Libreria delle donne di Milano

Io donna, 6 giugno 2002
Per una cultura del lavoro meno antimaterna e più relazionale
Marina Terragni

Una comunità religiosa degli Stati Uniti, quella degli Utteriti, viene attentamente studiata dagli esperti di riproduzione umana perché ogni forma di contraccezione vi è proibita. Mediamente ogni donna utterita mette al mondo una dozzina di figli, l'ultimo arriva intorno ai quarant'anni. Lasciando fare, come si dice, alla natura, dunque le cose andrebbero così per tutte le donne in buona salute dei mondo: dieci-dodici figli, concepiti tra i venti e i quarant'anni. E stop. Salvo eccezioni: non vi è famiglia che non conti una parente vicina o lontana. benedetta da una maternità oltre i quaranta. Un dono dei cielo, si dice di solito: a quell'età fare un bambino è difficile, lo si è sempre saputo. Forse oggi le donne lo sanno di meno. A quarant'anni sono ancora giovani e piene di appeal, sembrano le figlie delle quarantenni di un secolo fa. Ma i loro ovuli dimostrano esattamente l'età che hanno. La vita si è allungata, ma non l'età fertile. Anche i gameti dei loro coetanei sono meno baldanzosi di quelli di un ventenne: ma a cinquanta o sessant'anni, gli uomini un figlio lo possono concepire. Le donne no. Terribile ingiustizia, ma assolutamente insanabile. Elsa, professionista torinese, quarant'anni fra qualche mese, sta cercando un bambino da un paio d'anni. Finalmente ha accanto l'uomo giusto, anche sul lavoro è il momento giusto. Va tutto alla grande: ma il bambino non arriva. Gli ormoni sono a posto, dicono i medici, le ovaie attive, l'utero normoconformato, e anche il partner è in forma. Ma bambini niente. Vent'anni fa, Elsa era rimasta incinta: un unico stupido rapporto a rischio, dice. Poco più di uno sguardo. E aveva abortito. Da allora, vent'anni di pillola e spirale, nell'attesa del momento "giusto". Adesso ogni ventotto giorni è un piccolo lutto, il countdown che si fa sempre più stringente. E' soprattutto pensando alle donne come lei, "in carriera" si diceva tempo fa, attente programmatrici della propria vita, fíduciose nelle possibilità della scienza (" ... se sarà necessario, mi farò dare una mano"), che l'economista americana Sylvia Ann Hewlett ha scritto il libro che ha fatto balzare il cuore nel petto a centinaia di migliaia di trentacinque-quarantenni americane in cerca di bambini: una buona metà delle quarantenni americane di successo non ha figli, contro il 19 per cento dei loro pari maschi. C'è poco da illudersi, sostiene Hewlett in Creating a life: professional women and the quest for children: per la sterilità legata all'età non c'è terapia che tenga. Non lasciatevi ingannare dai casi miracolosi, dalla primipara sessantenne o anche solo quarantacinquenne. La verità è che solo una quarantenne su dieci riuscirà a concepire, e metà di quelle gestazioni andrà a finire male. Due-tre su cento saranno gravidanze extrauterine, in un caso su cento (cinque su cento a 45 anni) il bambino avrà anomalie cromosomiche. Anche con la fecondazione assistita, una quarantacinquenne ha solo due probabilità su cento di concepire. contro il 40 per cento per le venticinque-trentenni.
Basta la caparbietà dei desiderio a dribblare tanti ostacoli? Morale, dice Hewlett: non illudetevi sulla provetta ma privilegiate la maternità, sono gli affetti che contano nella vita. Fate i bambini al momento giusto-giusto, cogliete l'attimo - ed e proprio un attimo che scocca improrogabilmente tra i venticinque e i trent'anni. Lucia, 46 anni, deve il suo unico figlio alla spiccia e casuale comunicazione di un medico: "Nel corso di un intervento all'addome il chirurgo ha dato un'occhiata lì intorno. Ha visto che nelle ovaie c'era qualche innocua cisti. "Si sbrighi a fare un figlio", mi ha detto poi. Avevo solo trent'anni. Ero convinta di avere un sacco di tempo davanti. Ho seguito il suo consiglio, per fortuna". Carlo Flamigni, ginecologo tra i più autorevoli in Italia e pioniere della fecondazione assistita, ritiene che i medici di base potrebbero fare molto per informare le donne: "Le cose che dice Sylvia Hawlett non sono certo novità. Ma è come se le donne non volessero sapere. Fanno sempre riferimento al caso miracoloso, a quella che c'è riuscita: ma in un anno, in Europa i parti di quarantacinquenni non sono più di trecento. Dopo i 43 anni io non pratico feconazioni assistite: sarebbero una fatica e una spesa inutili. Gli ovuli invecchiano. Forse un giorno, con l'aploidizzazione, cioè la formazione di gameti a partire da cellule somatiche, il problema della menopausa non si porrà più. Ma oggi la scienza non può fare nulla per prolungare il periodo fecondo".
L'età giusta? "Tra i venticinque e i trenta"- ribadisce Fiamigni. "Ma l'età giusta è anche quando si può, quando la vita lo consente. Quello che importa è che le donne siano consapevoli, che la scelta si ponga in termini realistici". Realismo spesso surrogato, come dice la psicoanalista Marisa Fiumanò, Autrice di A ognuno il suo bambino (edizioni Pratiche), "un fideismo acritico nei confronti della scienza". "E' una disposizione a credere a quello che noi chiamiamo l'Altro, che tutto sa e tutto può" spiega Fiumanò. "La scienza oggi propone il bambino-oggetto che si può avere quando si vuole: perché non contarci? Le tecnologie della riproduzione, e anche molte donne, ritengono di poter padroneggiare il desderio di bambino, che invece è spurio, contraddittorio, non controllabile". Un desiderio che va e viene, c'è e non si vede, o pare esserci e non c'è, radicato nelle profondità del corpo e della psiche. Silvia Vegetti Finzi, collega di Fiumanò, racconta di un piccolo caso Hewlett scoppiato fra le trentenni italiane alla pubblicazione dei libro di Carlo Flamigni Avere un figlio (Mondadori), pieno di statistiche sconfortanti: "Se lo passavano di mano in mano" dice. "Sbirciando appena, con il cuore in gola. Le ragazze non possono permettersi di sapere ciò che peraltro sanno benissimo: fare un figlio all'età giusta, come molte vorrebbero, comporta una scelta molto onerosa, con il rischio di tagliarsi le gambe sul lavoro. Ma non sono le donne a dover rinunciare ai figli, è il mondo che deve cambiare. La crisi è sul punto di esplodere. Ed è un bene che sia così".
A conferma della criticità della situazione, della dolorosa solitudine delle donne di fronte a una scelta ingiusta (i figli o il lavoro? Gli affetti o se stesse?), è sceso in campo perfino il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che ha definito la denatalità italiana (con il nostro 1,2 per cento siamo, ha scritto Le Monde, una nazione "minacciata dal suicidio") "una delle incognite di fondo nel futuro del Paese", e ha invocato "una politica che consenta alla donna di lavorare con impegno senza rinunciare alla maternità". Recentemente i titoli dei giornali hanno celebrato 'l'Italia che torna a fare figli": un lieve aumento delle nascite (+ 0,3 per cento rispetto al 2000) rilevato dall'Istat nel 2001. Marzio Barbagli, sociologo della famiglia, spegne gli entusiasmi: "Parlare di inversione di tendenza è prematuro. Larresto dei declino registrato al Nord si deve per almeno il 60 per cento alla presenza di immigrati. Uno dei fattori che spiega la denatalità è che i costi di un figlio superano i benefici. In Italia continua a essere così. Chi fa un figlio non ha nessun aiuto". Chiara Saraceno, sociologa torinese, si batte da sempre in favore di maggiori servizi e sostegni alle madri, per una cultura meno punitiva nei confronti della scelta materna. Dice di provare commozione guardando certe sue studentesse piene di talento. Sa che non godranno di uguali opportunità rispetto ai loro compagni: "A un certo punto dovranno correre un rischio, mettere in conto di pagare un alto prezzo. Porsi di fronte all'alternativa secca tra maternità e lavoro. E invece questi due desideri femminili, di figli e di lavoro, vanno definitivamente presi sul serio e tenuti insieme. E' soltanto di qui che si può ricominciare".

