Liberazione - inserto Anni '70: 1971 - 18 febbraio 2007

L'Erba voglio
Lea Melandri

Il libro L'erba voglio (a cura di Elvio Fachinelli, Luisa Muraro Vaiani, Giuseppe Sartori) esce nei primi mesi del 1971 presso l'editore Einaudi. Raccoglie relazioni e contributi di due convegni che si erano tenuti a Milano in giugno e settembre 1970. Intervengono i promotori dell'asilo autogestito di Porta Ticinese, maestre d'asilo, insegnati di scuole elementari e medie, ma anche studenti, operai, psicologi, genitori. I testi che figurano nel libro sono il documento delle loro esperienze di "pratica non autoritaria nella scuola", come si legge nel sottotitolo: difficoltà, perplessità personali, ostacoli, sforzo di elaborazione politica, accompagnati spesso da "singolare allegria e ironia". L'intento, come scrivono i curatori nella quarta di copertina, non è di "escogitare nuove pedagogie o nuove didattiche", ma "di stabilire rapporti liberanti, senza riguardo per le funzioni e le competenze precostituite, di far uscire la scuola dai suoi recinti e cancelli, di sottrarla ai suoi tutori, per farla con altri". La sintesi più efficace è nella domanda che un alunno della scuola media di Melegnano rivolge ai suoi compagni: "Vale di più un ragazzo vivo o un ragazzo scolastico?"
La pubblicazione incontra un successo sorprendente: cinque edizioni in pochi mesi, trentamila copie vendute, discussioni che sorgono un po' dappertutto. Nel libro era stata inserita una cartolina che invitava, chi fosse stato interessato alle tematiche in esso contenute, a rinviarla ai curatori. Ne arrivano tremila. Per rispondere a una richiesta così evidente di collaborazione, nasce nello stesso anno la rivista bimestrale "L'erba voglio", di cui usciranno, tra il 1971 e il 1977, vent'otto numeri.
A partire dal 1976, si affiancherà alla rivista una collana di libri, che ne ampliano i temi e ne segnano la continuità, per "il gusto della franchezza, della ricerca autonoma, dell'imprevisto", "del sotterraneo e del rimosso". Alcuni titoli tra altri: Collettivo A/Traverso, Alice è il diavolo, il testo di Radio Alice a Bologna e dei "giovani del '77"; Lea Melandri, L'infamia originaria. Facciamola finita col Cuore e la Politica; Enrico Palandri, Boccalone; Elvio Fachinelli, La freccia ferma.Tre tentativi di annullare il tempo.
L'antecedente del convegno del 1970 è l'apertura, il 12 gennaio dello stesso anno, dell'asilo autogestito di Porta Ticinese, nato a sua volta dal controcorso di Pedagogia all'Università Statale di Milano nell'inverno 1968-1969, a cui viene invitato lo psicanalista Elvio Fachinelli, in veste di "esperto", o forse meglio, di "inesperto" di pedagogia. Nel documento degli studenti, in cui si parla della necessità di un' istituzione modello per l'educazione collettiva, si respira ancora aria di '68, in polemica con i "falsi rivoluzionari" che se ne erano rapidamente allontanati, creando coi loro gruppi-partito "strutture umane paurose di vivere, incapaci di libertà e avide di protezione, bisognose di capi e di miti". Il fine dichiarato è di recuperare alla politica -come scrive Giuseppe Leonelli nella sua relazione- "i rapporti con il corpo, con la dimensione biologica degli individui", tenendo conto che "l'autoritarismo comincia nell'infanzia, attraverso la famiglia", da cui escono "caratteri adattati e sfiduciati". L'allargamento del gruppo a insegnanti di vari ordini di scuola, a psicologi, genitori, operatori sociali, che stavano tentando esperienze analoghe dentro l'istituzione, viene naturale e immediato. Le riunioni, nel semestre che precede il convegno, si tengono in via Ansperto a Milano. E' lì che avviene anche il mio incontro con Elvio Fachinelli, Luisa Muraro, Giuseppe Sartori, e altri che faranno poi parte con noi della redazione della rivista.
