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Corsera 7
gennaio 2003
La
mia Africa delle donne
unica speranza contro la paura
Mentre gli uomini fanno la guerra, loro riforniscono i villaggi
d' acqua e coltivano i campi. Unite, lottano per non veder più
morire i propri figli
Dacia Maraini
NAIROBI -
Avevo promesso a me stessa di non tornare in Kenya a visitare i miei amati
elefanti finché le guerre distruttive non fossero finite e finché
l' Aids non avesse lasciato quei territori. Come indulgere al piacere
di osservare gli ultimi animali selvatici, in un Paese che ha il venti
per cento di sieropositivi? Sono anni infatti che non andavo più
in Africa. Ma l' invito a un incontro con un gruppo di donne africane
(del Kenya, del Sudan e della Somalia), mi ha convinta.
L' Alitalia ha cancellato i voli diretti per il Kenya e quindi bisogna
fare un giro lungo: Roma-Amsterdam, o Roma-Londra e poi giù verso
Nairobi. Anni fa si arrivava in poco più di cinque ore. Oggi ce
ne vogliono una dozzina, e c' è pure il rischio di perdere il bagaglio
per strada come è successo a me all' andata.
Nairobi, che io ricordavo come una città pacifica ed elegante,
è diventata pericolosa e sporca. Il centro della città in
certe ore del giorno è infrequentabile, si rischia la rapina: «Un
coltello puntato sul collo, ti frugano rapidamente e ti portano via tutto,
compresi gli spiccioli, l' orologio da polso, anche se vecchio»,
racconta Elio Traina, il direttore dell' Istituto italiano di Cultura
che coraggiosamente sfida i pericoli per portare avanti un intenso programma
di scambi culturali fra l' Italia e il Kenya.
I ricchi si barricano nelle loro ville con tanto di fili spinati, muri
coperti di cocci, ronda di cani e servizio armato notte e giorno. Solo
i parchi con gli animali selvatici sono ancora delle oasi di pace. E'
lì che si concentra la valuta straniera. E vengono ben protetti.
I turisti, appesantiti da macchine da presa e macchine fotografiche di
tutte le forme, se ne vanno in giro chiusi dentro vecchie Land Rover,
spiando l' arrivo di un gruppo di leoni, di una mandria di elefanti. Gli
animali non sentono l' odore degli umani - per una volta chiusi in gabbia
come in uno zoo - e tranquillamente passeggiano, amoreggiano, cacciano,
nella pienezza della loro intelligente e necessaria semplicità
vitale. Osservare una ventina di elefanti che scende lentamente verso
la riva del fiume per fare il bagno in un tripudio di spruzzi, di barriti;
spezzando rami e foglie, affondando le gigantesche zampe nel fango, è
una esperienza straordinaria. La leggerezza di questi corpi massicci e
pesanti nello stesso tempo stupisce e meraviglia. Gli esseri umani, dentro
le loro scatole di latta, perdono la loro centralità dominante,
diventando per una volta invisibili e inoffensivi. Al di là dei
finestrini, le gazzelle saltano, le giraffe fanno capolino dietro i cespugli
ruminando foglie di acacia, gli scimmioni dal sedere lilla corrono emettendo
grida di allegria. La sensazione è di essere capitati, clandestinamente,
in un paradiso arcaico, lontanissimo nel tempo, prima della cacciata di
Adamo ed Eva. Un paradiso sospeso nel vuoto di una memoria fuori dal cervello
umano. Certamente una esperienza anche dolorosa, che ti rammenta come
la natura sia indifferente all' uomo. Ti viene il sospetto che perfino
il Padre eterno sia ormai incurante della sorte delle sue creature, perdute
dietro mercati e guerre, dopo la cacciata dal paradiso terrestre. Quel
paradiso che ora vorremmo ricostruire, con le sparute bestie selvagge
che sono state risparmiate dalla grande carneficina. Ma quale Noè
potrà salvare quelle meravigliose creature dal diluvio tecnologico?
