Libreria delle donne di Milano

Le Monde Diplomatique n. 11, anno XIV, novembre 2010

La grande ondata contestatrice, descritta dalla classe dirigente come una folla di ragazzini capricciosi, esprime il rifiuto consapevole di un sistema. In Francia, si ripropone a intervalli regolari dal 1995. Due anni dopo l'inizio della grande crisi, vengono allo scoperto i meccanismi di un regime economico che, "riforma" dopo "riforma", sta distruggendo le istituzioni create per rendere vivibili le società europee. Nella lotta comune contro questa regressione, i manifestanti - studenti, salariati e pensionati - hanno preso consapevolezza del futuro.

"Métro, boulot, tombeau"
di Danièle Linhart*

LE GRANDI MOBILITAZIONI in tutto il paese, così come il sostegno di cui godono nell'opinione pubblica, testimoniano l'assoluta contrarietà a rinviare l'età minima pensionabile da 60 a 62 anni, in quanto la cosa viene percepita come illegittima. Ma dicono molto anche sul mondo del lavoro, per come viene compattamente vissuto a partire dalla sua "modernizzazione".

Vi traspare la fatica crescente del lavorare e la sensazione di un degrado ineluttabile. Buona parte dei salariati dubita di avere la forza di sopportare a lungo questa situazione. Teme di non riuscire a reggere sul lungo periodo. Gli slogan che riecheggiano nei cortei lo dicono a modo loro: "Morire sul lavoro? Piuttosto crepare!", o ancora: "Una vita dopo il lavoro!". Rivelando in modo inatteso cosa è diventata la fatica quotidiana per un gran numero di francesi. Proprio quando le nuove tecnologie informatiche dovrebbero alleggerire la fatica fisica, quando più di due terzi dei salariati appartiene al terziario e la durata legale del lavoro è di sole trentacinque ore, ecco apparire un'immagine lugubre dell'attività professionale, associata alla morte o al sentirsi privati della vita.

Non sono solo i due anni in più che alimentano immagini tanto tragiche. Gli slogan di oggi ne ricordano altri, gridati in altri tempi: "Non vogliamo passare la vita a guadagnarcela!". Era il maggio 1968 e, nel corso di tre settimane di sciopero generale, gli operai, maggioritari nei cortei, esprimevano la loro aspirazione a una vita diversa. Oggi sono ancora più disperati, come dimostra il recupero esplicito e la trasformazione, in questo autunno 2010, di un altro famoso slogan del 1968: "Métro, boulot, dodo (metrò, lavoro, nanna)" diventa "Métro, boulot, tombeau (metrò, lavoro, morte)". Come si spiega un simile peggioramento?

I francesi hanno paura di non reggere a causa di orari penalizzanti che incidono sul sonno, di gesti ripetitivi che provocano disturbi muscolo-scheletrici (Tms), dell'esposizione delle intemperie, della pressione dei clienti, dell'intensificarsi del lavoro e di tutto ciò che si può definire "penoso" - argomento su cui si sta sviluppando (finalmente) un dibattito pubblico, ma in una prospettiva ancora troppo individualista.

Temono di non reggere anche per altre ragioni, che, al contrario, non vengono ascoltate: paura di non essere abbastanza forti da sopportare un lavoro che impone una pressione costante e si inserisce nella logica del "sempre di più"; paura di non riuscire a raggiungere obiettivi imposti in modo assurdo da dirigenti tanto mobili da ignorare spesso l'attività concreta dei propri dipendenti; paura della valutazione che, per le stesse ragioni, non tiene conto né degli ostacoli incontrati, né degli sforzi fatti. Temono di essere costretti a fare male il proprio lavoro; di essere spinti a commettere errori professionali; di raggiungere livelli d'incompetenza tali da renderli vulnerabili, esposti al rischio di perdere il lavoro e sentirsi sminuiti ai loro stessi occhi.

In effetti, per rafforzare la propria autorità e tentare di porre i salariati in condizioni di auto-sfruttamento, il moderno management pratica la destabilizzazione sistematica. Si industria per questo a creare un clima ostile: i lavoratori non devono sentirsi a casa loro in azienda; non devono poter controllare il proprio lavoro, né sviluppare, con i colleghi, i capi o anche i clienti, relazioni di complicità che permetterebbero di risparmiare le forze. Riorganizzazioni continue, mobilità imposta, traslochi ripetuti portano alla perdita periodica di riferimenti e di professionalità. France Télécom ne è l'esempio più noto.

Se il lavoro diventa complicato e l'ambiente più incerto, l'esperienza accumulata non serve più. Non basta raggiungere l'obiettivo, bisogna superarlo per ottenere la fiducia dei dirigenti. Da qui nasce il carattere arbitrario della valutazione, quasi obbligatoria nella maggior parte delle imprese: se bisogna sorpassare gli obiettivi, di quanto si deve superarli, e con quali mezzi? Nel corso delle inchieste, molti dipendenti confessano di sentirsi sul filo del rasoio, di resistere solo facendo appello a tutte le proprie energie e, soprattutto, di farlo in estrema solitudine, senza poter contare su nessuno se non su se stessi. La dirigenza non aiuta: il suo ruolo consiste anzi nell'accentuare il senso di costrizione. I colleghi, secondo la logica elementare dell'individualismo dominante, sono diventati concorrenti. Così i lavoratori si sentono senza sostegno di fronte alle proprie difficoltà.

