnamento di queste donne, esse fanno qualcosa di terribilmente semplice, esserci in prima persona, senzienti e pensanti, al posto del già pensato, del già stabilito, del già giudicato, ossia di tutto ciò che dà consistenza al mondo, una consistenza di pietra. E insegnano la fecondità di questo esserci".
In queste righe, continua la relatrice, è presente la risposta alla sua obiezione:
"Queste donne hanno fatto una cosa particolarissima ma cosa c'entrano con me, in che modo mi metto in rapporto con loro? Il fatto che Luisa Muraro esorti a non isolarle è come già una risposta implicita alla mia obiezione. Però dalla lettura che ho fatto di quanto Luisa ha scritto in questi anni, so che lei non ama e non intende percorrere la strada del pensiero metaforico ne tanto meno del pensiero analogico. Nei suoi testi ha sempre rifiutato queste due chiavi, dunque, devo stare alla lettera, o, al massimo, lei in questo testo mi dà un piccolo imbuto, terreno dell'allegoria, che lei dice essere il nascondiglio dell'invisibile e dell'indicibile?"
"Che cosa vuol dire alla lettera non isolare l'esperienza di queste donne? Cosa significa alla lettera esserci?".
Un punto importante del testo riguarda anche il linguaggio. "Io non credo che questo sia un passaggio semplice non solo politicamente ma addirittura linguisticamente perché Luisa tratta i testi definendoli in lingua materna. Io credo che anche qui ci sia qualcosa che possa complicare questa sua affermazione ovvero che questa lingua materna comunque acceda al linguaggio poetico e il linguaggio poetico abbia molto a che fare con il metaforico, quindi questo è un altro ambito di problemi. "
Liliana Rampello parla di tre momenti in cui ha cercato di capire in quali punti la proposta politica di Luisa, non il testo filosfofico e teologico, le può parlare, dove si ritrova e dove no.
Il primo punto è l'amore, tema che Luisa Muraro ripropone nuovamente essendo il ragionamento su Diotima già presentato in altri due testi.
"Lei mi fa passare da quell'ipotesi dell'universale come mediazione, all'affermazione che l'universale è l'universale del passaggio in altro. Questo è un bel cambio.
Universale del passaggio in Altro perché passi Altro significa fare vuoto disidentificarsi, significa quel nulla di io che lei richiama quando parla di Margherita Porete. Lo declina anche con qualcosa, a me più prossimo, che è il soggetto altro di Elvio Facchinelli in La mente estatica, lo declina anche ovviamente con tutto il versante del lavoro di una parte di alcuni psicanalisti, però sicuramente mi mette di fronte a vuoto e nulla e lo fa appunto attraverso le beghine cioè, come loro hanno fatto, in modo che fosse l'essere il loro far essere l'essere. Allora una delle mie domande era: la struttura della relazione che Margherita aveva con Dio non è la struttura di una relazione tra l'Una e l'Altro, in cui la potenza del desiderio sopravanza la stessa vita? E non è questo un estremo? Sopravanzare la propria vita non è un'esperienza estrema? Fra l'altro vivere per me è una cosa estrema quindi non vado molto alla ricerca di altro di più estremo".
Il secondo luogo esemplare di Diotima è l'amore come mancanza, l'amore come passaggio del suo avvenimento.
"Qui ho un altro problema...quale pratica è possibile dell'avvenire? Se l'accadere non può accadere per volontà, come si fa a lasciare lo spazio dell'accadimento in questa forma, cioè che l'accadere sia senza che io possa avere l'idea di come posso fare perché l'accadere sia?"
Il terzo punto riguarda l'imparare il reale. Per Luisa Muraro imparare il reale significa disimparare il senso delle parole, disimparare il significato delle cose. Questa è la sua scommessa ed è una scommessa enorme che per lei diventa l'essenziale.
Nell'ultima parte del testo, nel capitolo intitolato La mediazione vivente, Luisa Muraro scrive a proposito delle beghine che insegnano la mediazione vivente, tuttavia ce lo dice con una sorta di circolo, continua Liliana Rampello "…circolo che io non sono riuscita a spezzare. Che cosa vuol dire in pratica?
