Libreria delle donne di Milano

il manifesto - 21 luglio 2001

Così la politica si trasforma in guerra
da Genova IDA DOMINIJANNI

Neanche il tocco di Kubrick ci sarebbe riuscito, a mettere in scena Genova 2001 così livida, così metallica, così deserta, così militare, così surreale. E chissà se ci riusciranno i trenta registi italiani che sono qui per girare l'evento, a restituirlo com'è. Perché è vero che la realtà, quando ci si mette, supera la fiction, e stavolta ce l'ha messa tutta e l'ha superata.
Un set di guerra allestito sul serio, che nessun set di celluloide sarebbe riuscito a simulare per finta. E non parlo della città dopo la guerriglia, il morto e i feriti, i cassonetti rivoltati e incendiati, le migliaia di bottiglie di bibite trangugiate e scaraventate ai bordi delle strade, in centro e su per la collina, di strada in strada e di piazza in piazza. Parlo di quella di prima, "ordinata" e cimiteriale. L'una infatti non si spiega senza l'altra.
Prendete una città, dividetela a fette con le grate di ferro, terrorizzate gli abitanti e convinceteli a chiudere casa e bottega con un bombardamento di annunci sull'arrivo degli Unni. Poi riempitela di 20.000 uomini armati, centinaia di carri blindati, stuoli di cavalli bardati per combattere. Piazzate da una parte, ben garantite e lucidate, la cittadella del potere politico, da un'altra parte quella del potere mediatico. Evacuate tutto il resto. Pronti, via. Che cosa può accadere su una scena così, se non qualcosa che assomigli a una guerra?
Lezioni di politica globale: di questo si doveva trattare a Genova. Di questo, alla fine, s'è trattato, ma col titolo cambiato: lezioni di bugie della politica globale. Si dice libertà di commercio, e non si possono comprare le sigarette. Si dice libertà di circolazione, e si resta o fuori dalle grate o, i privilegiati col permesso per il perimetro rosso, ingabbiati dentro le grate. Si dice dialogo con i contestatori, e dalle parole si passa rapidamente e violentemente ai fatti. Si dice politiche dei governi, e qui invece non c'è menzogna: tanto lontani sono i parlamenti che i parlamentari non sono previsti, e se uno arriva (è accaduto, alla deputata Verde Luana Zanella) non si sa chi può o deve dargli il passi per circolare. Fine della rappresentanza nella politica globale, fine della mediazione. S'è detto tante volte, adesso si vede. Politica rarefatta e lontana, nei palazzi dove si incontrano sorridenti i Grandi della Terra. Oppure politica del corpo a corpo, dell'attacco diretto alla Linea Rossa. Niente in mezzo: mediazione, rappresentanza, e neanche società. Salvo pochi che partecipano dai bordi, salvo i farmacisti che prestano servizio, salvo pochi ristoratori che tengono aperto nel Levante, la città è vuota, come nei duelli medievali.
Che l'evento accada. Lo sfondamento della zona rossa è previsto per mezzogiorno, l'una, le due. I 20.000 uomini armati sono lì per quello, e molti di loro lo sanno che la sceneggiatura è esagerata, ironizzano, alleggeriscono l'attesa, mangiano una focaccia bevono una gatorade, scambiano una battuta, non a tutti piace la parte che devono recitare. Lieve ritardo sui tempi previsti.
Come in tutte le sceneggiature che si rispettano è lo scarto di un particolare che taglia il plot e scrive il finale. I cattivi, che non sono vestiti di bianco ma bardati di nero, rompono il gioco dei buoni, invadono i cortei, rompono le file. La linea rossa si sposta in avanti, va all'attacco invece che aspettare di subirlo. Cassonetti incendiati, lacrimogeni, spari, disparità di forze prescritta fra chi combatte in divisa e chi si protegge col casco del motorino.
Qui il film è sempre lo stesso, ossessiva ripetizione di un rituale virile che dissolve la politica nella guerra. La città è vuota, a Palazzo Ducale applaudono Prodi, il sacrificio è compiuto, l'ordine è stato ripristinato. Tutto era stato allestito perché questo, e solo questo, accadesse a Genova.