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il manifesto - 31 dicembre 2004
Gesti aurorali nella filosofia di Zambrano
Festeggiamenti Si chiude, con questo anno, anche il centenario della nascita
di Maria Zambrano, alla quale sono state dedicate, nel corso del mese,
giornate di studio, mostre e la pubblicazione dei «Quaderni del
Caffé Greco», che raccoglie frammenti inediti scritti dalla
filosofa spagnola nel '53, anno in cui approdò a Roma
DONATELLA DI CESARE
L'esilio, prima subìto, poi assunto
su di sé e anzi rivendicato - «amo il mio esilio» dirà
nel 1989 già tornata in Spagna - è la cifra della filosofia
di María Zambrano. Prima ancora di essere geografico, sociale,
politico, l'esilio è anzitutto «ontologico». In quel
non-luogo, in quella patria sconosciuta che poi diventa irrinunciabile,
Zambrano scorge la vita umana denudata, portata alla sua nudità
«tragica e aurorale». La condizione estrema dell'esilio è
quella dell'espropriazione, quella in cui il proprio, la fissità
del firmamento conosciuto, è per sempre negato. L'esilio è
infatti esilio non solo dalla patria, ma da ogni possibile patria. È
perciò che Zambrano, aderendo fino in fondo a questa impossibilità,
non si lasciò sedurre da un nuovo paese e accettò di vivere
«de destierro en destierro», di esilio in esilio, partendo
ogni volta, cioè tornando ogni volta a morire, a sradicarsi, a
spogliarsi, a disfarsi di sé per ridursi a non essere niente, insomma
a «disnascere». Esilio vuol dire dis-nascere in un duplice
senso: sottrarsi al firmamento della nascita, a quell'identità
nota caduta intempestivamente su di noi, e insieme sottrarsi all'impulso
ad esistere, o meglio ad espandersi, proprio di tutto ciò che nasce,
mantenendosi sulla linea di demarcazione tra la vita e la morte. Ma esilio
vuol dire anche ri-nascere. Perché l'esiliato è stato rifiutato
dalla morte, è un sopravissuto a cui non resta che nascere di nuovo.
«Che altra possibilità avrebbe, se non nascere?» -
si chiede Zambrano nella sua Lettera sull'esilio del 1961. Dal momento
che non c'è più un'origine a cui far ritorno e a cui appellarsi,
il «rito della nascita» che si compie nell'esilio è
un «nascere attraverso sé», un partorirsi da sé,
proiettandosi más allá, oltre e al di là dei confini,
nell'infinito delle possibilità non attuate.
Nel compiere questa iniziazione, questo passaggio catartico,
l'esiliato smette di essere «per mantenersi nel punto privo di qualsiasi
appoggio, per perdersi nel fondo della storia, anche della propria, per
trovarsi un giorno in un solo istante, a galleggiare su tutte».
Accolto in sé il deserto, dove restano i frammenti di una patria
impossibile o di tutte le possibili patrie, il non-luogo dell'esilio diventa
l'isola galleggiante. Per María Zambrano l'isola utopica del non-luogo
che non c'è, ma che ci sarà, è Cuba. Profeticamente
la sua Cuba «segreta» è l'isola «non ancora nata»
che comincia a svegliarsi, è Cuba in attesa di Ernesto Guevara
e della rivoluzione.
L'isola fluttuante nell'oceano dello spazio siderale,
immersa nella luce più che nel mare, l'isola della «notte
oscura» popolata di luci nascoste, è per Zambrano l'isola
dell'aurora - «all'Avana per sorprendere l'alba mi sdraiavo sulla
riva del mare» - ed è il luogo aurorale della sua filosofia.
E perciò è anche luogo poetico, se poesia è «sentire
le cose in status nascens». Così scrive: «ho sentito
Cuba poeticamente, non come qualità, ma come sostanza». Innalzata
da luogo a metafora dell'esilio, dove si può imparare a vivere,
che vuol dire continuare a nascere, Cuba diventa anche metafora dell'Aurora
- un altro modo per Zambrano di dire filosofia.
