Libreria delle donne di Milano

Alias, 19 settembre 2004

Comari, co-madri
di Gian Paolo Griggio*

Comàri si dice della levatrice nei miei paesi del Friuli, e il nostro dire non è par-
ticolare. Tante altre lingue sottolineano allo stesso modo il rapporto che viene a crearsi fra la donna che partorisce e la donna che in quel contesto l’assiste e
l’ asseconda. La relazione che si determina intorno all’evento del nascere, dunque, viene pensata e collocata entro la griglia dei rapporti di parentela, arricchendo il quadro degli status reciproci che richiedono buoni sentimenti e obblighi vicendevoli di assistenza e di vicinanza. La comàri di nascita si affianca in questo alle co-madri del matrimonio, alle co-madri che un tempo si sceglieva-
no fra le amiche nel giorno di San Giovanni Battista, alle madrine legate agli altri riti di passaggio, alle altre tappe fondamentali dell’arco del vivere. Un raddoppio dei vincoli di parentela, tanto più importante quanto più difficile e a rischio era la qualità della vita.
Si parla di parentela simbolica, n antropologia, e di parentela«spirituale»; ma nel caso delle levatrici il riconoscimento del legame è corporale prima che spirituale; è centrato sul corpo femminile, nel momento della sua realizzazione più propria, e su un evento come il parto che più corporale non potrebbe essere. La nascita, da questo punto di vista, si configura come una sorta di evento trinitario. Non c’è solo la nuova relazione di una madre con il proprio figlio, c’è anche l’esigenza di una terza figura, della co-madre. Di fronte alla nuova piccola creatura si è madri in due, si partorisce in due.
Non solo la radice della discendenza, ma anche la radice della solidarietà sta qui, e si costituisce intorno all’evento primario da cui si producono continuità di vita e di comunità.
Da alcuni tempi Giuliana Musso sta portando in giro lo spettacolo Nati in casa, per la regia di Massimo Somaglino. Nati in casa è costruito intorno alle biografie
delle levatrici di qualche decennio fa; è dedicato alle loro vite difficili e oppone l’umanità del nascere in casa d’un tempo alla spersonalizzazione del parto in ospedale.
Teatro di memoria; e la reazione degli spettatori (e delle spettatrici più in particolare) mostra quanto sia sentito il bisogno di recuperare una dimensione di umanità distrutta dall’asettica e disinfettata atmosfera della medicina coniugata al maschile.
L’eroica levatrice di cui racconta Nati in casa, donna a fianco delle donne, sempre sollecita a fornire esperienza ed assistenza, è però figura recente. Rimanda a una professione che nel corso dell’Ottocento era già stata addomesticata, resa subalterna e posta sotto il controllo della scienza medica. Le fotografie di Danilo De Marco richiamano invece una situazione ancora anteriore; rimandano, per la cultura popolare d’Europa, a un ruolo antico anco-
ra più pregnante e ci sollecitano a risalire il tempo, a ritrovare le co-madri nel cuore del conflitto che le vide opposte al mondo dei medici e dei preti, costrette a cedere il sapere e il potere che detenevano sul corpo femminile, sia sul
versante terapeutico che su quello simbolico.
Che cosa si ritrova in Europa, nel cuore di quel conflitto, proprio nel tempo in cui le squadre di conquistadores assoggettavano e tentavano di addomesticare nelle Americhe le culture indigene?
Un caso per tutti. Il 25 settembre 1650 Angioletta delle Rive racconta così di sé al frate inquisitore del Patriarcato di Aquileia: «Io nel corso di mia vita per vivere ho fatto ogn’arte: ho filato la lana amulinello, ho fatto le reti (da pesca) per altri e per casa, tessuti panni di lana, fatti bozzolai - dolci – per vendere; ho governato gl’ammalati in casa d’altri per mercede e anco in casa mia, i poveri per l’amor di Dio qualche volta. Anco ho condotto in casa mia le meretrici per levarle dal malfare e metterle a star con altri honoratamente.