Nel libro, sia pure attraverso voci, modi comunicativi diversi e insoliti -dal racconto di esperienze fatte da singoli insegnanti, a discussioni di alunni, interviste, circolari e sanzioni disciplinari di Presidi-, il tema centrale è la scuola, in quanto "luogo separato", "formalmente senza rapporto con la produzione", ma, di fatto, strumento che "una minoranza utilizza per rafforzare ed estendere i suoi privilegi", per istituzionalizzare rapporti di sfruttamento, gerarchie, ruoli, differenze consacrate dal titolo di studio, per organizzare il consenso intorno a una interpretazione della realtà sottratta a ogni verifica. Non diversamente dalla fabbrica e dalla società in genere, esiste nella scuola "una minoranza (insegnanti, presidi, burocrazia) che stabilisce il da farsi dal punto di vista della qualità, quantità, tempo, e la grande massa (studenti) che deve soltanto fare, come, quanto e nel tempo richiesto", ragione per cui "i comportamenti favoriti sono, da una parte, il potere accentrato, dall'altra la subordinazione generalizzata" (Sandro Ricci). La pratica non autoritaria, a detta dei suoi "pionieristici" protagonisti, non propone una cultura alternativa, una Nuova scuola, tanto meno metodologie didattiche democraticiste. Nasce come "un'azione di tipo negativo": rifiuto di tutte le regole a cui si conforma la prassi educativa vigente -voti, interrogazioni, note, bocciature, orari, programmi-, presa di coscienza dei caratteri repressivi della scuola, dei meccanismi di dipendenza con cui si educano gli studenti alla passività e alla delega; una pratica, perciò, al medesimo tempo "distruttiva e liberatrice". "A partire dalla famiglia, ma anche negli asili nido e nelle scuole materne, chi comanda usa tutti i sistemi per plasmare individui timorati e ossequienti, rispettosi dell'autorità e dell'ordine costituito, in modo che accettino il destino che è stato loro preparato: lavoro e famiglia, evasioni comandate e il voto ogni cinque anni". (Maestre d'asilo)
Ma l'attacco all'istituzione che prima e più di ogni altra agisce come "disciplina dei corpi", irregimentazione e addestramento all'obbedienza, alienazione del sapere dalla vita reale, contenimento delle capacità creative dell'individuo, non è senza ostacoli e difficoltà, psicologiche, sociali e politiche. Nel momento in cui si elimina la figura dell'adulto, investita di autorità e potere, "si vede sorgere - scrive Fachinelli nelle sue Osservazioni sull'asilo di Porta Ticinese- una gerarchia di ferro, basata sulla forza e sulla prepotenza, che impronta di sé i rapporti dei bambini tra loro…sembra di trovarsi in una società violenta, tra il fascista e il mafioso, in cui il più forte e più prepotente protegge quelli della sua famiglia". E conclude: "Qui, la sola politica che abbia un minimo senso liberatorio è una politica radicale, nel senso marxiano di 'prendere l'uomo alla radice'". L' "utopia realizzata", e proprio per questo "sommamente realista", che viene portata avanti nella scuola, guarda dichiaratamente a traguardi più ampi e più ambiziosi: un cambiamento che investa la concezione e l'esercizio del potere, la separazione tra decidere e eseguire, tra la minoranza che controlla la società per i suoi fini e le masse che ne sono escluse. Non una scuola rinnovata dunque, o un' "isola felice", ma un processo politico che si prefigge come sua condizione essenziale l'uscita dalla passività e dalla paura, la presenza e la partecipazione di coloro che sono esclusi dal potere, l'abitudine alla pratica assembleare, alla decisone collettiva: esercizio del potere tra individui uguali e sempre autonomi. Nel libro ci sono già, evidenti, le premesse per l'estensione della pratica non autoritaria "ad altre specifiche forme di oppressione".
Mentre il movimento rivoluzionario si andava frantumando in nuclei chiusi e settari, in tutto simili per struttura gerarchica ai partiti tradizionali, la rivista "L'erba voglio" comincia le sue pubblicazioni, a pochi mesi dall'uscita del libro omonimo. A muovere il gruppo promotore è la stessa "logica del desiderio" e dell' "accomunamento", capacità di interessare e coinvolgere "aree sociali diverse", che aveva caratterizzato la dissidenza giovanile nel '68. Paradossalmente, per me e per molte donne che hanno dato avvio negli stessi anni ai gruppi femministi, il '68 si può dire che sia cominciato, e poi protratto lungo il decennio anni '70, a dispetto di chi vorrebbe seppellirlo dietro l'ondata funesta del terrorismo.
