Via Dogana n. 76 marzo 2006

 

GENERAZIONI. BRANI DI UN'AUTOBRIOGRAFIA. Tutto meravigliosamente normale
di Valeria Felsi

Appartengo alla generazione degli anni ottanta, quando il passato prossimo era un brutto ricordo da cancellare. Il decennio del benessere, della televisione, la tolleranza omosessuale, le droghe e le campagne contro l’aids. La generazione del disimpegno, la generazione in vacanza.. Siamo cresciuti insieme alla rai, guardando Heidi e Candy Candy nel primo pomeriggio, Zorro e Happy Days prima del carosello, i film di Walt Disney a Natale. C’erano stati periodi molto tesi durante gli anni settanta, a tavola vigeva una specie di coprifuoco durante il telegiornale che annunciava notizie poco rassicuranti. Si parlava di scala mobile, il problema delle stragi, gli scioperi alla mirafiori, poi le br, il sequestro Moro, il referendum sull’aborto ed il divorzio, e in ultimo, a chiudere il decennio, la strage di Bologna. La mia famiglia tendeva all’armonia degli opposti e ad un sano edonismo, il mondo era un bel posto, c’era una certa fiducia nel progresso e si pensava che tutti gli esseri umani fossero uguali., con una certa preferenza per quelli belli e felici.
A scuola, i professori non osavano parlare di argomenti attualità perché rischiavano di essere accusati di fare politica e finire nella lista delle persone sospette e pericolose. Si facevano discorsi sulla pace, la guerra fredda e l’incubo del nucleare, c’era un grande interesse per l’ecologismo e l’educazione sessuale impartita con un certo imbarazzo dall’insegnante di scienze. Il mio paese, lo stesso di Mario Moretti, era diviso per settori invisibili. Il viale centrale era il ritrovo ufficioso dei cattolici, il lato destro del cinema a luci rosse per i paninari con piumino monclair e scarpe timberland, di solito ragazzi carini, ricchi e tendenzialmente di destra. Il lato sinistro dello stesso cinema, era invece la zona dello sballo, di quelli che si facevano le canne e non solo. C’era anche un negozio di musica dove registravano cassette a tema, si trovavano dischi abbastanza ricercati e soprattutto c’erano quelli che avevano fatto il sessantotto. Quando entravi lì, voleva dire che tendenzialmente eri di sinistra. Si respirava un’aria diversa, potevi stare le ore a guardare i vinile, ti consigliavano e nel frattempo si raccontavano certe storie. Era il periodo dei motorini ciao e delle vespe, ero stregata dal film “Laguna Blu” girato in una qualche isola tropicale. Quando era uscito “Il tempo delle mele” il cinema era talmente pieno che eravamo rimasti a guardarlo in piedi lungo i corridoi laterali. Mi ero anche comprata il 45 giri della colonna sonora, il leit motif di tutte le feste con i compagni di classe “Dreams are my reality…”
Alle superiori mia madre aveva deciso che avrei dovuto studiare lingue, nonostante il mio innato interesse per gli animali e la vita naturale. Così mi iscrisse ad un liceo privato di Ancona a c.a 60 km da casa. La filosofia della scuola era quella di preparare gli alunni al mondo del lavoro, dar loro una specializzazione che li rendesse competitivi, per cui mancava una certa attenzione per la “cultura generale”, l’ora di educazione civica insieme a quella di religione erano diventate una specie di intervallo prolungato. Era un luogo in cui regnava una discreta ignoranza nel senso più proprio del termine: “ignorare”, un diffuso menefreghismo supportato dall’estrazione mediamente alto-borghese degli studenti. I professori erano finiti lì in attesa di un ‘ruolo’ nella scuola pubblica oppure perché non riuscivano a fare di meglio, e se non erano abbastanza competenti ed autorevoli, diventavano le vittime di una classe crudele ed arrogante come quella in cui mi trovavo. La maggior parte dei miei compagni era in grado di sostituire i compiti in classe nella sala professori e di contraffare i voti sui registri. Spesso, in attesa del treno di ritorno, finivamo a rubare alla Standa o tentavamo