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Discussione a proposito del libro "Il dio delle donne"
di Luisa Muraro
Circolo della Rosa, 2003
Trascrizione di Serena Fuart, rivista da Luisa Muraro
L'iniziativa parte da una proposta di
Liliana Rampello:
"Vorrei discutere Il Dio delle
donne con Luisa che lo ha scritto e con altre che lo hanno letto.
Vorrei capire, meglio che posso, come si traduce in politica, per me,
l'esperienza che la sua scrittura attraversa.
Non è facile, anzi penso che alcuni tratti di questa esperienza
siano unici e singolari
".
Lo scopo dell'incontro quindi non va ricercato nella presentazione
del libro, tanto meno nella sua sfida più alta, che è quella
anche filosofica e teologica.
"Tratterò solo alcuni punti che hanno a che vedere con la
mia reazione come lettrice..." dice Liliana Rampello, introducendo
la discussione.
Tutto questo vuole essere comunque soprattutto un ringraziamento, un omaggio
a Luisa Muraro, per aver scritto questo libro, "
un libro che
dà felicità anche a chi lo legge" continua la relatrice
"
e permette a me, una sua lettrice comune, senza particolari
competenze nella materia, che Luisa usa invece con sofisticatissima capacità,
di discuterlo".
L'intenzione di Liliana Rampello quindi è di trattare tale testo
secondo quel taglio politico che più può trovare in lei
una rispondenza, un' eco e una risonanza come lettrice.
Questo libro lo definisce innanzitutto sussultorio.
"Ci sono moltissimi punti in cui ho come respirato a pieni polmoni..."
dice "... e moltissimi altri in cui invece mi sono come ritratta,
nel senso che non riuscivo a capire se non stavo comprendendo, se non
capivo abbastanza il lavoro di Luisa o se proprio io resistevo al tipo
di percorso che lei sta presentando o se in qualche modo non ne vedevo
l'immediata traducibilità. Questo è un libro, almeno nella
mia lettura, che costruisce un arco in tensione tra la politica e la teologia
in lingua materna. Questo, naturalmente dal mio punto di vista, sottrae
il testo ad una lettura solamente teologica o filosofica proprio perché
mi sembra di sentire, perfino nella forma scelta da Luisa di comunicare,
le conquiste e i risultati del suo pensiero, mi pare di poter rilevare
una volontà politica molto forte che è quella appunto di
arrivare a tante, a moltissime, con questo testo. Luisa insegna sia la
politica che la teologia in lingua materna e Luisa impara dalla politica
e dalla teologia della lingua materna, quindi il modo in cui ho cominciato
a leggerlo era cercare di capire che cosa potevo imparare io di questa
tensione tra due ambiti che non immediatamente normalmente vengono coniugati.
Rispetto a quello che avevo imparato in politica proprio con lei e con
altre, mi sono chiesta se si trattava semplicemente di un cambio di parole,
ovvero quali parole sono modificate rispetto la mia politica nella proposta
di Luisa, cosa c'è di diverso, cosa c'è di nuovo o in più
rispetto a prima che io lo leggessi."
Questo libro, dice Liliana Rampello, tenta in ogni caso continuamente
di rompere con ogni costruzione costringente del pensiero, per aprirlo
all'infinito che è il generarsi di un senso libero della differenza,
e per questo, Luisa Muraro, mette a disposizione il nome di Dio in una
doppia possibilità: quella di usarlo e quella di essere usato.
"E già questo per me è un primo complicatissimo problema..."
Dice "...nel senso che il farmi usare dal nome di Dio è qualcosa
di cui lei, evidentemente, ha fatto esperienza nel suo percorso, la vede
come una via praticabile che invece io non conosco. Oltretutto nel mettere
a disposizione questo nome di Dio, ci apre appunto lo spazio di una libertà
infinita, ma di nuovo, perché io possa muovermi in una libertà
infinita so di aver bisogno di una misura e non mi è chiara la
misura che Luisa mi propone in questo testo".
Non c'è dubbio, l'infinito dà gioia, dice Liliana Rampello,
e questo è un testo che si legge con sussulti proprio perché
le suggestioni sono tantissime.
"Il problema a cui ho cercato di dare una risposta dentro me stessa
era da dove passa questa esperienza. Fino ad adesso quello che sono riuscita
a imparare, a giocare e a rigiocare nella mia differenza, ha avuto a disposizione
un altro infinito che aveva il nome comune donna"
In un punto del testo, Luisa Muraro scrive che nascere donna è
nascere predisposta allo sbilanciamento del senso di gravità fuori
di sé, è qualcosa che va continuamente fatto, che non è
mai dato una volta per tutte.