Il libro-shock di Sylvia Ann Hewlett va letto come un sintomo, come indizio di una presa di coscienza: non ha più senso pensare al desiderio di maternità e di lavoro come a due desideri da sommare, da tenere insieme con immane fatica. E' ormai chiaro che le donne non intendono rinunciare ad alcuna delle due cose. Vogliono vivere lavorando, e lavorare vivendo. Sfuggire alla separazione maschile tra lavoro e vita. Per le donne il lavoro è relazione: idea sovversiva rispetto al modo di lavorare esistente, competitivo e burocratico. Ma la femminilizzazione del lavoro impone di tenere conto di questa idea, la pone come indispensabile e preziosa per la società. La soluzione non è quella proposta da Hewlett, privilegiare la maternità (così si torna a porre la scelta), ma piuttosto interrogarsi radicalmente sul lavoro, chiedersi perché e come si lavora. Sovvertire le regole. Gli aggiustamenti sperimentati fin qui - flessibilità, part-time - non toccano il cuore del problema. Tornare a porre in primo piano la vita affettiva, come dice Hewlett, può anche voler dire non rinunciare al lavoro, ma innestarvi le proprie esigenze affettive, ripensarlo dall'interno della propria capacità di fare figli e amarli. Costruire una cultura del lavoro meno antimaterna e antirelazionale, che sciolga il conflitto tra desideri.

Lia Cigarini, Libreria delle Donne di Milano (testo raccolto da Marina Terragni)