Libreria delle donne di Milano

DWF - Lavoro. Se e solo se, 2010, n. 2 (86)

Immagina che il lavoro

di Laura Colombo

Non sono una studiosa di Simone Weil ma ho studiato Simone Weil all'Università degli Studi di Milano, un po' di anni fa, con la professoressa Laura Boella che fece un corso monografico su di lei. In realtà non ho potuto seguire il corso perché lavoravo, ma - come normalmente succede tra studenti - ho recuperato la dispensa e ho letto in modo appassionato i suoi libri.
Oggi parto da questo dato biografico perché al centro della nostra riflessione c'è il tema del lavoro, e vorrei con voi interrogarmi su alcune questioni che riguardano il lavoro in questo momento storico particolare in cui molte e molti sentono che non basta risolvere le questioni economiche, è necessario recuperare anche il senso e il valore del lavoro e, soprattutto, delle donne e degli uomini nel lavoro, della libertà intesa come possibilità.
Partiamo da La condizione operaia di Simone Weil, un diario dell'esperienza in fabbrica che non è stato rielaborato o riscritto, è la registrazione autentica e diretta di quello che le accadeva ogni giorno, è la sua conoscenza diretta delle dinamiche della sofferenza e dell'abbrutimento che il lavoro può comportare. La monotona ripetitività del lavoro operaio, la vita ritmata e consumata dal funzionamento cieco delle macchine e dall'arbitrio degli ordini di lavoro sono le regole non manifeste di un apprendistato forzato alla docilità, " una docilità rassegnata da bestia da soma " . Il tempo diventa la misura della schiavitù degli operai, perché viene ridotto a una circolarità inesorabile, circoscritta alla giornata lavorativa: " Si lavora solo perché si ha bisogno di mangiare. Ma si mangia per poter continuare a lavorare. E di nuovo si lavora per mangiare " . È una condizione che taglia fuori la possibilità del pensiero. La fatica, il dolore e la sofferenza fisica sono le manifestazioni di una resa interiore assoluta: " Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per 8 ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto […] Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti " . Simone Weil identifica le cause di questa miseria nel sistema tayloristico della razionalizzazione del lavoro. Oggi siamo in epoca post-fordista, in un mondo del lavoro completamente differente. Ma Simone Weil serba intatta la sua capacità di svelare una verità.

Se leggiamo a fondo Simone Weil, dobbiamo lasciarci alle spalle la separazione tra il piano della conoscenza e il piano della vita. Simone Weil non si limita all'elaborazione astratta delle idee e non si contenta di un pensiero cui la realtà deve conformarsi, al contrario, verifica se stessa nell'esercizio di ciò in cui crede e questa posizione a me ricorda la pratica che sta al cuore del femminismo, il patire da sé. Per chi di voi non sa di cosa parlo, ricordo che nei primi anni Settanta sono nati collettivi di donne che hanno scoperto la potenza della parola scambiata tra donne a partire da sé, senza astrazioni e nel tentativo di restare fedeli a sé, alla propria esperienza, mettendo in gioco desideri, fantasie, paure - tutto ciò che normalmente è rimosso e non trova parola. Da un movimento nato da piccoli gruppi di donne che iniziavano a parlare tra loro in autonomia dall'uomo e in fedeltà a sé, è nata una vera e propria rivoluzione. Le donne hanno spostato l'asse dalla rivendicazione della parità con l'uomo a un rapporto libero e contrattuale donna/uomo, dove lei può contare sulla relazione con le altre donne.
A qualcuno potrebbe sembrare che il partire da sé si riduca al soggettivismo. Simone Weil era molto critica nei confronti del soggettivismo della conoscenza, le pareva il limite teorico in cui si imbatte chi non sa andare oltre a sé. Oggi lei insegna al movimento delle donne a non rimpicciolire il "partire da sé" al soggettivismo, a non ripiegare sul soggettivismo. Simone Weil ci avverte del pericolo del soggettivismo e precisamente in questo, a mio parere, sta la sua attualità.
Nei Quaderni scrive: " Filosofia (compresi i problemi della conoscenza, ecc.) cosa esclusivamente in atto e in pratica. Per questo è tanto difficile scrivere al riguardo…Le teorie soggettivistiche della conoscenza sono una descrizione perfettamente corretta dello stato di coloro che non posseggono la facoltà, molto rara, di uscire da sé " . A me pare che il soggettivismo sia una delle caratteristiche del nostro ricco occidente, che per difendersi ricorre all'identificazione estrema con l'io di una civiltà, di una nazione, di una cultura. Il partire da sé è altra cosa rispetto al soggettivismo, è la ricerca di un varco che dall'io ci porti al mondo.
Simone Weil ci ha lasciato un'eredità spirituale che è stata raccolta, magari inconsapevolmente, da molte donne. Io la sintetizzo così: non lottare per un'utopia ma per il presente.