"Prima di leggere questo libro..."Continua Liliana Rampello
"...era come avessi due bussole: il fatto che la libertà fosse
relazionale e che quindi la struttura della relazione mi permettesse di
agire libertà e il fatto, ancora più vecchio e rigiocato
anche da noi, dell'universale come mediazione.
L'infinito prende il nome di Dio e Luisa ci fa vedere il percorso di altre
donne invitandoci a non leggerlo come un percorso isolato.
Farò solo questa di citazione diretta del libro di Luisa nell'ultimo
capitolo, naturalmente dove poi le cose si coagulano più intensamente
"
non isoliamo nell'eccezionalità di un destino anche
l'insegnamento di queste donne, esse fanno qualcosa di terribilmente semplice,
esserci in prima persona, senzienti e pensanti, al posto del già
pensato, del già stabilito, del già giudicato, ossia di
tutto ciò che dà consistenza al mondo, una consistenza di
pietra. E insegnano la fecondità di questo esserci".
In queste righe, continua la relatrice, è presente la risposta
alla sua obiezione:
"Queste donne hanno fatto una cosa particolarissima ma cosa c'entrano
con me, in che modo mi metto in rapporto con loro? Il fatto che Luisa
Muraro esorti a non isolarle è come già una risposta implicita
alla mia obiezione. Però dalla lettura che ho fatto di quanto Luisa
ha scritto in questi anni, so che lei non ama e non intende percorrere
la strada del pensiero metaforico ne tanto meno del pensiero analogico.
Nei suoi testi ha sempre rifiutato queste due chiavi, dunque, devo stare
alla lettera, o, al massimo, lei in questo testo mi dà un piccolo
imbuto, terreno dell'allegoria, che lei dice essere il nascondiglio dell'invisibile
e dell'indicibile?"
"Che cosa vuol dire alla lettera non isolare l'esperienza di queste
donne? Cosa significa alla lettera esserci?".
Un punto importante del testo riguarda anche il linguaggio. "Io non
credo che questo sia un passaggio semplice non solo politicamente ma addirittura
linguisticamente perché Luisa tratta i testi definendoli in lingua
materna. Io credo che anche qui ci sia qualcosa che possa complicare questa
sua affermazione ovvero che questa lingua materna comunque acceda al linguaggio
poetico e il linguaggio poetico abbia molto a che fare con il metaforico,
quindi questo è un altro ambito di problemi. "
Liliana Rampello parla di tre momenti in cui ha cercato di capire in quali
punti la proposta politica di Luisa, non il testo filosfofico e teologico,
le può parlare, dove si ritrova e dove no.
Il primo punto è l'amore, tema che Luisa Muraro ripropone nuovamente
essendo il ragionamento su Diotima già presentato in altri due
testi.
"Lei mi fa passare da quell'ipotesi dell'universale come mediazione,
all'affermazione che l'universale è l'universale del passaggio
in altro. Questo è un bel cambio.
Universale del passaggio in Altro perché passi Altro significa
fare vuoto disidentificarsi, significa quel nulla di io che lei richiama
quando parla di Margherita Porete. Lo declina anche con qualcosa, a me
più prossimo, che è il soggetto altro di Elvio Facchinelli
in La mente estatica, lo declina anche ovviamente con tutto il versante
del lavoro di una parte di alcuni psicanalisti, però sicuramente
mi mette di fronte a vuoto e nulla e lo fa appunto attraverso le beghine
cioè, come loro hanno fatto, in modo che fosse l'essere il loro
far essere l'essere. Allora una delle mie domande era: la struttura della
relazione che Margherita aveva con Dio non è la struttura di una
relazione tra l'Una e l'Altro, in cui la potenza del desiderio sopravanza
la stessa vita? E non è questo un estremo? Sopravanzare la propria
vita non è un'esperienza estrema? Fra l'altro vivere per me è
una cosa estrema quindi non vado molto alla ricerca di altro di più
estremo".
Il secondo luogo esemplare di Diotima è l'amore come mancanza,
l'amore come passaggio del suo avvenimento.
"Qui ho un altro problema...quale pratica è possibile dell'avvenire?
Se l'accadere non può accadere per volontà, come si fa a
lasciare lo spazio dell'accadimento in questa forma, cioè che l'accadere
sia senza che io possa avere l'idea di come posso fare perché l'accadere
sia?"
Il terzo punto riguarda l'imparare il reale. Per Luisa Muraro imparare
il reale significa disimparare il senso delle parole, disimparare il significato
delle cose. Questa è la sua scommessa ed è una scommessa
enorme che per lei diventa l'essenziale.
Nell'ultima parte del testo, nel capitolo intitolato La mediazione vivente,
Luisa Muraro scrive a proposito delle beghine che insegnano la mediazione
vivente, tuttavia ce lo dice con una sorta di circolo, continua Liliana
Rampello "
circolo che io non sono riuscita a spezzare. Che
cosa vuol dire in pratica?