La professoressa Giovanna Domenichini ha organizzato per me un incontro
con gli studenti dell' università. Sono ragazzi privilegiati, che
hanno avuto modo di studiare, ma non per questo sono ricchi. Portano con
dignità i loro vestiti lisi, i loro libri tenuti insieme dalla
colla fatta in casa e da infiniti pezzi di scotch. Parliamo di romanzi,
di storie. Ma vedo che si fanno particolarmente attenti quando mi interrogo
sulla funzione dello scrittore nel tempo in cui vive: un testimone? Una
coscienza inquieta? Una voce di dissenso? Uno spirito critico? Uno che
dice la verità quando altri non possono dirla? Oppure semplicemente
si tratta di una persona che coltiva il suo orticello di parole preziose,
puntando sulla propria capacità visionaria e precorritrice? In
luoghi dove prevalgono la povertà e la paura certamente lo scrittore
è visto come qualcuno che ha il dovere e il privilegio di parlare
per chi non può farlo. «Se scoppia una guerra vicino a lui,
lo scrittore che fa? Ne scrive? O le sue fantasie, quando sono profonde
e creative, bastano a nutrire l' immaginazione dei lettori del suo tempo,
senza alcun riferimento ai fatti che travagliano gli animi di chi vive
loro accanto?». Sono domande a cui è difficile rispondere.
Ma l' attenzione di questi ragazzi testimonia una gran voglia di crearsi
degli strumenti per giudicare il mondo, ma anche per cambiarlo in meglio.
Il teatro qui è visto nel modo antico, come il luogo nudo in cui
si scontrano le ragioni del dovere con quelle del piacere. E a teatro
ci ritroveremo per leggere poesie in swahili, in inglese e in italiano.
Nello stesso teatro due sere dopo, assisteremo a una versione inglese
del vecchio testo di Dario Fo, qui tradotto come A woman alone, in cui
una massaia (me la ricordo interpretata da una bravissima Franca Rame)
racconta alla vicina di casa le comiche infelicità di una condizione
femminile di sudditanza e di schiavitù.
Il Kenya non è in guerra, e anzi pratica una difficile e coraggiosa
democrazia, ma confina con Paesi che stanno combattendo guerre di anni,
che hanno prodotto morti infinite, torture, abusi, violenze, stupri, devastazioni
di ogni genere... Molti di questi popoli in fuga si rifugiano nel Paese
degli altipiani e trovano scampo in qualche baraccopoli senza luce e senza
fogne, dove regna l' arbitrio più assoluto, la legge del più
forte. Io stessa ho assistito, durante una visita al devastato quartiere
di Kibera, per incontrare i ragazzi che Thomas Simmons dell' Amref e Marco
Baliani stanno aiutando a uscire dalle logiche della guerra, a una battuta
punitiva di uomini armati di bastoni, contro donne giovani e vecchie che
avevano il torto di appoggiare l' opposizione. Altri, tantissimi, vanno
a finire nei campi appositamente creati per i profughi, dove la vita è
così promiscua, primitiva e infelice che il numero dei suicidi
è continuamente in crescita.
Gli italiani stanno dando una mano, anche sul piano istituzionale, per
trovare qualche rimedio alle guerre senza fine del Sudan, della Somalia,
attraverso gli esuli che si trovano qui in Kenya. E questa è una
buona notizia. Assieme con alcuni missionari, i rappresentanti del nostro
Paese, una volta tanto sono accolti con fiducia e simpatia, perché
hanno trovato le parole per parlare concretamente di pace. L' invito a
incontrarmi con le rappresentanti delle profughe sudanesi e somale viene
da Domenico Polloni, osservatore italiano del processo di pace per il
Sudan, che conosce bene la situazione, vive qui da anni e ha buoni rapporti
con le organizzazioni pacifiste africane.
