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Il Foglio
- 8 luglio 2005
Mary
Daly
Marina Terragni
Parlo con
Luciana Percovich, femminista di quelle che negli anni Settanta avevano
fatto del corpo e dell'aborto territorio di pratica politica -autovisite,
speculum di plastica, self help- del fiducioso abbandono di tante donne
di oggi alle tecniche di procreazione assistita, che poi è l'esatto
contrario del self help. Di tutte queste ragazze che rimandano e rimandano
il primo e spesso unico figlio, tanto, dicono con tranquilla rassegnazione,
"semmai mi farò dare una mano", modello che sembra piuttosto
forte e pervasivo. Una fiducia nella scienza e una cedevolezza che hanno
l'aria di una resa di fronte alla difficoltà di tenere insieme
tutto, di fronte al precariato protratto e all'instabilità delle
relazioni. Ma forse c'è ben altro, dice Percovich: una specie di
docile autocastrazione, una rinuncia all'esercizio della propria potenza
riproduttiva che viene posta fuori di sé, esternalizzata, consegnata
a un tecnico terzo a cui è affidato il compito di attivare la scatola
magica. Come se il conflitto originario sulla potenza materna, madre di
tutti i conflitti e sorgente di tutte le culture, si fosse fatto insostenibile.
Meglio cedere e stare al mondo da neutri sterili, e in pace.
"Potrebbe sembrare che le Madri Maschili e la loro pseudo-creatività
stiano vincendo": così le chiama la teologa e filosofa americana
Mary Daly con sfolgorante estro linguistico. Madri Maschili, perché
quegli atti riproduttivi "extracorporei" ed eterogestiti sono
fortemente sbilanciati verso il sesso maschile. Quei figli sono più
figli degli uomini -della loro tecnica, del loro ordine simbolico, del
loro desiderio- che delle donne, e lo saranno quasi del tutto una volta
che sarà stato agguantato il Graal dell'utero artificiale.
Si può anche ritenere che un discorso critico sulle tecniche di
Pma abbia poco a che vedere con la differenza e il conflitto tra i sessi,
e che ci siamo tutti dentro, maschi e femmine, con uguali responsabilità.
Mary Daly non la pensa così, pensa che la narrazione sia quella
che dicevamo, che il fatto di "dare una mano" alle donne sterili
sia assolutamente residuale. Lei crede che la Pma sia un atto di guerra
contro il genere femminile. Probabilmente la Soluzione finale, predisposta
dall'Impero Nec-Tec.
Mary Daly non è certo tipo da mezzi termini. I termini in circolazione,
anzi, non le bastano neanche tutti interi, e allora ne inventa di sempre
nuovi, un vocabolario visionario e ironico che fa dell'etimologia, della
ricerca dei sensi nascosti, del disfare la tela del già detto e
pensato, delle parole risvegliate dal sonno dell'insignificanza e ricondotte
alle loro radici un vero e proprio lavoro politico. Le fonti di parole
nuove sono raccolte soprattutto nel suo "Wickedary" (wick= perverso,
ma anche favoloso) in contrapposizione ai dick-zionari in uso.
Mary Daly ha passato parecchi guai per il suo radicalismo e la sua lotta
contro l'"accadementia" e l'"invasione accademonica della
psiche delle donne". Autrice di testi spartiacque come "Al di
là di Dio padre" e "Pure Lust", pioniera della ricerca
sulla spiritualità femminile, già nel 1968, subito dopo
il suo primo saggio femminista "La Chiesa e il Secondo Sesso",
venne messa alla porta dal gesuita Boston College. Dopo tanti anni passati
a studiare la filosofia aristotelica e in particolare Tommaso D'Aquino
(un vero e proprio "karatè della mente") aveva sentito
la necessità di colmare la distanza che la separava da sé,
di trovarsi finalmente "d'accordo con il mio Io". E' la fine
della scuola e dell'imparare a memoria, la gioia della vacanza per sempre,
come Luisa Muraro descrive il libero pensiero, la felicità di un
sapere che non è rinuncia al piacere, che è ricerca audace
dell'assoluto restando presso di sé.