"Per capire che cos'è la mediazione vivente il meglio è
praticarla, tanto più che questo, secondo me, è il significato
irriducibile della pratica: assicurare la mediazione vivente." E
io mi sono come sentita presa dentro un cerchio. Non avevo la chiave per
uscire: cioè l'unico modo per praticare la mediazione vivente è
praticarla, però la mediazione vivente è irriducibile. Allora
leggendo queste righe mi sono chiesta se quello che scriveva in questo
testo Luisa non potesse essere preso per una conferma esemplare, nel senso
che lei ha visto gli esempi che le davano ragione su qualcosa che lei
sapeva, la mediazione vivente cioè la sapeva prima di questi testi.
Allora appunto che cosa c'è in più rispetto a quanto già
lei sapeva? La buona postura che lei dice essere necessaria per imparare
il reale è la postura dell'essere che comincia, allora anche in
quel punto nei miei sussulti, mi sono detta, ma io sono già cominciata!
Io sono un corpo, una mente, un cuore, un inconscio, un desiderio, quindi
come mi spoglio di tutto ciò che è stato dal momento del
mio cominciare ad essere? Come incontro il mio inizio? Allora questo infinito
del pensiero che non è ovviamente la sua innocenza, perché
non c'è nulla di innocente in questo testo, è un disfare
mentre si fa il mondo, un mondo che è qui, che sono io, che siamo
noi, che è ogni giorno e io non sono riuscita alla fine a dare
la stessa risposta di Luisa che è una risposta importante ma una
risposta appunto che mi ha lasciato in parte interdetta cioè il
"
basterà esserci e voler bene senza far troppo ingombro.
Sì, certo."
Liliana Rampello conclude volendo sintetizzare tutto ciò in due
questioni.
La prima riguarda il come un percorso di questa natura diventa pratica
politica condivisa condivisibile ovvero come questa possibilità
in più è agibile per far capitar qualcosa di significativo.
La seconda: nel nulla di io, chi parla quando non è l'io che parla?
La parola passa a Luisa Muraro che esordisce dicendo di
volersi immaginare come un'autrice postuma, defunta e rispolverata per
l'occasione piuttosto che come l'attuale autrice. Dice però di
riconoscersi come colei a cui spetta portare la responsabilità,
colei che assieme a Liliana Rampello e le altre, ha l'abitudine della
discussione politica, di affrontare i testi, compresi quelli che scrive
lei, con il taglio della politica delle donne.
La questione da cui desidera partire e che l'ha più colpita, è
il punto di della pratica possibile dell'avvenire se non è per
volontà.
"Questo è un punto molto importante...", dice. "Sono
arrivata alla convinzione che la volontà intesa come l'abbiamo
intesa classicamente nell'Occidente, cioè come progettazione, non
sia feconda, proficua, sia anzi catastrofica..."
Luisa Muraro ritiene che ciò che fa avvenire le cose è lo
starci, l'esserci, il voler bene, non fare ingombro; esserci dentro le
cose, riconoscere che se ne è parte. "E' un esserci non di
protagonismo" specifica "...sebbene io il desiderio di protagonismo
lo sento e lo incoraggio in altre ma qui si tratta dell'esserci nel senso
dell'essere parte".
Il tema del voler bene va preso molto alla lettera e si riferisce anche
al senso attribuito da Heidegger, il quale insiste sul voler bene come
un far sì che l'essere sia, un fare che le cose siano quelle che
sono.
"Nell'esserci, c'è questo: stare come le cose vogliono loro
stesse essere, assecondarle, assecondarle nel principio stesso del loro
essere della fecondità stessa del loro essere e non invece nella
cosa seconda, nel piano secondo di una progettualità e di un inquadramento,
e in questo senso farle avvenire."
A proposito del tema del voler bene, Luisa Muraro cita un esempio che
riguarda una donna dei nostri giorni, Etty Hillesum. In Etty Hillesum
dominava fortemente l'idea che, volendo bene, quello che è incastrato
nella sua impotenza e violenza, si scioglie con una possibilità
di essere.
Luisa Muraro si riferisce all'episodio della Hillesum con il giovane militare
nazista: gli vuole bene e questo suo voler bene si traduce nel voler aiutare
il ragazzo a poter essere quello che lui può essere, una possibilità
d'essere disastrosamente perduta a causa dell'incastro dentro al nazismo.
Luisa Muraro sottolinea quanto Etty prestasse attenzione a non fare troppo
"ingombro".
La questione del non fare ingombro è un insegnamento che proviene
da Margherita Porete, dice ancora Luisa Muraro, ed è un termine
derivante dal francese medievale "encombrement".
Spiega ancora come Erminia Macola a Roma, discutendo di questo libro,
abbia sottolineato che l'ingombro non sia qualcosa da eliminare con un'ascesi
ma piuttosto da ascoltare nella sua goffaggine, e di capire come nasconda
e veicoli quel "di più" presente nel desiderio di una
possibilità.