«L'Aurora appare in tutto quello che ho scritto
e in tutto quello che ho vissuto. Si direbbe che mi piace la notte perché
è il prologo dell'Aurora». Anzitutto l'aurora si presta per
parlare di un altro esilio finora taciuto: quello filosofico. Come non
sentirsi in terra straniera nella filosofia - anche quella del novecento
- che ha astratto e separato il pensare dal sentire e che ha preso a modello
la luce accecante della ragione, una «chiarezza che respinge le
tenebre senza penetrare in esse, senza disfarle in penombra»? Ma
sarà questo l'unico modo di filosofare? O non è forse quello
scelto dall'uomo occidentale il quale ha tradotto l'indigenza che lo segna
dalla nascita nell'arroganza cinica dell'adolescente avido di esistenza
e di possesso? L'idealismo infantile - «radice guerriera di tutta
la cultura occidentale» - che nei nostri tempi si declina nel solipsismo
metafisico e nel nichilismo è la vertigine di libertà dell'uomo
che ha perso insieme «la madre e l'anima».
«Questo mondo è, risulta evidente, quello
degli uomini. Lei, da parte sua, sentiva di vivere oltre il mondo degli
uomini». Essere oltre non è però una sfida lanciata
al mondo maschile. Piuttosto Zambrano rivolge uno sguardo pietoso a questa
parte più sofferente e perciò più crudele dell'umanità.
E capovolge il rapporto maschile-femminile mostrando il «di più»
delle donne. Il «di più» è paradossalmente la
loro incapacità di svincolarsi dal sentire. Le donne sono rimaste
per millenni nel mondo del sacro, custodi «delle fonti misteriose
della vita», abitanti delle viscere, loro stesse «viscere
della Storia». Il «di più» della donna è
l'amore che chiede una resa della volontà e disfa l'eccesso di
«io». Relegata al sacro, segreta e appartata, la donna è
rimasta a «delirare» come Araceli, ma anche come María.
L'etimologia di delirare è uscire dal tracciato, perciò
perdersi. Ma per Zambrano perdersi è «aprire una strada diversa,
raccogliere una tradizione dimenticata». Sconfitta sul terreno della
filosofia occidentale, la donna sarà, proprio per questo, seme
di futuro anche per la filosofia. Cuba, esilio, aurora: incipit novae
philosophiae.
Il viaggio iniziatico dell'esilio, la rinascita della
filosofia è il passaggio attraverso le viscere della storia. Perché
nessuno «entra nella nuova vita senza passare per una notte oscura
[...], senza aver abitato una qualche sepoltura». Le catacombe di
Cuba e le catacombe di Roma sono luoghi eletti di questo passaggio che
è anche una attesa: è l'attesa dell'ora in cui fa giorno,
in cui cominciano a dileguare le ombre della notte, «dell'ora in
cui convengono passato e avvenire». Questo è dunque quel
che Zambrano intende per filosofia: «la trasformazione del sacro
nel divino», cioè la trasformazione di quel che è
viscerale, oscuro, passionale e che, in quanto tale, aspira ad essere
salvato nella luce del pensiero, che resta però luce della penombra,
«chiaro del bosco». La filosofia è questa trasformazione
femminile, esercizio amoroso di una ragione nuova che sa delicatamente
avvicinarsi alle zone più umili e oscure della vita per riscattarle.
Perché non è più possibile sopportare ancora la separazione
del pensare dal sentire, il divorzio della filosofia dalla vita. «La
filosofia - scrive - era per me irrinunciabile - ma ancor più irrinunciabili
erano la vita e il mondo». Perciò, conclude, «sono
sempre stata al limite».
Alla denuncia delle verità della scienza e della
filosofia ridotta a metodologia della scienza, «verità dure
e invulnerabile, sterili e impotenti», si accompagna la ricerca
febbrile di nuove forme e nuove vie del filosofare, tutte quelle che rinviano
ad un más allá, ad un «più in là»
e oltre, ad «un'altra vita in questo mondo», ad una nuova
possibilità di nascita uscendo da sé e oltrepassandosi.
Perciò anche - perché no? - la mistica, che indica il luogo
in cui si può abitare il proprio tempo senza appartenervi totalmente,
e tutte quelle forme da sempre esiliate. Anche del sogno, dato che «siamo
figli dei nostri sogni». Purché la filosofia si faccia «guida»
della vita che comunque - scrive in Chiari del bosco - «germoglia
sempre verso l'alto, cerca le altezze».
Ma Zambrano non è una novella Diotima che lamenta
la mancanza d'anima della filosofia. Se proclama la propria ostilità
all'idealismo, se prende distanza dal pensiero della crisi, non è
neppure semplicemente una fenomenologa né una psicologa esistenziale.
Il suo camminoVerso un sapere dell'anima ci vieta una definizione sbrigativa
e ci induce a una meditazione più attenta, proprio perché
ci porta a ritrovare il contatto con il possibile, con quel che non immaginavamo
potesse toccarci e rallegrarci.
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