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il manifesto
- 25 settembre 2001
La seconda
guerra civile americana
IDA DOMINIJANNI
Il colpo
di grazia all'immagine della capitale del mondo decapitata dai terroristi,
mi racconta una mia amica da New York, l'hanno data arabi e pakistani
non terroristi, chiudendo, per legittima paura di ritorsioni razziste,
le catene di drugstore aperti giorno e notte e le edicole che tradizionalmente
gestiscono: con tutte quelle saracinesche abbassate, dice la mia amica,
downtown non sembrava più downtown. Sull'altra costa, leggo sui
giornali, si sta allarmando per paura di vendette razziste la comunità
afghana, 10.000 a Little Kabul vicino San Francisco, 20.000 in tutta la
baia, 100.000 in tutta la California settentrionale, uomini e donne che
hanno attraversato il Pacifico per fuggire dall'Afghanistan invaso dall'Urss
o oppresso dai talebani e ricominciare da capo nell'America ospitale e
multiculturale degli anni '80 e '90. Metto in fila queste e altre cartoline
d'oltreoceano e mi domando come sia possibile non rendersi conto che qualunque
guerra, nel mondo globale, imperiale e meticcio, rischia di assumere la
forma della guerra civile: non uno stato contro l'altro o una coalizione
internazionale contro un'altra, ma una situazione endemica, più
o meno armata, di diffidenza, controllo reciproco fra comunità
che fino a ieri convivevano mescolate. Bush deve avere presente il pericolo
che gli cresce in casa, quando sottolinea che la I guerra del nuovo millennio,
come la chiama, non sarà la guerra americana contro l'Islam o contro
il mondo arabo ma la guerra di una grande alleanza, fatta anche di stati
arabi, contro i terroristi e chi li protegge; ma poi muove le truppe come
se fossimo nel millennio scorso e il nemico avesse ancora un territorio,
uno stato, un confine e un'identità distinta e altra da quelle
che si intrecciano sotto l'Impero. E nell'altro campo ci si prepara alla
guerra santa contro i "crociati cristiani", che sarebbero gli
stessi potenti della terra con cui i fondamentalisti sono legati da decenni
da traffici di ogni genere. "La seconda guerra civile americana è
cominciata", recitava il titolo preveggente di un piccolo capolavoro
cinematografico, e non sappiamo come finirà.
Non è un caso che i campus universitari americani siano stati primi
a reagire contro il patriottismo dilagante con le loro manifestazioni
pacifiste. Fu nei campus che cominciarono, negli '80, le lotte per il
multiculturalismo, per la critica dell'universalismo bianco e il riconoscimento
delle diversità, per uno stile politically correct della convivenza
fra gruppi, culture, razze, appartenenze diverse. Sono lotte che dall'Italia
abbiamo anche criticato, per l'ingenuità con cui facevano appello
alla grammatica dei diritti o perché non riuscivano a uscire dall'alternativa
fra un neocomunitarismo asfittico e regressivo e un ribadimento dell'individualismo
liberale che vince e assimila ogni resistenza comunitaria. Ma hanno fluidificato,
intrecciato, mescolato una società giovanile multiculturale che
non ci sta a ricompattarsi sotto il richiamo patriottico della bandiera
a stelle e strisce, ed è d'altra parte sideralmente lontana dalla
compiacenza con il "nemico" fondamentalista, talebano, misogino.
Non si tratta solo di un codice politico pacifista che rispunta a Berkeley
o a Stanford o alla NYU o a Columbia dalla memoria del Vietnam o del '68:
è la costituzione materiale dell'America di fine 900, quella dell'immigrazione
d'epoca post-coloniale e post-bipolare, che impedisce alle giovani generazioni
di riconoscersi nel richiamo identitario occidentalista della I guerra
del nuovo millennio. Nessuno lo dice, ma fra le poste in gioco c'è
anche quella di un conflitto sotterraneo fra la generazione che ha ancora
radici, esistenziali e politiche, nel mondo bipolare uscito dalla II guerra
mondiale e nelle modalità del conflitto frontale che quel mondo
prevedeva, e la prima generazione nata alla politica dopo l'89, in un
mondo globalizzato non solo dall'alto dei capitali e delle multinazionali,
ma anche dal basso delle relazioni e degli stili di vita. Anche questa,
è una partita aperta che non sappiamo come finirà.
Innominata come sempre in prossimità delle guerre, c'è un'altra
posta in gioco che riguarda i rapporti fra i sessi. E sì che stavolta
si tratta di una posta in gioco evidente, a meno che non si consideri
la vessazione femminile sotto il regime dei talebani un particolare secondario
del quadro. Di contro, la grande potenza occidentale ferita è la
stessa che ha messo in scena, con il sexgate, la più eclatante
crisi del patriarcato che abbia investito le istituzioni della politica.
In un campo e nell'altro, nessun guerriero può far conto sulla
lealtà delle sorelle alla partenza per il fronte, una cartolina
- questa sì - dell'altro millennio.
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