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il manifesto - 18 maggio2004

Versi di Bachmann tagliati nel buio
Frammenti di un processo poetico in atto, tra stimoli e freni derivati dal dolore: esce da Guanda, tradotta da Silvia Bortoli la raccolta postuma della scrittrice austriaca Non conosco mondo migliore
EMANUELE TREVI

Più che una raccolta di poesie inedite, questo nuovo e sconvolgente libro di Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, è una di quelle rarissime e preziose occasioni in cui un libro ci mette di fronte un processo poetico in atto, nel quale nulla è ancora «prodotto», o «testo» che dir si voglia, perché tutto è ancora nella fase del magma ribollente, della ricerca cieca di ritmi e parole, del desiderio pungolante, ed eternamente frustrato, di una visione. Di questa esperienza così emozionante bisogna ringraziare in primo luogo i due fratelli di Ingeborg, Isolde Moser e Heinz Bachmann, che hanno trovato casualmente i versi, consegnati a fogli dattiloscritti o ancora manoscritti, nel lascito non destinato alla pubblicazione conservato alla Biblioteca Nazionale di Vienna, e nel 2000 hanno deciso di pubblicarli, con lo stesso titolo oggi in italiano, integrandoli con poche altre poesie della stessa epoca già apparse in volume. Il libro esce adesso anche da Guanda, ben tradotto da Silvia Bortoli (pp.302, euro 18,00), e non è esagerato parlare di un vero evento editoriale. La maggior parte di questi scritti poetici risale agli anni 1962-64. La Bachmann si è appena lasciata alle spalle la pubblicazione dei racconti del Trentesimo anno, mentre la seconda e più importante raccolta poetica, Invocazione all'Orsa Maggiore, risale ormai al 1956. Ma come si può vedere da questi versi, la scrittrice non ha imboccato la via della prosa in maniera definitiva e irreversibile. E del resto, quale prosa del Novecento è stata così vicina all'intensità e all'incadescenza del dettato poetico come quella della Bachmann, pur senza mai cadere nel tranello retorico della «prosa poetica»? Infine, quando si tratterà di affrontare, con Malina, il più estremo e ambizioso progetto, tutti i generi letterari, compresi poesia e teatro e saggio, si daranno convegno nella mente di questa artista straordinaria, esempio perfetto della «bellezza insita in tutto quanto è stato pensato e vissuto in modo puro», come lei stessa ha scritto di Simone Weil.

C'è una certa dose di violenza, di indelicatezza postuma, nel pubblicare degli scritti così irrisolti, alla ricerca di se stessi, per così dire ancora in alto mare. Anche i fratelli della Bachmann, al momento di sottrarli al segreto, ne sono consapevoli. Eppure, sappiamo tutti che si tratta della decisione giusta, che in qualche modo corrisponde anch'essa a una volontà, visto che quei fogli, in fin dei conti, non sono stati distrutti. Not for publication but may remain here, aveva scritto a mano Kavafis sul fascicolo delle sue Poesie nascoste. Qualcosa del genere possiamo immaginare annotato da Ingeborg su questo libro che non si è mai sognata di pubblicare, tantomeno con questo titolo, e che pure adesso teniamo per le mani. Come definirlo, ammesso che sia necessario definirlo? Direi che si tratta di una patografia in versi, del grafico poetico di una sofferenza che a volte stimola, a volte inceppa la facoltà di parola. Ma non si tratta di intervalli nell'afasia, di momenti passeggera di remissione del male che aprono momentanei spazi di dicibilità. No, il dolore stimola e inceppa simultaneamente il ricorso alla lingua poetica. E allora il senso di indelicatezza si moltiplica al quadrato, perché non è un fallimento letterario quello che stiamo spiando, o non è solo quello, ma un profondo e irrimediabile disagio dell'esistere, un dolore mentale che si ripercuote sul corpo e sulla stessa consapevolezza fisica di sé. Ma in che cosa consiste, questo male? di cosa parlano dunque, in fin dei conti, queste poesie? Possiamo conoscere e impiegare dei concetti, possiamo per esempio ricorrere alla parola «depressione». Ma questo termine collettivo, questa convenzione medico-scientifica, così come ogni altra definizione possibile, nel momento stesso in cui viene pronunciato si rivela un guscio vuoto, un concetto rinsecchito incapace di rendere conto dell'esperienza.

