|
dal settimanale
online AREA (Numero
10 Anno 7 del 05 marzo 2004)
La resistenza
delle donne
Tiziana Filippi
Non è un caso, credo, che alcuni mesi fa sia stato ripubblicato
per Bollati Boringhieri La resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane
piemontesi di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Il libro, uscito nel
1976 presso una casa editrice ormai scomparsa, era stato accolto con grandi
consensi ed entusiasmo. Letto e riletto, fotocopiato infinite volte per
sè o per altre. La resistenza taciuta, come racconta Anna Bravo
nella sua prefazione alla recente riedizione, era anche figlia del femminismo:
nasceva dal desiderio di tentare un'indagine nuova, per certi aspetti
anche imbarazzante, della storia della resistenza. Per trent'anni si era
parlato genericamente della presenza femminile nella resistenza nei termini
di un contributo sì prezioso, ma fondamentalmente subalterno e
secondario. Ed ecco che grazie alla narrazione autobiografica di alcune
partigiane viene testimoniata l'essenzialità e la qualità
diversa della partecipazione femminile alla resistenza.
Da questi documenti risulta con evidenza che senza le donne la resistenza
non avrebbe potuto esserci. Nella massima parte però ledonne, pur
rischiando tanto quanto gli uomini, scelsero di non impugnare le armi,
partecipando a pieno titolo alla resistenza ma dandole il senso più
di resistenza civile che di guerra di resistenza.
Per vedere che le donne nella storia della resistenza c'erano state e
da protagoniste bisognava però saper rinunciare a quel criterio
interpretativo della realtà storica che mette al primo posto le
armi e la politica insenso stretto, e che mette ai margini ogni altro
agire.(Basti pensare che per essere dichiarato partigiano bisognava aver
portato le armi almeno tre mesi in una formazione regolarmente inquadrata
nelle forze riconosciute e aver preso parte ad almeno tre azioni di guerra
o di sabotaggio).
Una speciale incapacità nel vedere ciò che le donne sono
e fanno sembra perseguitarci anche oggi. Mi riferisco in particolare alla
crescita enorme dell'occupazione femminile che si è avuta negli
ultimi decenni e che invece di essere sottovalutata meriterebbe di essere
interrogata senza insistere, come di consueto, nel paragone con le posizioni
maschili nel lavoro.
Brevemente. Da più di dieci anni in Europa (Svizzera compresa)
l'aumento della popolazione attiva si basa sul fortissimo incremento dei
tassi di attività femminile. In particolare le donne, grazie alla
loro crescente scolarizzazione, sono entrate in quei settori che in in
questi anni hanno conosciuto una forte evoluzione come il terziario avanzato
e i servizi.
Il filosofo Gilles Deleuze ha chiamato questo processo "divenire
donna del lavoro". Le filosofe della comunità Diotima di Verona
si sono espresse in termini di "rivoluzione inattesa".
Il sociologo Manuel Castells ne ha analizzato la dimensione globale (la
femminilizzazione del lavoro non riguarda solo il cosiddetto mondo sviluppato)
mettendolo in relazione con la modificazione del rapporto tra i sessi,
e la crisi della famiglia patriarcale.
Ci sono delle similitudini interessanti tra le modalità in cui
le donne hanno partecipato alla resistenza e la condizione femminile attuale
nel mondo del lavoro. La partecipazione delle donne alla resistenza potrebbe
essere significativamente descritta facendo ricorso alle parole che ci
servono per parlare delle nuove forme del lavoro contemporaneo, come un
agire polivalente, il dispiegarsi di una forza-lavoro polioperativa, caratterizzata
da grande adattabilità e flessibilità."In questo fare
e in questo organizzare - racconta la partigiana Maria Rovano (Camilla)
- io ero tutto e ero niente".
Come staffette, le donne facevano tutto il lavoro di comunicazione e di
informazione: garantivano (rischiando tantissimo) una rete fittissima
di collegamenti senza la quale l'organizzazione non avrebbe potuto funzionare.
Portavano e distribuivano oltre ai viveri e agli indumenti per i partigiani,
il materiale di propaganda clandestino. Trasportavano armi e munizioni,
e nello stesso tempo si prodigavano per risolvere anche le questioni private
dei partigiani. Organizzavano il soccorso e il servizio di assistenza
ai feriti nelle case più sicure e negli ospedali.
Nelle fabbriche organizzavano sabotaggi e promuovevano scioperi. Facevano
manifestazioni (anche esclusivamente femminili) contro il caro vita, assalti
ai magazzini dei viveri, cercando di svolgere delle azioni che fossero
in favore anche delle famiglie più bisognose. Inoltre o per iniziativa
dei gruppi di difesa della donna o di singole, le partigiane si occupavano
di identificare i cadaveri, li componevano, avvertivano e assistevano
i famigliari dei caduti, piangevano con loro i morti.
Tutto ciò vuol dire che le partigiane, mentre rendevano possibile
la resistenza, operavano per garantire la continuità non solo materiale
ma anche simbolica dell'intera comunità. Il fatto per esempio,
importantissimo, che le partigiane facessero in modo che il lutto potesse
essere condiviso significava tenere in vita pratiche di relazioni umane
civili in piena guerra, e con ciò alimentare il pensiero che non
tutto era insensato e che la guerra avrebbe avuto una fine.