"Per capire che cos'è la mediazione vivente il meglio è praticarla, tanto più che questo, secondo me, è il significato irriducibile della pratica: assicurare la mediazione vivente." E io mi sono come sentita presa dentro un cerchio. Non avevo la chiave per uscire: cioè l'unico modo per praticare la mediazione vivente è praticarla, però la mediazione vivente è irriducibile. Allora leggendo queste righe mi sono chiesta se quello che scriveva in questo testo Luisa non potesse essere preso per una conferma esemplare, nel senso che lei ha visto gli esempi che le davano ragione su qualcosa che lei sapeva, la mediazione vivente cioè la sapeva prima di questi testi. Allora appunto che cosa c'è in più rispetto a quanto già lei sapeva? La buona postura che lei dice essere necessaria per imparare il reale è la postura dell'essere che comincia, allora anche in quel punto nei miei sussulti, mi sono detta, ma io sono già cominciata! Io sono un corpo, una mente, un cuore, un inconscio, un desiderio, quindi come mi spoglio di tutto ciò che è stato dal momento del mio cominciare ad essere? Come incontro il mio inizio? Allora questo infinito del pensiero che non è ovviamente la sua innocenza, perché non c'è nulla di innocente in questo testo, è un disfare mentre si fa il mondo, un mondo che è qui, che sono io, che siamo noi, che è ogni giorno e io non sono riuscita alla fine a dare la stessa risposta di Luisa che è una risposta importante ma una risposta appunto che mi ha lasciato in parte interdetta cioè il "…basterà esserci e voler bene senza far troppo ingombro. Sì, certo."
Liliana Rampello conclude volendo sintetizzare tutto ciò in due questioni.
La prima riguarda il come un percorso di questa natura diventa pratica politica condivisa condivisibile ovvero come questa possibilità in più è agibile per far capitar qualcosa di significativo.
La seconda: nel nulla di io, chi parla quando non è l'io che parla?

La parola passa a Luisa Muraro che esordisce dicendo di volersi immaginare come un'autrice postuma, defunta e rispolverata per l'occasione piuttosto che come l'attuale autrice. Dice però di riconoscersi come colei a cui spetta portare la responsabilità, colei che assieme a Liliana Rampello e le altre, ha l'abitudine della discussione politica, di affrontare i testi, compresi quelli che scrive lei, con il taglio della politica delle donne.
La questione da cui desidera partire e che l'ha più colpita, è il punto di della pratica possibile dell'avvenire se non è per volontà.
"Questo è un punto molto importante...", dice. "Sono arrivata alla convinzione che la volontà intesa come l'abbiamo intesa classicamente nell'Occidente, cioè come progettazione, non sia feconda, proficua, sia anzi catastrofica..."
Luisa Muraro ritiene che ciò che fa avvenire le cose è lo starci, l'esserci, il voler bene, non fare ingombro; esserci dentro le cose, riconoscere che se ne è parte. "E' un esserci non di protagonismo" specifica "...sebbene io il desiderio di protagonismo lo sento e lo incoraggio in altre ma qui si tratta dell'esserci nel senso dell'essere parte".
Il tema del voler bene va preso molto alla lettera e si riferisce anche al senso attribuito da Heidegger, il quale insiste sul voler bene come un far sì che l'essere sia, un fare che le cose siano quelle che sono.
"Nell'esserci, c'è questo: stare come le cose vogliono loro stesse essere, assecondarle, assecondarle nel principio stesso del loro essere della fecondità stessa del loro essere e non invece nella cosa seconda, nel piano secondo di una progettualità e di un inquadramento, e in questo senso farle avvenire."
A proposito del tema del voler bene, Luisa Muraro cita un esempio che riguarda una donna dei nostri giorni, Etty Hillesum. In Etty Hillesum dominava fortemente l'idea che, volendo bene, quello che è incastrato nella sua impotenza e violenza, si scioglie con una possibilità di essere.
Luisa Muraro si riferisce all'episodio della Hillesum con il giovane militare nazista: gli vuole bene e questo suo voler bene si traduce nel voler aiutare il ragazzo a poter essere quello che lui può essere, una possibilità d'essere disastrosamente perduta a causa dell'incastro dentro al nazismo. Luisa Muraro sottolinea quanto Etty prestasse attenzione a non fare troppo "ingombro".
La questione del non fare ingombro è un insegnamento che proviene da Margherita Porete, dice ancora Luisa Muraro, ed è un termine derivante dal francese medievale "encombrement".
Spiega ancora come Erminia Macola a Roma, discutendo di questo libro, abbia sottolineato che l'ingombro non sia qualcosa da eliminare con un'ascesi ma piuttosto da ascoltare nella sua goffaggine, e di capire come nasconda e veicoli quel "di più" presente nel desiderio di una possibilità.
