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GENERAZIONI.
BRANI DI UN'AUTOBRIOGRAFIA. Tutto meravigliosamente normale
di Valeria
Felsi
Appartengo
alla generazione degli anni ottanta, quando il passato prossimo era
un brutto ricordo da cancellare. Il decennio del benessere, della televisione,
la tolleranza omosessuale, le droghe e le campagne contro l’aids.
La generazione del disimpegno, la generazione in vacanza.. Siamo cresciuti
insieme alla rai, guardando Heidi e Candy Candy nel primo pomeriggio,
Zorro e Happy Days prima del carosello, i film di Walt Disney a Natale.
C’erano stati periodi molto tesi durante gli anni settanta, a
tavola vigeva una specie di coprifuoco durante il telegiornale che annunciava
notizie poco rassicuranti. Si parlava di scala mobile, il problema delle
stragi, gli scioperi alla mirafiori, poi le br, il sequestro Moro, il
referendum sull’aborto ed il divorzio, e in ultimo, a chiudere
il decennio, la strage di Bologna. La mia famiglia tendeva all’armonia
degli opposti e ad un sano edonismo, il mondo era un bel posto, c’era
una certa fiducia nel progresso e si pensava che tutti gli esseri umani
fossero uguali., con una certa preferenza per quelli belli e felici.
A scuola, i professori non osavano parlare di argomenti attualità
perché rischiavano di essere accusati di fare politica e finire
nella lista delle persone sospette e pericolose. Si facevano discorsi
sulla pace, la guerra fredda e l’incubo del nucleare, c’era
un grande interesse per l’ecologismo e l’educazione sessuale
impartita con un certo imbarazzo dall’insegnante di scienze. Il
mio paese, lo stesso di Mario Moretti, era diviso per settori invisibili.
Il viale centrale era il ritrovo ufficioso dei cattolici, il lato destro
del cinema a luci rosse per i paninari con piumino monclair e scarpe
timberland, di solito ragazzi carini, ricchi e tendenzialmente di destra.
Il lato sinistro dello stesso cinema, era invece la zona dello sballo,
di quelli che si facevano le canne e non solo. C’era anche un
negozio di musica dove registravano cassette a tema, si trovavano dischi
abbastanza ricercati e soprattutto c’erano quelli che avevano
fatto il sessantotto. Quando entravi lì, voleva dire che tendenzialmente
eri di sinistra. Si respirava un’aria diversa, potevi stare le
ore a guardare i vinile, ti consigliavano e nel frattempo si raccontavano
certe storie. Era il periodo dei motorini ciao e delle vespe, ero stregata
dal film “Laguna Blu” girato in una qualche isola tropicale.
Quando era uscito “Il tempo delle mele” il cinema era talmente
pieno che eravamo rimasti a guardarlo in piedi lungo i corridoi laterali.
Mi ero anche comprata il 45 giri della colonna sonora, il leit motif
di tutte le feste con i compagni di classe “Dreams are my reality…”
Alle superiori mia madre aveva deciso che avrei dovuto studiare lingue,
nonostante il mio innato interesse per gli animali e la vita naturale.