(Perché una cosa abbia fine bisogna essere capaci di immaginare
che abbia una fine.). La partigiane che si sono raccontate ne La resistenza
taciuta sono tutte concordi nel dire che tutto quello che hanno fatto
è stato ben poco riconosciuto. D'altra parte tutte hanno dichiarato
di non essere state interessate a ricevere dei titoli onorifici, a ottenere
delle posizioni di comando, o a fare carriera (con buona pace del femminismo
di stato). Si aspettavano però altre, diverse, forme di riconoscimento.
Va da sè che se è una logica militare a prevalere (e che
va di pari passo con l'idea che la politica sia solo quella che si fa
nei partiti), non si può descrivere l'agire delle donne nella resistenza
se non come il naturale prolungamento, al di fuori del privato, dei classici
ruoli di assistenza e di cura. La stessa cosa vale pressappoco per quella
che è la posizione attuale delle donne nel mondo del lavoro. Se
abbiamo come punto di riferimento qualitativo il lavoro maschile, se ragioniamo
secondo un modello ideale, definito astrattamente per legge, di suddivisione
perfettamente paritaria tra uomini e donne in ogni contesto lavorativo,
rischiamo di non vedere il mutamento epocale che è avvenuto in
questi anni nella condizione lavorativa femminile. Sarebbe meglio, invece
di attardarsi a ragionare nei termini di "le donne non hanno ancora"
(l'uso dell'avverbio ancora è di rito), cominciare a interrogare
il senso differente che il lavoro ha per le donne, cominciare a capire
le esperienze concrete di lavoro delle singole: i bisogni, le necessità,
i desideri che sono messi in campo, le contraddizioni e i fallimenti che
non sono descrivibili nei termini consueti della discriminazione.
Che il lavoro per le donne sia una dimensione molto complessa e piena
di contraddizioni, non riassumibile nei termini semplicistici della discriminazione,
emerge per esempio molto bene nel libro curato da Adriana Nannicini Le
parole per farlo. Donne al lavoro nel postfordismo, che raccoglie la narrazione
delle esperienze di lavoro di alcune donne, tutte diverse per età,
reddito, formazione e professione.
La questione centrale è che a tutte queste donne che raccontano
di sé piace lavorare e che dal lavoro si aspettano tanto: vedono
il lavoro come un' occasione di libertà, di indipendenza, un momento
dove possono impegnarsi con passione e dimostrare la propria bravura,
produrre cose sensate. Il lavoro è vissuto come un'occasione di
esplicitazione della propria identità. Nello stesso tempo tutte
queste donne sentono che il lavoro sta diventando sempre più pervasivo,
al punto da mettere in causa la loro integrità personale. Il tratto
che le accomuna è un connubio di stanchezza e ansia: il tempo di
vita viene letteralmente colonizzato e saccheggiato dalle richieste di
flessibilità e di dedizione da parte delle aziende. Una particolare
forma di sofferenza per queste donne è la crescente difficoltà
nel coltivare relazioni concrete improntate sulla fiducia, che costituisce
il modo femminile di stare al mondo insieme con gli altri: flessibilità
e precarietà tendono a lasciare spazio solo per delle relazioni
temporanee superficiali, umanamente povere, se non anche cinicamente strumentali.
Ed è forte il rischio di rimanere intrappolate in una specie di
individualismo esistenziale: il lavoro non è l'auspicato incontro
con il mondo, ma può paradossalmente trasformarsi in un'esperienza
privata e solitaria.
È ormai noto quanto in epoca postfordista sia centrale per il funzionamento
del processo economico quel tipo particolare di lavoro che riguarda tutti
i servizi alle persone e tutte le attività comunicative-relazionali
dentro e fuori la sfera immediatamente produttiva. Si tratta di lavoro
vivo che mette all'opera qualità cognitive e relazionali, competenze
linguistiche e capacità empatiche : lavoro vivo spesso non distinguibile
da altre forme di lavoro, e ciò nonostante faticoso, molto faticoso.
Proprio grazie a una radicata confidenza con il lavoro di cura e domestico
le donne sono portatrici di quelle qualità (difficilmente identificabili
formalmente) tanto richieste nelle nuove forme del lavoro, e per questo
costituiscono una manodopera preziosa nel mercato del lavoro.
A ben guardare in questi anni non si è avuta una mancata parificazione
delle donne con le posizioni maschili, si è verificata piuttosto
una sorta di parificazione degli uomini alle condizioni non regolamentate
e precarie tipiche dei lavori storicamente femminili.
Molte donne oggi più che essere discriminate, escluse, sono piuttosto
oppresse o minacciate dal delinearsi di nuove forme di sfruttamento delle
loro soggettività differenti e delle competenze specificatamente
femminili. I nuovi lavori - dicono le donne che parlano nel libro di Nannicini
- chiedono e sollecitano "le capacità femminili maturate storicamente
e le divorano un giorno dopo dopo l'altro, un'ora dopo l'altra, in casa
e fuori, spesso senza che lascino traccia, apparentemente, né sul
volto del mondo né sulla figura di sé che ciascuna vuole
costruire, esattamente come accade al lavoro della casalinga".
Vuol dire che se non incominciamo a nominare il valore del lavoro femminile
in sé, rinunciando a metterlo continuamente a paragone con il lavoro
maschile, rischiamo (secondo un'azzeccatissima espressione di Maria Marangelli
che è stata sindacalista Fiom-Cgil a Sesto San Giovanni) che il
di più relazionale femminile venga continuamente scippato dal capitale.
|