Il viaggio-vacanza di Mary Daly dura ormai da quarant'anni. Ma oggi siamo
un po' tutti in vacanza, passato il referendum di fine anno scolastico
sulla questione delle nuove tecnologie riproduttive. Perfino noi che ci
dovremmo annoverare tra gli "sconfitti". Ora si può tornare
a pensare e ricercare liberamente. Luciana Percovich, di cui dicevo prima,
legge la sconfitta del fronte abrogazionista come una vittoria del buon
senso femminile. Non il buon senso di aver voluto difendere una brutta
legge, ma quello, più prospettico, di aver segnato la propria lontananza
sia dalle biomanipolazioni, sia da questo modo di fare la biopolitica,
impantanandosi in logiche come la contrapposizione tra cattolici e laici
e cose simili. Mary Daly chiama questa maggioranza di buon senso Maggioranza
Biofila, e vi iscrive d'ufficio animali e piante, antenate e postere.
Anche la filosofa Luisa Muraro, onorata in questi giorni a destra e a
manca, da Sandro Bondi a Toni Negri il quale, nel suo librino "La
differenza italiana", la annovera con Antonio Gramsci e Mario Tronti
come raro fiore nel deserto filosofico del nostro Novecento, racconta
di essere in lotta con le sue compagne per guadagnare una lettura più
complessa dell'esito dei referendum. Dice che, visto che l'embrione è
stato separato dal corpo della madre, è venuto il momento "di
formarsi un pensiero. Perché è vero che sulla vita non si
vota, e invece si deve pensare. Bisogna che l'umanità si pensi".
La scuola -l'alfabetizzazione pubblica che è stato il vero valore
aggiunto della campagna referendaria- è finita, e comincia finalmente
la vacanza del pensiero libero. Mary Daly è una pensatrice libera
fino alla vertigine. Il suo "Quintessenza", da poco in libreria
per Venexia, è un trattato etico-politico visionario, profezia
"autoadempiente" per la costruzione di quello che lei chiama
Futuro Arcaico. Pensare liberamente sulle tecnologie riproduttive è
dire per esempio che i cloni sono anti-angeli. Ricorda Daly che per Tommaso
D'Aquino gli angeli "in quanto sostanze immateriali, esistono in
quantità straordinaria, molto più di tutta la massa materiale"
(Summa teologica), e che ognuno di questi miliardi di miliardi di miliardi
di individui è diverso dall'altro, tanto quanto i cloni sono noiosamente
l'uno la copia dell'altro. Da teologa com'è, Daly racconta anche
come la clonazione e il conseguente annichilimento delle donne, mito fondante
della religione della Pma, siano stati a sua volta prefigurati dai miti
di molte religioni. "Il sistema tulku tibetano" dice "chiarisce
meglio la diffusa sindrome della maternità maschile". Il tulku,
il bambino scelto come reincarnazione del lama morto, è il figlio
perfetto, nato da se stesso. La madre è degradata a contenitore
del santo tulku, che a livello simbolico è un clone. Il Lama, o
madre superiora (la-, superiore, -ma, madre) è la più perfetta
forma di maternità, ed è anche la mamma di se stesso. Anche
Gesù è figlio di se stesso. L'Agnus Dei è imparentato
con la pecora Dolly. Cristo è suo Padre giovane, così come
Dioniso è la rigenerazione di Zeus. Entrambi preesistono a se stessi
e tanto più alle loro madri in affitto, Semele e Maria, semplici
"fattori ambientali" dei feti divini, annichilite da tanta potenza
autogenerativa.
Qui si capisce bene l'imbarazzo, io dico poco lungimirante, dei Gesuiti
del Boston College. Ma soprattutto diventa chiara la natura religiosa
del paradigma della Pma, che aggiorna e mette in pratica l'armamentario
delle mitologie religiose, perfezionando l'obiettivo dell'autosufficienza
maschile. Che in definitiva ruba al Signore le sue greggi, e anche per
questo non è strano che la Chiesa abbia la Pma in grande antipatia.