Una delle caratteristiche del lavoro moderno consiste in organizzazioni ibride in cui convivono logiche tayloristiche e richiami all'impegno soggettivo dei salari. Basta pensare ai call center, dove l'obbligo aberrante dei testi prestampati e della durata vincolante della comunicazione impone ai teleoperatori, se vogliono ottenere un premio, di personalizzare ad ogni costo la conversazione con osservazioni o commenti giudiziosi e simpatici, di modulare l'intonazione della voce, di avere la risposta pronta.

La direzione, mentre continua a imporre obiettivi quantitativi a breve termine, esige dai salariati che risolvono le tensioni tra qualità e quantità del lavoro fornito (numero di chiamate ricevute, dossier trattati, consegne effettuate...) in un contesto sempre più instabile. Buona parte dell'organizzazione del lavoro è così appaltata agli impiegati subalterni, nominati responsabili della qualità del proprio lavoro. "Autonomi", in un universo retto da esigenze di elevata produttività, senza la possibilità di negoziare né i mezzi né i tempi necessari per raggiungere gli obiettivi, essi si sentono in pericolo, precari, anche quando godono di una posizione stabile. Identiche sono le tensioni e le contraddizioni in cui si muovono i quadri: vedono i loro obiettivi fissati sui traguardi sempre più ravvicinati e sono anch'essi controllati in ogni momento, grazie alla pratica del reporting che li obbliga a giustificare l'uso del proprio tempo - anche ogni mezza giornata, per alcuni di loro.

Nel settore pubblico, l'arrivo in forze di gestione di criteri mutuati dal privato destabilizza altrettanto, se no di più i mestieri, le identità professionali, gli atteggiamenti(1). Per il personale coinvolto, i cambiamenti non tengono conto delle esperienze professionali individuali, ma si impongono con brutalità, disorientando gli uni e gli altri in una ricerca di adattamento ai cambiamenti sia dell'ambiente di lavoro che del pubblico destinatario dei servizi. Mentre il mondo cambia intorno a loro, gli incaricati dei servizi pubblici di stato, delle collettività territoriali e della funzione ospedaliera si sentono oppressi, imbrigliati, impediti a svolgere correttamente il proprio compito.

Bisogna avere nervi saldi, per mantenere il controllo di questo universo. Per non vivere nell'angoscia permanente di sviluppi che potrebbero esigere concessioni contrarie all'etica o alla coscienza di un lavoro ben fatto. In questo senso, il management moderno ha qualcosa del predatore. Pretendendo l'eccellenza, l'impegno totale e soprattutto incondizionato, si rivolge ai più resistenti, ai più forti. Esige flessibilità e disponibilità, a scapito della vita personale e familiare. Si capisce allora meglio, perché le grandi imprese abbiano una piramide di età in cui la base e la vetta sono strette: il management usa e getta in fretta. Difficile resistere, superata una certa età - quella chiamata "senior", che arriva prima dei 50 anni -, difficile inserirsi, se non si è fatta esperienza.

La presenza dei giovani nei cortei, accanto ai padri, prova la loro lucidità: il loro tasso di disoccupazione è uno dei più alti d'Europa. Sanno che la difficoltà ad entrare in un'impresa moderna ha qualcosa a che vedere con quella degli "anziani" a mantenere il posto di lavoro. Gli uni e gli altri pagano le stesse smisurate esigenze del management. E la situazione è ancora più grave, ovviamente, per chi ha un lavoro precario.

Gli studi comparativi di Lucie Davoine e Dominique Méda(2), che risalgono al 2008 e riguardano ventisette paesi europei, rivelano che i francesi sono quelli che si aspettano di più dal lavoro, quelli per cui esso riveste una maggiore importanza, ma anche quelli che ne traggono più delusione e frustrazione.

Un dato che si spiega storicamente: l'elemento determinante della Rivoluzione francese che, liberando gli individui dalla servitù e rendendoli liberi di vendere la propria forza lavoro, ha fatto di quest'ultimo uno strumento di emancipazione; il che si traduce ancora oggi in lotte sociali particolarmente sentite. Il lavoro resta la chiave di volta della società.

L'eccesso di pretese crea cittadini inquieti, in preda a una sensazione di impotenza, chiusi nella sfiducia nei confronti degli altri e di regole del gioco che ritengono di non comprendere. Sono assillati dal problema dei mezzi per sopravvivere: più della metà dei francesi interrogati risponde agli intervistatori che teme di trovarsi un giorno senza fissa dimora.

In occasione della lotta contro la riforma delle pensioni, salariati isolati, che in genere rimuovono le difficoltà in quanto percepite come segno di debolezza o dimostrazione di disadattamento, sembrano conquistare la consapevolezza di un destino condiviso. Esibito da un gran numero di manifestanti, l'autoadesivo "Je lutte des classes" (Io faccio la lotta/lotta di classe), ideato dall'associazione Ne pas plier, simbolizza una possibile alleanza tra l'individualismo imposto dal mondo del lavoro moderno e una tradizione collettiva appannata.

* Direttrice di ricerca del Centre nationale de la recherche scientifique (Cnrs), Crespa - Gtm - università di Parigi - Ovest - Nanterre - La Défense, autrice in particolare di Travailler sans les autres?, Seuil, Parigi, 2009.

(1) Leggere "Comment l'entreprise usurpe les valeurs du service pubblic", Le Monde diplomatique, settembre 2009

(Traduzione di G.P.)