L'impronta
indecidibile.
Da L'Oscuro materno. Comunità filosofica di Diotima di Ida
Dominijanni Giglio[...] Due
vuoti dentro L'ordine simbolico della madre. Il primo vuoto è il posto
del padre, che non vi compare e non è contemplato. Quell'assenza lascia
alcuni non detti, sia sulla struttura del simbolico sia sul rapporto della genealogia
materna con l'altro. Sulla struttura del simbolico, perché ne L'ordine
simbolico della madre metonimia e metafora, contiguità e sostituzione,
relazione e legge non si incrociano più. Sul rapporto della genealogia
materna con l'altro, perché con il padre restano fuori dal discorso anche
l'amore della figlia per lui, che pure è un dato rilevante per la sessualità
femminile infantile e adulta, nonché il desiderio della madre per l'uomo:
quasi che l'atto sessuale che origina la procreazione diventasse secondario o
prescindibile, come diventa secondario e prescindibile nell'immaginario sulla
procreazione tecnologicamente assistita di oggi. Vengo così al secondo
vuoto: nell'ordine della madre la sessualità femminile è andata
progressivamente in dissolvenza. Più la madre è diventata figura
sessuata dell'origine, dell'autorità e della parola femminile, più
si è desessualizzata. Un esito paradossale, che non era nelle premesse
del discorso: non, ad esempio, nei primi testi di Luce Irigaray, dove il progetto
di portare a rappresentazione la relazione madre-figlia forclusa dal simbolico
patriarcale era tutt'uno con quello di fare posto alla sessualità della
donna; ed era proprio la sessualità femminile - le labbra che si toccano,
il sesso che non è uno - a inaugurare l'economia metonimica della contiguità
contro quella metaforica e patriarcale della sostituzione e del sacrificio. Può
essere accaduto che il linguaggio, per quanto metonimicamente legato al corpo
e all'esperienza, abbia messo a tacere il sesso? O che il simbolico materno abbia
riprodotto un immaginario desessualizzato della madre? La sessualità, mi
pare, torna a interrogarci da questo crinale che ha a che vedere per un verso
con i limiti del simbolico, per l'altro con il rapporto fra simbolico e immaginario.
La sessualità infatti eccede il processo di simbolizzazione: gli sottostà
ma non gli si riduce, alimenta il desiderio di sapere e di parlare ma vive oltre
il linguaggio, quando il linguaggio si ritrae o collassa. E viceversa tace, da
troppo tempo, nelle nostre pratiche discorsive. Ma quando la sessualità
tace, sappiamo che qualcosa, nel "circolo di corpo e parola", si inceppa,
o ritorna in forme impreviste. E infatti io temo che ritorni, contro ogni nostra
intenzione, nella forma di un desiderio femminile nuovamente tacitato, o di una
potenza materna nuovamente desessualizzata, che oggi si riaffacciano - tornerò
su questo - nell'immaginario femminile e maschile. Clinica e senso comune
convergono oggi nel dire che nel giro di un secolo, nella popolazione femminile
delle società occidentali, il sintomo isterico è stato soppiantato
dal sintomo anoressico (e si è nel frattempo spostato sugli uomini). La
grande imputata è di nuovo la madre. I due sintomi si inscrivono infatti
in due ordini, o disordini, simbolici del tutto diversi, segnati da un mutamento
storico di cui - questo è il punto - la rivoluzione femminil-femminista
è stata in parte artefice. Mentre il corpo isterico femminile esprimeva
una sessualità interdetta dalla legge del padre che cercava le parole per
dirsi - e le ha trovate, nella talking cure psicoanalitica e nelle pratiche femministe
della messa in parola -, il corpo defemminilizzato, dematernalizzato e desessualizzato
dell'anoressica non offre e non chiede parola né all'analista né
alla madre né all'altra donna, si presenta come un dato identitario, un
ritorno di reale non simbolizzabile, un corpo-feticcio che eccede il discorso
e da cui l'io dipende interamente. La talking cure rischia lo scacco, e il processo
di simbolizzazione rivela il suo limite. Se l'isteria è il sintomo
che ha accompagnato l'ingresso delle donne nella modernità e a cui il femminismo
ha dato una risposta politica, l'anoressia si configura così non solo come
il sintomo di una resistenza femminile alla postmodernità edonista e consumista,
ma anche come un effetto imprevisto e paradossale del mutamento femminile, del
sapere femminile sulla donna, della rivoluzione simbolica femminista. Dal sintomo
nevrotico dell'oppressione al sintomo perverso della libertà femminile? Se
nella conversione isterica contro la madre abbiamo visto il bisogno del continuum
materno, la sottrazione dalla madre del corpo anoressico non esprimerà
al contrario un bisogno di discontinuità dal materno, una differenza femminile
dalla madre cui dare spazio e significato? Mentre al tempo di Freud il "disagio
della civiltà" era riconducibile all'imperativo repressivo di un super-io
sociale che domandava ai singoli soggetti, in cambio dell'accesso alla comunità,
l'interdizione del godimento e la rinuncia al soddisfacimento pulsionale ("devi/non