Così mi iscrisse ad un liceo privato di Ancona a c.a 60 km da
casa. La filosofia della scuola era quella di preparare gli alunni al
mondo del lavoro, dar loro una specializzazione che li rendesse competitivi,
per cui mancava una certa attenzione per la “cultura generale”,
l’ora di educazione civica insieme a quella di religione erano
diventate una specie di intervallo prolungato. Era un luogo in cui regnava
una discreta ignoranza nel senso più proprio del termine: “ignorare”,
un diffuso menefreghismo supportato dall’estrazione mediamente
alto-borghese degli studenti. I professori erano finiti lì in
attesa di un ‘ruolo’ nella scuola pubblica oppure perché
non riuscivano a fare di meglio, e se non erano abbastanza competenti
ed autorevoli, diventavano le vittime di una classe crudele ed arrogante
come quella in cui mi trovavo. La maggior parte dei miei compagni era
in grado di sostituire i compiti in classe nella sala professori e di
contraffare i voti sui registri. Spesso, in attesa del treno di ritorno,
finivamo a rubare alla Standa o tentavamo l’autostop, quindicenni
spavalde ed ingenue, ci lasciavamo adescare da trentenni cocainomani
e privi di scrupoli; noi lo facevamo per gioco, per trasgressione, per
sperimentare il nostro potenziale seduttivo. Io e le mie amiche parlavamo
di ragazzi, delle prime esperienze sessuali per chi ce le aveva, avevamo
un diario personale al quale affidavamo i nostri segreti, era pieno
di cuori trafitti da frecce rosse, biglietti usati che ricordavano un
momento saliente di una qualche storia, i puntini delle i tondi come
palloncini. La domenica pomeriggio andavamo in discoteca, partecipavamo
ai giochi della gioventù con la scuola, soffrivamo per le delusioni
amorose e d’amicizia. Nel mio paese molti si facevano di eroina,
alcuni erano miei coetanei, ragazzi che conoscevo bene e che nel corso
degli anni avevano imboccato una “brutta strada”. Il che
voleva dire che c’era qualcosa che li rendeva irrimediabilmente
diversi da me, come se di colpo la zolla terrestre sulla quale ci trovavamo
fosse stata traversata da un fremito poi una frattura longitudinale
fosse apparsa in superficie, che si spalancava sull’abisso, e
correva in mezzo a noi cosi che le due metà della stessa terra
fossero strate trascinate in direzioni diverse da un invisibile movimento
magmatico nel profondo. Ci guardavamo allontanarci con un senso di impotenza
e rammarico, un che di ineluttabile che aveva a che fare con il corso
della storia ed altro ancora che a noi risultava assolutamente imperscrutabile.
Dopo due anni mi trasferii in una scuola pubblica sperimentale di Ascoli
che si trovava a 60 km di distanza come la precedente, ma nella direzione
opposta. Finii in un collegio di suore dalla quale fui espulsa a fine
anno e quindi i miei mi misero a pensione da una vecchietta sorda. Mi
sentivo sola, abbandonata a me stessa, ma ero anche più libera
degli altri coetanei, non avevo orari, nessuno che mi controllasse.
Essendo una città conservatrice e cattolica, i professori continuavano
ad evitare discorsi impegnati, però l’insegnante d’italiano
compensava la sua mediocrità intellettuale con uno spiccato senso
materno ed un certo intuito che la rendeva particolarmente sensibile
e protettiva nei miei confronti e delle altre due ragazze che vivevano
lontane da casa. Eravamo 3 elementi conturbanti, portatrici di caos
e novità, piombate li al terzo anno a turbare gli equilibri della
classe. La maggior parte delle compagne erano persone che provenivano
da ambienti contadini e da piccoli paesi dell’entroterra. Ci presero
subito in simpatia, loro offrivano semplicità ed una certa stabilità
di fondo, oltre alle merendine ed ai pranzi abbondanti. Noi in cambio
imprevisti ed una frizzante sregolatezza. Quello che sapevo del 68 era
che tutto era iniziato nelle università americane con i figli
dei fiori e le proteste contro la guerra in Vietnam e poi la cosa era
dilagata a Parigi con Sartre e l’esistenzialismo ed alla fine
era arrivata anche agli studenti italiani, c’erano molte assemblee
e tutti erano politicizzati. Ma soprattutto c’era stata la rivoluzione
sessuale, uomini e donne potevano amarsi carnalmente senza sottostare
ai rigidi dettami della morale, poi le femministe avevano deciso di
separarsi dai compagni ed avevano cominciato a lanciare slogan tipo
‘io sono mia’, ‘tremate tremate le streghe son tornate’
ma non è che avessero riscosso molto successo. Il risultato finale
di tutta la storia era che le scuole non erano più serie, c’era
il sei politico, la lotta armata e la droga. Le femministe, poi, venivano
presentate come donne arrabbiate, che probabilmente facevano poco sesso
e che non le voleva nessuno perché erano acide e poco femminili.
I nostri programmi scolastici non arrivavano mai alla storia contemporanea,
per cui le discussioni rimanevano appese per aria, non interessavano
a nessuno, eccetto me che ogni tanto le tiravo fuori nonostante l’insofferenza
dei professori e dei compagni.
[...]
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