Natalia Robusti
Cristina Campo, GLI IMPERDONABILI
Adelphi 1987
"Due mondi - e io vengo dall'altro"
- scrive Cristina Campo.
Come se i mondi evocati fossero ben più di due, e uno di questi
fosse tutto suo; il mondo terzo di colei che guarda l'uno e l'altro
con perfetta, eguale, iper-reale limpidezza di sguardo. È il
mondo di Cristina (Vittoria Guerrini il suo vero nome) che scrive con
perfetta, unica - quasi sovrannaturale - limpidezza di voce.
D'altra parte è lei stessa, nel prologo al suo libro Gli imperdonabili,
edito da Adelphi, a scriverlo: "Pure, con diversi pretesti e
sotto vari colori, mi sembra che il libro ripeta da un capo all'altro
un unico discorso (
) un piccolo tentativo di dissidenza dal gioco
delle forze, 'una professione di incredulità nell'onnipotenza
del visibile'".
E dopo tanti anni, anni in cui il visibile è divenuto onnipresente
oltre che onnipotente, provo lo stesso conforto nel leggere questo libro,
o meglio, nell'averlo tra le mani; perché io, in questo mondo,
non ho mai finito di leggerlo.
In tutto avrò letto poco più della metà delle sue
pagine, a caso qua e là. E' però consumato come se l'avessi
fatto decine di volte, ed è spesso sottolineato.
Ogni tanto ci riprovo: apro una pagina a caso e ogni volta rimango incollata
alle prime frasi lette, incapace di separarmene, di avanzare e leggere
oltre.
Rimango ancorata a quello che dice e a come lo scrive: "Non è
il sogno a fermarci e tanto meno il risveglio; è il 'non licet'
della pienezza sovrabbondante, la quasi mortale felicità dello
sguardo senza possesso."
La sensazione è che proprio lì, dove io arrivo con il
fiato corto, come al termine di una salita, lì dove poteva esserci
una pausa, una sosta se non proprio la conclusione di qualcosa, da quel
punto preciso Cristina Campo parte, inizia, e lo fa con una rapidità,
accuratezza e determinazione inesorabili.
E' una dimensione verticale in cui anziché alla caduta nell'abisso
poetico (mi viene in mente solo un'altra voce capace di questo effetto:
Marina Cvetaeva) la parola procede a un'ascesa repentina, quasi istantanea:
due parole, tre al massimo.
La cosa stupefacente è che non si tratta di versi, aforismi o
poesie, ma di brani in prosa; a volte veri e propri saggi brevi.
C'è una furia fanciullesca tenuta con una briglia cortissima,
nelle sue parole, una fede incrollabile eppure capace di tentennare
al minimo scarto incontrato, non certo per cambiare direzione, piuttosto
per fissarla in maniera più nitida: "niente di più
immobile di una freccia in volo."
Il risultato è che a ogni possibile intoppo, a ogni ostacolo,
la parola e il pensiero che si muovono all'interno del testo si fanno
più affilati, dettagliati e precisi. Direi acuminati.
Ed è ancora lei, nel citare un poeta di cui non fa il nome, a
illuminare sotto un cono di luce bianca, abbagliante, il tentativo incessante
di una vita dedicata a una sola, irraggiungibile meta: "Sottrarsi
al gioco delle circostanze affinché nulla ci raggiunga, fuorché
l'inevitabile."
Le circostanze sono vuoto scialacquio di tempo, inutile sotterfugio
che a nulla conduce. Inevitabile è la perdita. Impossibile -
sembra - sottrarsi ad essa. Conviene dunque, in attesa che ci raggiunga,
concentrarsi su questo e questo soltanto.
Cristina Campo parte da qui.
Oltrepassa le leggi della necessità, dell'ovvietà e anche
della ragione combattendole sul loro stesso piano, sull'identico loro
terreno, con una serie inarrestabile di parole che, come postulati matematici,
avanzano in funzione della proprietà transitiva, ed enunciano
una sola, ipnotica e conclusiva formula: è dato ciò che
è dato ed è aggiunto ciò che è tolto.
La bellezza - l'amore, la quiete, la passione - è guardata, abbracciata
e lasciata due volte, al di là di ogni ragionevole dubbio: nell'attimo
della sua apparizione e nell'attimo della sua perdita: "Sono,
in realtà, occhi eroici. Hanno guardato la bellezza e non ne
sono fuggiti. Hanno riconosciuto la sua perdita sulla terra, e in grazia
di ciò l'hanno guadagnata alla mente."
E se in questo nucleo sta la sua presunta, imperdonabile e proclamata
colpa - poiché per non essere perdonati occorre innanzitutto
essere colpevoli di qualcosa - l'accusa si ribalta in difesa.
In difesa degli occhi, ancor prima che della voce; dei suoi occhi di
bambina sana e intatta, che guardava dalla finestra di casa decine di
persone storpiate dalla malattia, ospiti del reparto di ortopedia dell'Ospedale
Rizzoli di Bologna in cui la sua famiglia viveva; dei suoi occhi di
bambina intatta eppure ammalata, sin dal grembo materno, per un grave
difetto cardiaco.
In difesa - soprattutto - di quanto i suoi occhi sapevano e potevano
vedere: quel "guadagno" della bellezza su questa terra che,
a prescindere da qualsiasi perdita, subìta o prossima, è
in ogni modo - in ogni mondo - grazia, "pienezza sovrabbondante",
possibilità di perdono
"La bellezza, innanzi tutto
(
) l'animo grande che ne è radice e l'umor lieto."
La potenza della bellezza, dunque, è affiancata alla bellezza
della bontà; e questo in una donna intransigente (si capisce
bene in certe parti del libro) e immagino anche sprezzante, che si esprimeva
con parole perfette e compiute, comunque gentili e aggraziate, attenta
com'era, nel modulare le proprie parole, a un uso limitato della forza,
là dove se ne avverte una notevole, determinante e consistente
presenza.
Era difatti - come ho letto nella sua recente biografia - una donna
per molti aspetti tormentata, che sapeva tuttavia restare calma nel
momento della calamità...
E non faccio fatica a crederlo: Finalmente il ciclone! - credo si sarà
detta, perchè lei, consapevole, ne era l'occhio.
Inutile sottolineare ulteriormente che tutta una vita così vissuta
non poteva che portare le sue conseguenze, ma è impossibile ignorare
ciò che nel leggere questo libro si sente in sottofondo tra le
pagine: il ritmo inarrestabile e tachicardico del suo cuore.
Il microrombo - labile tuono in lontananza - di un respiro che stenta
a stare dietro al passo, e il passo che invece di fermarsi in quel punto,
in quel luogo a maggior ragione di approdo, non si ferma, ma da lì
spicca un balzo, incurante delle ammonizioni.
In nome della legge prima, sia di Cristina che di Vittoria: "che
altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è
di questo mondo?"