Sono una decina di donne fra somale, sudanesi e keniote. Alcune più
giovani, altre meno giovani, ma tutte combattive, intelligenti e, lo si
vede chiaramente, spazientite dalla loro impotenza. Cosa fare per affrontare
le prepotenze dei «Signori della guerra», come loro stesse
chiamano coloro che approfittano delle rivalità claniche per arricchirsi
rapidamente seminando terrore e odio? Alcune arrivano ad augurarsi un
intervento armato dell' Onu.
Con noi ci sono anche il professor Carlo Ungaro, inviato speciale del
Governo italiano per la Somalia e Marion Douglas, la sua combattiva moglie
americana, che spiegano cosa hanno significato per questi Paesi poveri
anni e anni di guerra civile. «La popolazione è diventata
ostaggio di bande di uomini armati che fanno solo i propri interessi,
non tirandosi indietro di fronte a qualsiasi violenza. Non ci sono ragioni
ideologiche dietro questi scontri ma problemi di prevalenza di clan opposti.
Sono loro che mettono in mano ai bambini le armi, per farne dei guerrieri
obbedienti e spericolati. In tutto questo le donne hanno una funzione
fondamentale: portano avanti le strutture economiche di una società
completamente spappolata». Spesso assicurano il minimo di istruzione
nelle zone devastate dalla guerra, improvvisando piccole scuole rudimentali.
Ma sono talmente denutrite che al primo assalto di una malattia, soccombono.
Soffrono di cataratta precoce, di emorragie, di aborti spontanei, di tubercolosi.
Le bambine sono costrette a sposarsi prestissimo, anche a undici, dodici
anni, per portare una dote, anche piccola, di due o tre vacche nella casa
dei parenti. E anche per sfuggire agli stupri («qualsiasi donna
che non appartenga ad un uomo, è esposta allo stupro di gruppo
e alla rapina»).
«La cosa assurda - dice la somala Medina Amir Mohamed, che parla
benissimo italiano, - è che noi siamo continuamente chiamate a
sostituire gli uomini che sono in guerra: nell' organizzazione sociale,
nella protezione della famiglia, nel commercio. Ma appena c' è
da incontrarsi per decidere del futuro della comunità, veniamo
automaticamente estromesse. Eppure abbiamo molto da dire sul futuro del
nostro popolo e dovrebbero ascoltarci, per lo meno ascoltarci».
«Le donne spesso sono costrette ad assistere alla morte violenta
dei mariti, dei figli, e vengono stuprate di fronte ai parenti, e alla
gente del villaggio - racconta Amina Muddei -. Eppure non chiedono vendetta.
Vogliamo la pace, contro qualsiasi logica di ritorsione. Quello che ci
preoccupa è la totale disgregazione dei nostri popoli e dei nostri
villaggi. Siamo in piena anarchia, dove ognuno è contro tutti e
vince sempre il più forte. «Facciamo di tutto per creare
delle zone di lavoro e di pace ma anche se ci riusciamo qualche volta,
non sappiamo come rieducare i bambini abituati a torturare, uccidere e
depredare. Nel ' 91 le donne avevano avuto un posto in politica, c' erano
delle leggi che imponevano una loro rappresentanza. Oggi tutto questo
è scomparso assieme ad ogni forma di istruzione». «Nondimeno
sono proprio le donne che permettono la sopravvivenza dei villaggi - incalza
Asli Ismail Du' ale - con il loro piccolo commercio, che portano avanti
a rischio della vita. Sono loro che garantiscono l' approvvigionamento
della legna per cucinare, tagliando i rami nei boschi e caricandoli sulla
testa. Sono loro che trasportano l' acqua dai fiumi ai villaggi, loro
che coltivano il miglio, il mais, le banane.
«Stiamo tornando all' analfabetismo perché le scuole non
ci sono più. Le donne non sanno nemmeno scrivere il proprio nome.
Ci sono alcune scuole private ma sono per i più ricchi. La maggioranza
non ha neanche i soldi per comprarsi le scarpe. Le associazioni femminili
sono state le uniche a volere costituire dei legami fra nazioni in guerra,
attraverso il piccolo commercio e le azioni di pace. Dove le armi vengono
proibite si costituisce un flusso clandestino inarrestabile e anche voi
italiani vendete tante armi. Oggi, sotto la pressione dei grandi del mondo,
si comincia a trattare per la pace. Ma sapete chi sta negoziando per noi?
proprio quei Signori della guerra che ci hanno torturati e depredati.