l’autostop, quindicenni spavalde ed ingenue, ci lasciavamo adescare da trentenni cocainomani e privi di scrupoli; noi lo facevamo per gioco, per trasgressione, per sperimentare il nostro potenziale seduttivo. Io e le mie amiche parlavamo di ragazzi, delle prime esperienze sessuali per chi ce le aveva, avevamo un diario personale al quale affidavamo i nostri segreti, era pieno di cuori trafitti da frecce rosse, biglietti usati che ricordavano un momento saliente di una qualche storia, i puntini delle i tondi come palloncini. La domenica pomeriggio andavamo in discoteca, partecipavamo ai giochi della gioventù con la scuola, soffrivamo per le delusioni amorose e d’amicizia. Nel mio paese molti si facevano di eroina, alcuni erano miei coetanei, ragazzi che conoscevo bene e che nel corso degli anni avevano imboccato una “brutta strada”. Il che voleva dire che c’era qualcosa che li rendeva irrimediabilmente diversi da me, come se di colpo la zolla terrestre sulla quale ci trovavamo fosse stata traversata da un fremito poi una frattura longitudinale fosse apparsa in superficie, che si spalancava sull’abisso, e correva in mezzo a noi cosi che le due metà della stessa terra fossero strate trascinate in direzioni diverse da un invisibile movimento magmatico nel profondo. Ci guardavamo allontanarci con un senso di impotenza e rammarico, un che di ineluttabile che aveva a che fare con il corso della storia ed altro ancora che a noi risultava assolutamente imperscrutabile.
Dopo due anni mi trasferii in una scuola pubblica sperimentale di Ascoli che si trovava a 60 km di distanza come la precedente, ma nella direzione opposta. Finii in un collegio di suore dalla quale fui espulsa a fine anno e quindi i miei mi misero a pensione da una vecchietta sorda. Mi sentivo sola, abbandonata a me stessa, ma ero anche più libera degli altri coetanei, non avevo orari, nessuno che mi controllasse. Essendo una città conservatrice e cattolica, i professori continuavano ad evitare discorsi impegnati, però l’insegnante d’italiano compensava la sua mediocrità intellettuale con uno spiccato senso materno ed un certo intuito che la rendeva particolarmente sensibile e protettiva nei miei confronti e delle altre due ragazze che vivevano lontane da casa. Eravamo 3 elementi conturbanti, portatrici di caos e novità, piombate li al terzo anno a turbare gli equilibri della classe. La maggior parte delle compagne erano persone che provenivano da ambienti contadini e da piccoli paesi dell’entroterra. Ci presero subito in simpatia, loro offrivano semplicità ed una certa stabilità di fondo, oltre alle merendine ed ai pranzi abbondanti. Noi in cambio imprevisti ed una frizzante sregolatezza. Quello che sapevo del 68 era che tutto era iniziato nelle università americane con i figli dei fiori e le proteste contro la guerra in Vietnam e poi la cosa era dilagata a Parigi con Sartre e l’esistenzialismo ed alla fine era arrivata anche agli studenti italiani, c’erano molte assemblee e tutti erano politicizzati. Ma soprattutto c’era stata la rivoluzione sessuale, uomini e donne potevano amarsi carnalmente senza sottostare ai rigidi dettami della morale, poi le femministe avevano deciso di separarsi dai compagni ed avevano cominciato a lanciare slogan tipo ‘io sono mia’, ‘tremate tremate le streghe son tornate’ ma non è che avessero riscosso molto successo. Il risultato finale di tutta la storia era che le scuole non erano più serie, c’era il sei politico, la lotta armata e la droga. Le femministe, poi, venivano presentate come donne arrabbiate, che probabilmente facevano poco sesso e che non le voleva nessuno perché erano acide e poco femminili. I nostri programmi scolastici non arrivavano mai alla storia contemporanea, per cui le discussioni rimanevano appese per aria, non interessavano a nessuno, eccetto me che ogni tanto le tiravo fuori nonostante l’insofferenza dei professori e dei compagni.
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