Ho governato le donne di parto et i suoi putti».
Quello di Angioletta è un sapere terapeutico complesso: non assiste solo ai parti e non «governa» solo i frutti del parto; sa anche manipolare i corpi e «drizzare le
ossa»; conosce le virtù delle erbe, sa quando coglierle e come, quando e come somministrarle; sa diagnosticare la natura delle malattie (anche il loro prodursi
dal sottobosco delle invidie e dei rancori all’interno della comunità); sa trattare i
morti e con il morto. Possiede un sapere articolato, ma è portata davanti all’inquisitorere con l’accusa di essere strega. Di essere donna che produce sventura, cioè, e non guarigione, da cui promanano disgrazie e non salute.
Questo rovesciamento di ruoli - da terapeuta a strega - è sintomatico e perciò Angioletta mi pare emblema delle tante altre donne che, nel tempo e in cento culture, si sono trovate nella sua stessa ambigua posizione: sollecitate da
un lato dalle comunità e dal gruppo femminile ad assumere un ruolo ausiliario indispensabile e prezioso; guardate con sospetto dal mondo maschile, dall’altro,
soprattutto nei momenti in cui questo mondo decide di governare in proprio non solo l’universo del politico e dell’economico, ma anche quello del simbolico, ri-
strutturandolo a propria misura.
Allora tutto ciò che ruota intorno al corpo, e al corpo fecondato che genera, diventa oggetto di attenzione sospettosa e di controllo.
Impadronirsi e assoggettare terra e corpi femminili diventano pratiche dello stesso ordine. Il percorso di controllo sulle madri passa anche attraverso il controllo sulle co-madri. Viene rimarcato sempre più il ruolo ambiguo delle
donne che conoscono i segreti del far nascere, il confine fra «donne di valore» e streghe si fa stretto.
Esse sanno far venire alla luce i piccoli uomini, ma sanno anche interrompere gravidanze e procurare aborti; accompagnano le madri nello sforzo di far superare ai piccoli il rischioso primo periodo di vita, ma si accentrano su di loro
i sospetti che maturano nei contesti ad altissima mortalità infantile.
Al sapere intorno alla nascita aggiungono anche quello intorno alla morte: accudiscono gli ammalati, assistono i moribondi, lavano e preparano i corpi dei defunti: ma possiedono anche l’arte (e la forza) di abbreviare le agonie e di
difendere case e persone dal ritorno vendicativo di spiriti scontenti.
Il 1° ottobre 1587 il pievano di Monfalcone (al confine fra mondo romanzo e mondo slavo) denuncia all’inquisitore Caterina, «ostetrice di figliolini»: «Havendo partorito una donna un fanciullo coi piedi avanti, questa rea femina
fatochiera persuase sua madre he se ella non voleva che questo tal fanciullo fosse benandante - controstregone - o strigone, lo facesse inspedarlo in uno spiedo da fuoco et aggirarlo non so quante volte al fuogo». Interrogata, Cate-
rina afferma che «le comare vecchie hanno sempre havuto per costume di inspedare - legare allo spiedo - le creature che nascono con li piedi avanti et girarle tre volte al foco, acciocché non vadino in streghezzo», non entrino
cioè nel mondo ambiguo delle persone dotate del potere straordinario di nuocere alla comunità.
Il ruolo medico e paramedico riconosciuto, controllato dall’istituzione sanitaria, assolto dalle levatrici negli ultimi due secoli ha finito con il deformare anche il nostro sguardo, facendoci dimenticare esperienze come quella raccontata da Caterina. Siamo spinti a interpretare le cento Caterine e Angiolette che i documenti ci rimandano in termini prevalentemente terapeutici, portati a sotto-
lineare soprattutto i saperi legati alla natura e le conoscenze da utilizzare nella manipolazione dei corpi. Dimentichiamo tanti aspetti legati al potere che era riconosciuto, nella cultura contadina, al corpo femminile in sé, per cui se
ne esibivano alcune parti per cacciare i bruchi dagli orti e la grandi ne dai raccolti, per garantire fertilità alle case e ai campi, per tutelare la lattazione delle madri nelle case, nelle stalle e negli ovili. Lo sguardo rivolto ai soli saperi e po-
teri terapeutici rischia di far passare in secondo piano la funzione rituale delle co-madri: la funzione di intermediarie simboliche fra natura e sovra-natura, fra la comunità e la madre che sta per gererare.