"Questo è quello che viene a stabilirsi al posto di una progettualità
volontaristica...", continua Luisa Muraro. E continua la discussione
affrontando la questione del circolo vizioso.
La mediazione vivente, dice, è l'esserci che la pratica o le pratiche
affinano, cioè l'esserci noi. Le pratiche portano ad un esserci
che è affinato, allora la mediazione vivente si impara praticandola.
L'essere è da sempre, continua Luisa Muraro "...ma ad un certo
momento l'essere che è da sempre si è messo ad aspettare
me come se per esserci l'essere avesse bisogno di me, aveva bisogno di
me per esserci. Quindi io sono il compimento di un'attesa, l'essere era
in attesa, quindi aveva in un certo senso sospeso la pienezza perché
si era messo ad aspettare, non si sapeva chi, non si sapeva nulla ma quest'attesa
però è stata esaudita e ci sono io."
Le pratiche quindi sono un modo non intellettuale per concentrarsi in
quel passaggio in cui l'essere in attesa ha visto la sua attesa esaudita.
Luisa Muraro racconta di come abbia preso consapevolezza di questi concetti,
tramite cioè, la pratica dell'autocoscienza, la pratica della relazione,
dell'affidamento oppure con l'esperienza dell'amore, anche se, qui, il
discorso si fa complicato perché l'amore, dichiara, è qualcosa
di cui non s'intende molto.
"Le pratiche ben trovate permettono l'esserci quindi permettono questa
specie di continuità, ma non è che si ha già cominciati,
si è nella necessità costante di un lavoro di mediazione
che si fa da sole, in rapporto con altri e via dicendo. Io, da questa
idea che è relativamente semplice, ho fatto un'estremizzazione
anche con altri elementi di dottrina filosofica, un'estremizzazione per
sostenere che il mondo continua a farsi e continua a disfarsi. Questo
lo intendo anche storicamente cioè è una lettura. Noi vediamo
in effetti come ci sono momenti di estremo esaurimento di essere, estrema
difficoltà, non solo personale come se dipendesse dalla propria
psicologia, ma che riguarda la realtà stessa che sembra non riuscire
più. Allora ci sono dei momenti di un catastrofico disfarsi che
possono essere spaventosi.
Questo punto, secondo Luisa Muraro, è fondamentale per la comprensione
di quale traduzione politica si possa fare del suo libro, una veduta che
si può condividere o meno. Quando si è in fondo ad un disfarsi,
è opportuno approfittarne e mettersi nella posizione delle cose
che si vanno tessendo e facendo, dice.
"La pratica della mediazione vivente è la rigenerazione, è
il lavoro del disfare e del rifare che adopera di un essere umano pensante
amoroso ragionante, quindi nella cosa non cieca, nella cosa condivisa
e nella cosa che può anche essere resa condivisibile perché
se c'è una pratica politica che si allarga ed è molto estesa
diventa così".
Partendo poi da un altro spunto di Liliana Rampello, sul perché
dire Dio, Luisa Muraro racconta di una teologa, che le chiese a proposito
di questo suo libro, il motivo per cui trattasse esplicitamente di donne.
Le questioni presenti in questo testo, disse la teologa, appartengono
alla mistica e riguardano uomini e donne, perché quindi, chiese,
le donne. Luisa racconta di averle risposto come questa domanda fatta
a lei non avesse senso, per lei le donne ci sono per cominciare, semmai
la questione è: perché Dio? Cosa c'entra Dio in tutto questo?
La domanda da farsi, dice Luisa Muraro, è questa allora, e fa riferimento
alla prefazione del libro in cui scrive del motivo per cui ha parlato
di Dio: ha parlato di Dio perché voleva parlare delle donne.
La teologa allora espresse il pensiero che forse è più vero
il viceversa e questo voler parlare delle donne sia strumentale ad un
voler parlare di Dio. Un'insinuazione abbastanza acuta, la definisce Luisa
Muraro, che però non fa commenti riportando la questione sul "Cosa
c'entra Dio?":
"...è per fare il buco nell'orizzonte", risponde riferendosi
alla siepe che chiude la vista dell'orizzonte allo sguardo di Leopardi.
"Ho scoperto che tra le donne femministe un certo legame con Dio
c'era, c'è, è una specie di legame reticente sommesso, strano
tuttavia non esiste il problema della morte di Dio, è una questione
degli uomini perché per le donne Dio non è mai morto e questo
fatto mi ha molto colpita: il Dio delle donne non è morto! E allora
ho pensato di fare il buco nella siepe con il Dio delle donne, che non
è morto e ho come idea che Leopardi, un poeta a me caro, sarebbe
stato contento".
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