devi"), oggi sembra viceversa da ricondurre all'imperativo al godimento ("devi
godere") che caratterizza il super-io sociale tardocapitalistico e postmoderno
e la personalità narcisistica contemporanea. Mentre Freud concepì
la psicoanalisi come "clinica simbolica", talking cure basata sull'ipotesi
che il sintomo esprime nella lingua dell'inconscio il ritorno cifrato del desiderio
rimosso, oggi i nuovi sintomi, associati all'agire compulsivo, alla disinibizione,
all'uso dell'oggetto finalizzato al godimento, appaiono irriducibili alla dialettica
rimozione-ritorno del rimosso; manifestazioni del reale più che messaggi
cifrati da interpretare, segnalano al tempo stesso una crisi della facoltà
della simbolizzazione nei loro portatori, della "virtù simbolica della
parola" nella talking cure, e un limite del simbolico come tale. Mentre al
tempo di Freud il corpo parlante dell'isterica, sintomo-sintesi delle nevrosi
dell'epoca, domandava messa in parola e simbolizzazione, oggi il corpo dell'anoressica,
sintomo-sintesi delle "perversioni del godimento", la rifiuta, o non
sa che farsene. Infine e non ultimo: mentre al tempo di Freud il padre garantiva
la soggettivazione e la tenuta dell'ordine simbolico, oggi è nel declino
del padre che si condensano la crisi del Grande Altro, del soggetto morale e dell'ordine
simbolico. Secondo Roudinesco la chiave decisiva per compulsare il destino
dei rapporti fra i sessi sta stretto fra la crisi dell'autorità paterna
e del "logos separatore" da una parte, e una potenza "non tanto
femminile quanto materna" dall'altra parte, esso resta affidato all'"emergere
di un nuovo ordine simbolico" che risulterà dai conflitti del presente. La
potenza materna si è di nuovo ingoiata la sessualità femminile,
ed è di nuovo fonte di processi di fantasmatizzazione e criminalizzazione
delle donne? L'onere della risposta, è chiaro, non spetta a Roudinesco
ma a noi, che abbiamo ripensato la madre come principio di un simbolico che non
separa ma unisce, scommettendo su una sua capacità di regolazione sociale
che non dipende dalla legge, testimoniando un processo di soggettivazione che
non passa per l'atto sacrificale del parricidio né per la sua imitazione
matricida. Ma per rispondere, all'immaginazione teorica e pratica è necessario
affiancare l'analisi sociale, cercando di scorgere nel presente i segni di quello
che è e che sarà la madre dopo il patriarcato, nelle sue luci e
nelle sue ombre, nel chiaro e nell'oscuro appunto che la circondano, nei suoi
aspetti di realtà e nei suoi aspetti fantasmatici. In questa direzione,
la prospettiva post-lacaniana va a mio avviso accolta per quello che dice della
"morte del padre" (dopo e in sequenza con la morte di Dio, della metafisica,
della politica e quant'altro), e contemporaneamente ribaltata per quello che non
dice della vicenda della madre. La differenza oggi non è data solo o
tanto dall'acutizzarsi della crisi dell'autorità paterna e della sindrome
narcisistica maschile: è data da ciò che noi abbiamo messo o rimesso
al mondo della madre, della sua potenza e della sua impotenza, della sua realtà
e della sua fantasmaticità, in replica, in mimesi o in differenza dalle
tradizionali declinazioni del materno. Dopo quarantanni di femminismo, la madre
non ci sta alle spalle: per l'immaginario sociale, le madri siamo noi. La percezione
reale o fantasmatica della madre riguarda direttamente la percezione reale o fantasmatica
di ciò che nel femminismo abbiamo detto e fatto; perciò è
importante e difficile tentare di decifrarla. Su questa dislocazione da noi
operata dell'autorità simbolica della madre dalla potenza materna tradizionale
si gioca infatti, nella sfera personale non meno che nella sfera pubblica, una
partita fantasmatica confusa, in cui la nostalgia del materno patriarcale si confonde
con la paura per la madre risignificata dal femminismo - l'una e l'altra, la nostalgia
e la paura, accomunate dalla desessualizzazione della differenza femminile. Ne
viene spesso, da parte maschile, un groviglio contraddittorio, questo sì
difficile da decifrare, di domande e diffidenze: domande di accudimento e nutrimento,
spesso trasferite dal regno della cura tradizionale a quello della cura psicologica
e intellettuale; diffidenze per l'inedito manifestarsi di un materno esigente
e poco complice, generoso ma poco accudente. Quanto abbiamo concesso, in cambio
di un riconoscimento di autorità, di perdere in sessualità, così
mettendoci da sole sul piano inclinato della replica della figura materna tradizionale?
Quanto la fecalizzazione del rapporto madre-figlia ci ha distratte dall'interrogarci
su quale sia la relazione con la madre dei figli narcisisti del padre mutilato
o tramontato? La nostra ricerca dell'autorità simbolica può
farsi complice di questa desessualizzazione. Perché è vero che senza
evocazione della potenza materna non c'è grandezza femminile; ma è
vero anche che al riparo di una potenza materna idealizzata la grandezza femminile
non vola, non rischia, e nemmeno genera. [...]
|