Corsera -
18 febbraio 2005
«Non
confondiamo femministe e radicali»
Luisa Muraro interviene nel dibattito su aborto ed eredità degli
anni '70
Luisa Muraro
Quelli che parlano di un ripensamento femminista sull' aborto rispetto
alle posizioni degli anni Settanta, fanno un madornale errore: confondono
la battaglia impostata dai radicali (fra i quali Emma Bonino) per il diritto
d' aborto, con il movimento femminista, che non aveva questa impostazione
individualistica. Non c' è dubbio che la battaglia dei radicali
sia stata sostenuta anche da molte femministe, ma, primo, ciò non
vuol dire che quelle femministe ne condividessero l' ideologia, secondo,
il pensiero femminista, quando si è espresso con documenti suoi,
non era d' accordo perché vedeva nell' aborto, legale o illegale
che fosse, una conseguenza di una sessualità femminile subordinata
a quella maschile e lavorava perché la questione trovasse risposta
in una più ampia concezione della libertà femminile. Cito
da un documento del 1971: «Una procreazione "per libera scelta",
quale contenuto liberatorio può avere in un mondo dove la cultura
incarna esclusivamente il punto di vista maschile sull' esistenza?»
(«Rivolta femminile»). E da un documento del 1973: «Per
gli uomini l' aborto è questione di legge, di scienza, di morale,
per noi donne è questione di violenza e sofferenza. Mentre chiediamo
l' abrogazione di tutte le leggi punitive dell' aborto e la realizzazione
di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di
considerare questo problema separatamente da tutti gli altri nostri problemi,
dalla sessualità, maternità, socializzazione dei bambini,
ecc.» («Collettivo di Via Cherubini»). Lo stesso collettivo,
in un documento del 1975, intitolato «Noi sull' aborto facciamo
un lavoro politico diverso» (sottinteso: da quello che fanno i radicali
con le manifestazioni di piazza), scriverà che «l' aborto
di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà
perché è una risposta violenta e mortifera al problema della
gravidanza e, per di più, colpevolizza ulteriormente il corpo della
donna». Le citazioni - dal capitolo secondo di Non credere di avere
dei diritti della Libreria delle donne di Milano (Rosenberg e Sellier,
1987/1998) - bastano a far capire il fastidio di molte femministe alla
tesi del «ripensamento»: nessuna di noi nega che, con i cambiamenti
di cultura in corso, possa esserci e anzi debba esserci un arricchimento
del pensiero femminista. Ma nel senso di una ripresa e di un approfondimento,
unicamente. C' è un problema a monte di questo fasullo «ripensamento»,
che forse è venuto il momento di affrontare. Ed è che il
pensiero politico delle donne ha interessato - ed è stato registrato,
dalla cultura ufficiale, sia politica sia giornalistica - in maniera parziale.
Dicevamo: l' aborto esorbita dalle cose che il diritto può regolare,
per tutto quello che chiama in causa della sessualità umana e per
tutto quello che significa nell' esperienza femminile. Ma questa posizione
non interessava né i sostenitori né gli avversari della
legalizzazione dell' aborto. Adesso, quelle nostre parole sull' aborto
«risposta violenta e mortifera», tornerebbero buone ad alcuni
ma solo per usarle dentro un altro schieramento, e siamo daccapo. Dicendo
questo, rovescio in parte la posizione di Lucetta Scaraffia (sul Corriere
del 6 febbraio): secondo lei ci sarebbe stato un conformismo della parola
pubblica femminista che ha occultato la complessità del pensiero
che certi gruppi portavano avanti. A me risulta che l' opera di semplificazione
non sia venuta dal femminismo, ma al contrario da chi del femminismo conosceva
poco. A me risulta, per esempio, che i giornali e la televisione lo hanno
divulgato seguendo stereotipi piuttosto superficiali, e che la politica
ufficiale, quella delle scadenze elettorali, lo ha assimilato in una versione
mutilata, quella della richiesta di parità. Per tre quarti, lo
dico senza esagerare, è una questione di linguaggio: quello che
le donne hanno da dire a questo tipo di civiltà, e che, bene o
male, hanno cominciato a dire, sporge fuori dai suoi quadri. Non si dimentichi
che, se noi femministe abbiamo detto qualcosa di valido, lo abbiamo potuto
dire grazie ad un ascolto fine di noi stesse e delle altre. E che molto
resta nel silenzio. Il dibattito in corso può essere visto come
il segnale che qualcosa sta cambiando? Sì, mi sento di rispondere,
purché migliori la qualità dell' ascolto degli uomini nei
confronti della parola delle donne: la parola delle femministe, d' accordo,
ma anche quella più diffusa delle donne che essi incontrano nei
luoghi della vita lavorativa e familiare. Siamo ancora distanti da ciò.
Un esempio? Nell' intervista sul Corriere del 10 febbraio, l' on. Martinazzoli,
che ha fama di attento e riflessivo, ha creduto di leggere un ripensamento
femminista sull' aborto («non un' abiura, ma più prudenza,
più dubbi»), prendendo per avvenuto qualcosa che la stampa
ha cercato, a torto, di far venir fuori. Torna insomma ad agire il quadro
dentro il quale dovremmo esprimerci, altrimenti siamo contate per «mute».
Fuori dal quadro restano quelle femministe cattoliche che hanno parlato
e scritto in favore della legge 194. O, per fare un altro esempio, il
fatto che alcune femministe si sono espresse contro il ricorso allo strumento
referendario per cambiare o migliorare l' attuale legge sulla procreazione
assistita. Fuori dal quadro restano le pratiche che abbiamo inventato,
insieme alla nostra consapevolezza che in queste materie la macchina politica
degli schieramenti contrapposti è deleteria. Fuori dal quadro continua
in sostanza a restare la differenza femminile.
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