L'esercizio della poesia, in primo luogo, è un tentativo di rimediare a questa impossibilità di definire, ma senza sminuirla, né aggirarla. E proprio perché saggia il confine tra il dicibile e l'indicibile, non allontanandosi mai da lì, questo esercizio può assomigliare a un tentativo di terapia. Dove l'espressione, invece che un dato di fatto o peggio ancora una conquista, appare nella sua essenza più profonda, cioè in qualità di speranza. Con una sapienza scenica e un'essenzialità degne di un Kantor, o di una Pina Bausch, a volte accade che le parole, e i ritmi che le scandiscono, facciano intravedere dei luoghi fisici, ambienti adatti al pieno articolarsi di questi monologhi del disagio. Come fiammelle di candela, i versi sottraggono all'oscurità questi frammenti di spazio senza mai perdere, si direbbe, la coscienza delle tenebre intorno. Molti gli squarci ospedalieri, come nella splendida Le droghe, le parole, una delle poesie più lavorate, già in gran parte sbalzata dall'informe, esercizio di attenzione che si tramuta in sensibilità patologicamente acuita, se è vero che «i malati sanno/che un colore, un alito di vento,/un passo duro, persino un/gemito dell'erba/al mondo già capovolge il cuore in/corpo, e intanto sperano/nella pace quelli che/sentono più guerre di quante ce ne siano».

Apprezzano, i malati, loro che «non sono/bianchi», gli abiti bianchi delle infermiere, poiché sperano che «nel bianco/qualcosa guarisca». Ma questa speranza che proietta addirittura la guarigione al di fuori dei confini del soggetto è una speranza che, propriamente, non ha contenuti reali. L'indicibile sfidato dall'esercizio della poesia fa da incudine e da martello, perché, se è vero che il male sfugge alla possibilità di definizione, allora la stessa legge deve valere anche per la cura e la guarigione. Ecco perché l'itinerario interiore dell'atea Ingeborg finisce così spesso per assomigliare ai metodi d'indagine del discorso mistico, collocato com'è all'interno di una doppia oscurità: quella originaria dell'identità e quella che, tragicamente, l'identità ferita proietta sul mondo. Sempre nella Bachmann il patimento del disagio, pure espresso dal punto di vista di un'individualità unica e irripetibile, comporta una conoscenza del mondo, un canale di comunicazione aperto in entrambi i sensi fra il male individuale e il male universale.

Nell'Imitatore di voci (1978), componendo un impareggiabile «necrologio» dell'amica da poco scomparsa, Thomas Bernhard non a caso ha parlato di una Bachmann «spaventata per tutta la vita» dall'«andamento del mondo» e dal «corso della storia». La solitudine mentale condizionata e ingigantita dalla sofferenza, in altre parole, è anche, nello stesso momento in cui viene denunciata dalla scrittura, una dichiarazione di estraneità che coinvolge «mondo» e «storia», setacciati fino allo stremo dal filtro della soggettività e trasformati anch'essi, senza residui di astrazione, in poderosi e soffocanti «sintomi».

Il male, allora, non è mai un «contenuto» del discorso di questa scrittrice, ma la condizione, il presupposto kantiano di ogni atto di conoscenza. L'iscrizione della traccia poetica sul bianco del foglio tanto più è autentica quanto più è lontana da ogni idea di salvezza. Semmai, apprendiamo con commozione, il soggetto e le sue parole condividono la stessa sorte, subiscono esattamente lo stesso scacco: «perché la carta svolazza,/allora nemmeno io posso riposare,/e svolazzo a brandelli/sulla strada...». Al centro della scena, là dove non c'è più differenza tra il dolore e la sua enunciazione, la Bachmann, traducendo alla lettera il lamento di Arianna di Monteverdi, pronuncia il suo «lasciatemi morire», laßt mich sterben. E mentre leggiamo, capiamo che l'unica eco possibile al lamento di questa nuova Arianna abbandonata è quella che si ripercuote nella nostra stessa stessa solitudine.