Federica Sossi
Daniela Padoan, COME UNA RANA D'INVERNO
Bompiani, Milano 2004
"Lei non ci crederà, ma non
basta tutta la vita per raccontare Birkenau". Non i racconti di
tutta una vita, ma un dialogo a quattro, durato alcuni mesi, iniziato
il 20 gennaio 2002 e interrottosi il 10 novembre 2003 per andare in
stampa, è la lettura che ci regala Come una rana d'inverno,
e un patto d'ascolto, tre donne che raccontano e una donna che di tanto
in tanto chiede, offrendo anche a noi, lettori, la possibilità
di provare a stringere quel patto. Daniela Padoan, nella postfazione,
ci dice come è nata l'idea di questo libro e il suo farsi, insistendo
su quel patto, sulla necessità di una relazione preliminare al
racconto che si sviluppa nelle parole udite, e avvertendoci, pure, che
il filo da lei seguito per raccogliere quelle parole è a sua
volta un filo di relazioni. Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi,
sono le tre donne che raccontano, di Auschwitz, di Birkenau, di mesi
trascorsi come rane d'inverno, "vuoti gli occhi e freddo il grembo",
secondo l'espressione del loro comune interlocutore maschile, Primo
Levi, evocato già dal titolo del libro come la quinta persona
che, indirettamente, partecipa al dialogo. Arrivate in età e
in periodi diversi, tutte e tre erano lì, con negli occhi il
fumo del crematorio, e nelle loro parole su quei mesi e sul dopo, grazie
alla presenza di chi le ascolta e chiede, si rimandano l'una all'altra,
nelle parole dette e nel riverberare dell'esperienza.
Ne emerge una singolare testimonianza, dalla lettura della quale si
intuisce il bisogno della vita intera a cui fa cenno Goti Bauer, per
raccontare la solitudine, la testa rasata, la nudità, il corpo
svuotato di ogni scintilla divina, il viaggio, la selezione e gli affetti
perduti già dalla prima selezione, le proprie compagne e le kapo,
gli stracci indossati, i piccoli gesti, o solo sguardi di solidarietà,
l'odore e il fumo del camino, sempre lì, dinanzi al volto, un'immagine
che "rappresenta la totalità delle emozioni che si possono
vivere, superata forse soltanto dalla paura che possa toccare a te".
Una ripetuta oscillazione, tra il qui della voce che racconta e il ricordo.
Un'oscillazione, ancora, tra singolarità e pluralità,
e pure tra due forme di pluralità: la pluralità di tutti
coloro che hanno vissuto quell'esperienza e la pluralità di tutte,
perché le tre testimoni che narrano di Auschwitz e di sé,
del dopo e del loro silenzio o del loro racconto nel dopo, del prima
e della loro vita già interrotta nella sua normalità dalle
leggi razziali del '38, sono tre donne. E perché il filo del
dialogo che intreccia le loro risposte ritorna su questa particolare
pluralità. "Senza dimenticare per un solo istante che l'obiettivo
dei nazisti era cancellare dal mondo gli ebrei, uomini o donne che fossero,
e che tutti, nell'inconcepibile orrore della persecuzione nazista, seguirono
lo stesso percorso di fame, tortura, sfruttamento e morte, riflettere
sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite
dalle donne, così come sul loro modo di opporre resistenza e
rendere testimonianza, può però servire ad allargare di
un poco l'ambito della riflessione". Sempre nella postfazione,
Daniela Padoan indica, infatti, alcuni vuoti o dimenticanze della storiografia
della Shoah, il fatto che le donne siano rimaste "pressoché
invisibili" nei libri e nelle riflessioni degli storici, e la limitazione
o l'appiattimento delle differenze che la sovrapposizione della presenza
femminile a quella maschile comporta: "i testimoni, i deportati,
i sopravvissuti, quasi che la tensione all'universale pretendesse il
sacrificio di rendere neutro il corpo e il linguaggio. In questa sovrapposizione,
però, si rischia di perdere una parte di dicibilità dell'esperienza
di metà degli esseri umani che hanno attraversato e sono stati
attraversati dalla Shoah".
Ed anche in questo caso, nella lettura dei racconti di risposta, siamo
rinviati a una o a più oscillazioni, di nuovo tra singolarità
e pluralità, ma tra singolarità e pluralità declinate,
questa volta, tutte al femminile, che riflettono e ci permettono di
riflettere tanto sulla pluralità quanto sulle singolarità
femminili di quell'esperienza e sulla testimonianza che di essa ci è
stata lasciata.