Mi rivedo, non ancora ventenne, che per ragioni non rilevanti qui intraprendo una formazione dura e iperspecialistica in una multinazionale dell'informatica. Rivedo la mia non accettazione nel profondo di questa esperienza insieme a una dedizione e un impegno totali, che nel tempo mi hanno dato molto. Finché non ho fatto il passaggio dalla ribellione inefficace - perché contro di me - all'accettazione profonda e alla ricerca di senso in ciò che vivevo, ero spinta nelle braccia del sogno consolatorio, della fuga, Simone Weil direbbe dell'immaginazione. L'accettazione non è niente di negativo, al contrario. Solo con questo passaggio mi sono data la possibilità di desiderare di più e meglio, solo così ho moltiplicato le mie energie trovando la mia strada per studiare, fare politica, amare, offrire la mia intelligenza e le mie capacità a un ente diverso da una multinazionale.
Simone Weil, nel suo voler spingere gli operai a pensare e nel volerli rendere consapevoli della loro condizione, aveva capito una cosa essenziale: ci sono dei bisogni simbolici propri dell'essere umano, senza i quali lo spazio dell'umano si guasta. Le riforme giuridiche e la proclamazione di diritti non cambiano necessariamente il vissuto quotidiano dell'operaio. La vera rivoluzione è la trasformazione reale delle coscienze, i diritti sono necessari, ma di per sé insufficienti.
Tra i bisogni simbolici uno è quello di finalità, perché chi è privo della possibilità di indirizzare il proprio desiderio verso un fine, lo rivolge verso qualcosa che già c'è, si rifugia nell'evasione.
La finalità, nel lavoro, è anche consapevolezza della funzione del proprio gesto rispetto alla globalità del processo, è sapere che i gesti che si compiono hanno un significato.
Simone Weil comprende che la consapevolezza di sé e della propria condizione ha bisogno di uno spazio in cui potersi esprimere liberamente. Per questo esorta gli operai a raccontare le proprie sofferenze e le proprie pene sul giornale di fabbrica "Entre Nous": " Se una sera o una domenica, improvvisamente, vi fa male dover sempre chiudere in voi stessi quel che vi pesa sull'anima, prendete carta e penna. Non cercate frasi difficili. Scrivete le prime parole che vi verranno in mente. E dite cos'è, per voi, il vostro lavoro " . Questa generosa offerta di uno spazio simbolico per dare significato a sé stessi e al proprio lavoro, per rendere possibile una rappresentazione di sé, altro non è se non la ricerca della libertà nel lavoro e non dal lavoro. E precisamente questo filo è stato seguito con grande impegno dal "Gruppo lavoro" della Libreria delle donne di Milano. Per alcuni anni è stato centrale l'ascolto di tante esperienze di donne che hanno scelto di ridurre l'orario di lavoro per affermare un proprio desiderio di maternità e questo ha portato alla pubblicazione del Quaderno "Lavoro e maternità - Il doppio sì". Più in generale, l'ascolto dell'esperienza delle donne ha portato alla pubblicazione del numero di Sottosopra "Immagina che il lavoro", che mette in discussione radicalmente il concetto di lavoro. A partire dal fatto che anche le donne hanno conosciuto il lavoro alienato, la carriera e l'idea di successo che non rispettano la vita, c'è la pretesa alta che il lavoro faccia un salto di paradigma.