Ognuno addomestica e annichila il sesso femminile a modo suo: di là
del Muro (fondamentalismo islamico) si tratta di una distruzione prevalentemente
fisica, di qua è microfisica, nel senso del lavoro sulla minutaglia
infinitesimale del materiale genetico (una "Auschwitz molecolare")
e simbolica. Come si capisce, Daly è in viva lotta contro la Pma,
ma senza passare per la cruna dell'ago dei diritti dell'embrione.
Tutte queste cose che Daly dice, in verità, non le dice malamente
come le sto dicendo io. E' il "come", soprattutto nel suo caso
-la sua lingua, la sua estetica, le sue immagini, il suo Qui in Espansione,
le sue Vegliarde Incoraggianti, le sue Galassie, la sua Speranza saltellante,
il suo senso sincronico del tempo- a dare il ritmo e la misura di un programma
politico visionario così splendente, che dopo che si è stati
sbatacchiati qua e là dal procedere spiraliforme del suo pensiero,
si è quasi convinti del fatto che la politica delle donne non può
essere ridotta a un mansueto esercizio di bontà, come immagina
il gentile Bondi, ma più facilmente sgorga da pratiche estatiche
e stranianti che fanno immediatamente essere ciò che si vorrebbe
che fosse.
"I nostri atti sono Metamorfici" scrive Mary Daly "e non
possono quindi essere descritti adeguatamente da espressioni come 'lottare
per la giustizia'". Sembra di sentire la mistica beghina Hadevijtch
di Anversa, grande amica di Dio, quando ammonisce la sua discepola impaziente
di essere notata dal Signore a tenere gli occhi ben fissi su Amore (Minne)
e a non lasciarsi distrarre dalla seduzione delle buone opere. L'idea
dell'atto metamorfico, dell'esperienza profondamente trasformativa, fa
pensare al crogiolo alchemico. Il vuoto creatore nel crogiolo, una specie
di Graal alternativo, quel vuoto dove ciò che deve avvenire avviene
senza volontarismi e "buone opere", più luogo di un fare
essere che di un semplice fare, richiama alla mente il vuoto dell'esperienza
mistica e dell'estasi. Anche l'estatico non fa nulla, se non fare il vuoto
in sé per chiamare e contenere l'essere, per lasciarsi mettere
incinto dall'essere.
Daly parla infatti di coraggio di far venire fuori dal vuoto apparente
il nuovo essere in divenire. In modo sorprendentemente simile, in "La
mente estatica" Elvio Fachinelli scriveva "ciò che si
genera nel vuoto, nell'estrema rarefazione, è ciò che si
è cercato". La visionarietà allora non è una
fuga impolitica dalla realtà, ma un atto di estrema fiducia nella
realtà, di abbandono al contesto, di radicamento.
Intendo dire, in parole più correnti, che questa della biopolitica
può essere un'occasione straordinaria per generare una politica
delle donne, o una politica tout court in cui le donne possano essere
maestre, che non blocchi il disorientamento e lo spaesamento ingenerati
dall'aver toccato l'intoccabile del bios con il già pensato e il
già fatto, usando vecchie tavole di valori come sbarramento, trincerandosi
dietro parole come "laicità" e "fede", sminuzzando
gli esseri umani in tristi e solitari titolari di miriadi di diritti,
come fa la bioetica. Una politica che invece nello spaesamento si inoltri
accettando il vuoto e facendone di altro, ricercando con la più
grande libertà e fiducia, tenendo buone la visione e la preghiera,
la pratica dell'inconscio e l'estasi, i sensi e gli extra-sensi, il corpo
e lo spirito, il ragionamento e la fede. Mantenendoci aperti come vasi
ad accogliere la nuova parola che ci viene da Dio o da quello che per
comodità chiamiamo tale. E tutto questo è ben diverso da
un "sì", "no" o "me ne vado al mare",
dal ping pong dei diritti contrapposti che assolutizzano il relativo anziché
aprirci all'assoluto, mentre è di questa apertura mi pare, così
almeno dicono tutti, che oggi abbiamo più bisogno.
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