Nascere è operazione complessa. E alla co-madre è affidato non solo il sapere della protezione per madre e neonato, non solo il sapere della loro preservazione, ma anche il sapere della separazione e della integrazione: della separazione dal «prima» per il neonato e dallo stato di specialità e di marginalità della madre, della integrazione comunitaria di entrambi. La co-madre è figura della comunità.
Governa le pratiche che regolano il taglio del cordone ombelicale (il taglio disgiuntivo per definizione, il più carico di valenze simboliche, metafora di ogni altro taglio, di ogni altro atto di separazione tra un prima e un dopo, tra il vec-
chio e il nuovo); governa le pratiche di trattamento della placenta, che è quanto madre e figlio hanno ancora in comune, elemento per cui madre e figlio sono ancora legati fra loro. Governa gli atti primari per la costituzione dell’identità del neonato e per la reintegrazione della madre nella comunità.
Levatrice, in italiano, richiama il gesto rituale del sollevare il neonato e della sua presentazione al mondo, del suo riconoscimento sociale. La levatrice toglie e accoglie, sol-leva e al-leva il neonato, facendosi responsabile del gesto che costituisce la dimensione verticale propria dell’essere umano.
Ma anche altre funzioni e altri rituali, come richiama il caso di Caterina di Monfalcone. La valutazione dell’integrità del neonato (con la decisione conseguente di lasciar vivere o di sopprimere) contempla anche la lettura dei
«segni di nascita». Anche in Friuli, in Istria e in Dalmazia era la co-madre che si affacciava alla finestra e gridava alla comunità il destino futuro di stregone o contro-stregone del neonato, quando un brano di membrana amniotica - di camicia - restava attaccato al piccolo; era lei a interpretare il destino futuro dalla forma dei piedi e delle vertebre sacrali («è nato con la coda!»), dall’ora e dalle modalità di nascita.
Intorno al nascere e al morire addensano ruoli, gesti e significati simili che affratellano le culture e restituiscono memorie e destini comuni. Nell’ottobre di due anni fa, la tragedia del sommergibile Kursk. Nel Requiem per un marinaio, Evgenij Evtushenko così allora ha scritto:
Nel cuore del cuore della Russia / nella casupola di legno / in cui nacque il poeta Serghej Esenin / persino le assi del pavimento cantano / sotto i passi in punta di piedi dei bambini / un canto delicato più bello di quello degli uccelli. /
Perché? / Perché in cantina sotto il pavimento / il cordone ombelicale di un poeta / fu sotterrato. / E ovunque si trovasse, / a Mosca o a New York, / il suo cordone ombelicale lo tirava verso casa...
Tagliare e trattare il cordone era compito della co-madre. In molte culture, alla pratica del seppellimento del cordone corrisponde la pratica della conservazione del suo moncone che resta sul neonato e dopo qualche giorno secca e cade. Oggi, da noi, solo fra gli zingari le donne si danno ancora premura di conservare, avvolto nel filo di rito, quel pezzo di cordone che verrà poi consegnato al ragazzo perché lo porti su di sé.
Tutti gli altri hanno dimenticato gesti e riti che accompagnavano il nascere e definivano i legami di disgiunzione e di congiunzione grazie ai quali trovava senso l’entrare nella vita e nella comunità.
Presso altre culture la memoria è più tenace, per fortuna, e da queste immagini di madri e co-madri delle montagne dell’Ecuador ci viene restituita una dimensione perduta.

*Antropologo, docente all’ Università di Udine