Vogliono mantenere i propri interessi anche in tempo di pace».
«Il Sudan è in guerra da 15 anni - racconta Rachel Kirubi
dell' Upper Nile Woman Welfare Association -. Il sud, in cui prevalgono
i cattolici e gli animisti, si scontra col nord che è in prevalenza
islamico e considera quelli del meridione come "razza inferiore".
E' una realtà frammentata, in cui tutti stanno male, salvo coloro
che detengono le armi e minacciano chiunque non stia alle loro regole.
L' analfabetismo sta diventando una regola, la classe dirigente è
inesistente, non ci sono più amministratori, siamo in uno stato
di autodistruzione perversa».
«Noi li portiamo dentro alla pancia per nove mesi - interviene Mary
Nyaulang del Sudanese Woman in Development and Peace - li alleviamo fino
ai sette anni, e poi ci vengono tolti per portarli a fare la guerra. Le
nostre parole di madri non contano più niente dal momento che il
bambino diventa un piccolo soldato. E dobbiamo assistere all' obbrobrio
di vedere i nostri figli dalle mani ancora piccole e tenere che stringono
un fucile e lo portano a casa come se fosse un giocattolo che purtroppo
spara davvero».
«Le donne non sono mai informate su ciò che accadrà
- aggiunge polemica Anisia Achieng del Sudanese Woman Voice for Peace
-. Ci vengono dati solo ordini: abbandona la tua casa entro un' ora, nasconditi
da qualche parte, porta in salvo i bambini. Ma dove e per quanto tempo?
Non ci viene detto niente. Noi vorremmo costruire una cultura di pace
che superi le differenze dei clan avversari, vogliamo tornare a vivere
in pace, e che i nostri figli vadano a scuola in sicurezza».
Le testimonianze si susseguono dolorose e simili: la guerra è una
faccenda di uomini e alle donne non viene richiesto nessun parere, mai.
La guerra riduce le ragazze a rango di prede, le donne adulte a rango
di serve e infermiere, come fare per riportare la pace in terre distrutte
dall' odio e dal principio della vendetta, come fare per ricostruire la
famiglia e il pacifico lavoro quotidiano?
Mi chiedo perché le istituzioni internazionali, quando vogliono
trattare con personalità dei paesi in guerra, non si rivolgono
alle donne. Non sarebbe una strategia vincente?
L' autorità si crea, è un investimento che spesso viene
da chi ha già una autorità. Se le istituzioni, cominciando
da quelle umanitarie internazionali, scegliessero all' interno dei paesi
da pacificare, delle personalità femminili - e posso assicurare
che ce ne sono - facendone un punto di riferimento anche se non istituzionale,
dando loro un valore di rappresentanza, credo che i «Signori della
guerra» sarebbero costretti a riconoscere a queste ultime quell'
autorità che vogliono mantenere solo per sé.
Non è successo lo stesso con Rigoberta Menchu, che ha rappresentato
le lotte dei popoli latinoamericani ed è diventata un punto di
riferimento anche per i capi di Stato e le organizzazioni umanitarie internazionali?
La mia proposta ai governi che veramente credono nella pacificazione di
questi Paesi impelagati in guerre decennali senza uscita, è proprio
questa: non rivolgersi ai dirigenti che si autopropongono come le voci
autorevoli dei loro popoli, ma andare a cercare le rappresentanti di quelle
associazioni femminili che dal basso premono per una politica di riconciliazione
e non riescono a darsi credito per via di una atavica gerarchia del potere
patriarcale. Dare dall' esterno un valore a coloro che veramente hanno
interesse nell' armistizio e renderli ambasciatori autorevoli di una pace
che non può passare per gli interessi eternamente rinnovati dei
«Signori della guerra».
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