"Questo è quello che viene a stabilirsi al posto di una progettualità volontaristica...", continua Luisa Muraro. E continua la discussione affrontando la questione del circolo vizioso.
La mediazione vivente, dice, è l'esserci che la pratica o le pratiche affinano, cioè l'esserci noi. Le pratiche portano ad un esserci che è affinato, allora la mediazione vivente si impara praticandola.
L'essere è da sempre, continua Luisa Muraro "...ma ad un certo momento l'essere che è da sempre si è messo ad aspettare me come se per esserci l'essere avesse bisogno di me, aveva bisogno di me per esserci. Quindi io sono il compimento di un'attesa, l'essere era in attesa, quindi aveva in un certo senso sospeso la pienezza perché si era messo ad aspettare, non si sapeva chi, non si sapeva nulla ma quest'attesa però è stata esaudita e ci sono io."
Le pratiche quindi sono un modo non intellettuale per concentrarsi in quel passaggio in cui l'essere in attesa ha visto la sua attesa esaudita.
Luisa Muraro racconta di come abbia preso consapevolezza di questi concetti, tramite cioè, la pratica dell'autocoscienza, la pratica della relazione, dell'affidamento oppure con l'esperienza dell'amore, anche se, qui, il discorso si fa complicato perché l'amore, dichiara, è qualcosa di cui non s'intende molto.
"Le pratiche ben trovate permettono l'esserci quindi permettono questa specie di continuità, ma non è che si ha già cominciati, si è nella necessità costante di un lavoro di mediazione che si fa da sole, in rapporto con altri e via dicendo. Io, da questa idea che è relativamente semplice, ho fatto un'estremizzazione anche con altri elementi di dottrina filosofica, un'estremizzazione per sostenere che il mondo continua a farsi e continua a disfarsi. Questo lo intendo anche storicamente cioè è una lettura. Noi vediamo in effetti come ci sono momenti di estremo esaurimento di essere, estrema difficoltà, non solo personale come se dipendesse dalla propria psicologia, ma che riguarda la realtà stessa che sembra non riuscire più. Allora ci sono dei momenti di un catastrofico disfarsi che possono essere spaventosi.
Questo punto, secondo Luisa Muraro, è fondamentale per la comprensione di quale traduzione politica si possa fare del suo libro, una veduta che si può condividere o meno. Quando si è in fondo ad un disfarsi, è opportuno approfittarne e mettersi nella posizione delle cose che si vanno tessendo e facendo, dice.
"La pratica della mediazione vivente è la rigenerazione, è il lavoro del disfare e del rifare che adopera di un essere umano pensante amoroso ragionante, quindi nella cosa non cieca, nella cosa condivisa e nella cosa che può anche essere resa condivisibile perché se c'è una pratica politica che si allarga ed è molto estesa diventa così".
Partendo poi da un altro spunto di Liliana Rampello, sul perché dire Dio, Luisa Muraro racconta di una teologa, che le chiese a proposito di questo suo libro, il motivo per cui trattasse esplicitamente di donne. Le questioni presenti in questo testo, disse la teologa, appartengono alla mistica e riguardano uomini e donne, perché quindi, chiese, le donne. Luisa racconta di averle risposto come questa domanda fatta a lei non avesse senso, per lei le donne ci sono per cominciare, semmai la questione è: perché Dio? Cosa c'entra Dio in tutto questo?
La domanda da farsi, dice Luisa Muraro, è questa allora, e fa riferimento alla prefazione del libro in cui scrive del motivo per cui ha parlato di Dio: ha parlato di Dio perché voleva parlare delle donne.
La teologa allora espresse il pensiero che forse è più vero il viceversa e questo voler parlare delle donne sia strumentale ad un voler parlare di Dio. Un'insinuazione abbastanza acuta, la definisce Luisa Muraro, che però non fa commenti riportando la questione sul "Cosa c'entra Dio?":
"...è per fare il buco nell'orizzonte", risponde riferendosi alla siepe che chiude la vista dell'orizzonte allo sguardo di Leopardi.
"Ho scoperto che tra le donne femministe un certo legame con Dio c'era, c'è, è una specie di legame reticente sommesso, strano tuttavia non esiste il problema della morte di Dio, è una questione degli uomini perché per le donne Dio non è mai morto e questo fatto mi ha molto colpita: il Dio delle donne non è morto! E allora ho pensato di fare il buco nella siepe con il Dio delle donne, che non è morto e ho come idea che Leopardi, un poeta a me caro, sarebbe stato contento".