Il Manifesto esorta a fare invenzioni partendo da sé. Il titolo è insieme prefigurazione di un altro modo di lavorare e invito a far esistere questo nuovo mondo facendo leva sulla soggettività, lasciandosi alle spalle il bagaglio di conoscenze "oggettive" sulla "questione" per dar voce e mobilitare bisogni e desideri di ciascuno, ciascuna.
Leggendo il documento ho percepito che il clima di effervescenza collettiva ed esplosione sociale degli anni in cui il femminismo è diventato movimento può rinascere se donne e uomini mettono in campo immaginazione e speranza, creatività e cambiamento in una riflessione collettiva sul lavoro.
Già dal titolo, comprendiamo come il richiamo alla dimensione dell'immaginario sia evocativo e potente. Accostare il termine "immaginazione" a quello di "lavoro" non è scontato, ed è una scommessa - con qualche insidia - che oggi è opportuno giocare. Questo ci permette di aprire i confini, il linguaggio e la logica della prestazione remunerata, oggetto di scambio sul mercato - ciò che tradizionalmente si intende per lavoro - alla dimensione ampia della vita. L'immaginazione è qui intesa come una facoltà creativa, che permette la ricostruzione e la messa in scena di rappresentazioni anche quando c'è un vuoto simbolico o prevale il silenzio. È anche invenzione, una mossa in cui è possibile far spazio a ciò che non c'è ancora, è movimento di libertà del pensiero che ci ridona la capacità di vedere e di sognare. In questo senso, l'immaginazione è creazione di libertà. Vi faccio un esempio semplice che riguarda mia madre. Incinta del terzo figlio, decide di prendere la patente. Benché fossero anni di fermento politico, lei era immersa in un clima culturale e in una vita quotidiana del tutto differente. Ha saputo vedersi in un altro modo e ha fatto spazio a qualcosa che per lei non era previsto, avendo tutti contro - oltre a due figlie molto piccole e una gravidanza avanzata.
Certo, non bisogna tessere le lodi dell'immaginazione senza riconoscere l'insidia che può esserci se diventa costruzione fantastica, fuga dal reale, disimpegno, rifugio, nascondimento. Simone Weil svolge una critica severa nei confronti dell'immaginazione "menzognera", che chiude l'io in se stesso, gli dà l'illusione di onnipotenza o, al contrario, di assoluta impotenza isolandolo in questo modo dal mondo, e sottolinea che bisogna preferire l'inferno reale al paradiso immaginario.
Il reale resta la porta stretta da cui il possibile cambiamento deve passare, la potenza di quello che immaginiamo deve tradursi in pratiche che mettano in moto la trasformazione che abbiamo prefigurato. Detto in altri termini, stiamo parlando della vita, non di una pensata. Si tratta del lavoro sul simbolico, che apre spazi vitali, che permette di descrivere e realizzare ciò che fino a poco prima era invisibile o inimmaginabile.
Se non ci dimentichiamo dei rischi, possiamo vedere la potenza dell'immaginazione come possibilità di assumere prospettive diverse rispetto alle rappresentazioni date che ci inchiodano alla ripetizione e ci avviliscono.
Per fare un esempio pensiamo a Virginia Woolf, che è riuscita a cogliere nella condizione di esclusione delle donne la loro salvezza. Partendo da sé, ha mostrato i vantaggi dell'esclusione, ovvero la liberazione dal bisogno (che è anche un obbligo) del possesso e dell'esercizio del potere, vantaggi che le hanno dato la libertà di "vedere le cose come sono", come dice lei stessa. E pensiamo alla rivoluzione femminista, che ha fatto esistere qualcosa che non c'era prima, il senso libero di sé, e ha mostrato come sia possibile un mutamento di prospettiva: dall'aspettarci o dal richiedere dei cambiamenti ad attuare la modificazione della realtà a in prima persona.