Fin dai primi numeri, note redazionali definiscono quella che resterà nel tempo la "lezione" dell'Erba voglio: "Autorità e potere non sono temi in classe. Il rapporto pedagogico non nasce sui banchi e la parola caserma non si applica soltanto alla scuola. Servitù e liberazione, oggi, riguardano tutti, o nessuno" (n.1, luglio 1971). "Noi non pretendiamo di essere il comitato centrale di nessun partito, e proprio per questo pensiamo di poter svolgere un lavoro politico serio…Purtroppo questa è stata la via percorsa da decine di 'avanguardie', che si sono puntualmente ritrovate, alla fine, a dividere lo spazio del ghetto -il ghetto della sinistra infelice, battuto dal vento della rivoluzione lontana, e gelato nella propria impotenza."
Il rifiuto di chiudersi in una organizzazione, di sottomettersi a un linguaggio unico, è alla base del tipo di collegamento che la rivista stabilisce a partire dai lettori che avevano rispedito la cartolina inserita nel libro: "Secondo noi si può cominciare da una ricognizione delle forze disponibili città per città, regione per regione. I nuclei formati su questa base potrebbero diventare centri di discussione e di messa in comune delle esperienze…Ovviamente il rapporto di questi nuclei con quello milanese è di totale parità. Ci sembra però che in questa prima fase siamo per forza un punto di riferimento, per coloro che hanno letto il libro: a noi quindi tocca il compito di trasmettere e ritrasmettere informazioni e idee, di rispondere alle richieste, e così via." La quantità di materiale ricevuto è stata enorme, così come sorprendente è stata la diversità, molteplicità dei linguaggi, dei modi di agire, delle esperienze, di cui veniva data testimonianza. (Tutto è stato conservato, ed è oggi consultabile nel mio archivio, depositato presso la Fondazione Badaracco, a Milano).
Alla "unitarietà complessiva" della proposta teorica e politica della rivista un contributo fondamentale viene dato dagli scritti di Elvio Fachinelli, di cui uscirà una raccolta nel libro Il bambino dalle uova d'oro, edito da Feltrinelli nel 1974.
"Il deserto e le fortezze", pubblicato in tre parti, tra il 1971 e il 1973, e poi ripreso nel libro col titolo "Il paradosso della ripetizione", è un saggio destinato a lasciare un segno duraturo e originale sia nella storia della psicanalisi che del pensiero e della pratica politica, e forse proprio per questa inusuale connessione ingiustamente dimenticato. La rilettura della "coazione a ripetere", così come era stata definita da Freud, come "qualcosa di originario e elementare nella vita psichica, che oltrepassa ogni istanza di piacere", prende le mosse dall'analisi degli sviluppi del movimento rivoluzionario, e dalla considerazione dei limiti entro cui la cultura di sinistra e il movimento operaio avevano confinato il marxismo. Non era stato visto "ciò che Marx giovane chiamava la passione dell'uomo, il suo bisogno di una totalità di manifestazione di vita umana". Per una stagione "breve, intensa, intransigente", l'agire politico era parso effettivamente capace di interpretare l' "urgente 'bisogno di autorealizzarsi da parte dell'uomo", ma l'esperienza successiva aveva visto di nuovo la politica "separarsi" dalla vita nella sua interezza, "mutilarsi" di alcune delle ragioni più elementari del comportamento individuale e collettivo. Parlando della "zona d'ombra" in cui sono lasciate le donne, sia dalla storia ufficiale che dalle teorie rivoluzionarie, Luisa Muraro scriverà che questa "dislocazione" non dimostra un loro limite, ma l'inadeguatezza della politica rispetto alla complessità dell'esperienza. "Facilmente riconosciamo il modo economicistico di rappresentare e usare la vita umana…Non è sentimentalismo: la vita di un essere umano è più che il suo posto nella produzione; lo sappiamo per l'esperienza concreta iscritta in noi dalle ore passate a giocare, a fare l'amore, a ricordare, a dimenticare. La separazione tra uomo e donna, il dominio di quello su questa, hanno amputato l'essere umano della sua umanità…una vera e propria disumanizzazione (essere donna, come essere bambino o vecchio o malato è parte interna costitutiva della sua umanità) non inferiore, anche se diversa, di quella che comporta il lavoro sfruttato." (n.3/4, marzo 1973).
Il ripensamento della politica, nel pensiero di Elvio Fachinelli, si allarga fino a includere la vicenda originaria: il passaggio del bambino "da essere biologico a essere inserito nell'universo simbolico proprio dell'uomo"; l'intensità e significatività delle esperienze fatte nel periodo di maggiore dipendenza e la tendenza alla loro ripetizione; quella sorta di nostalgia che paradossalmente spinge all'agire, sia nel senso di una replica cieca, sia nel senso di un tentativo di uscirne; l'intreccio tra il tempo-tartaruga del supporto biologico,e il tempo-freccia della società storica. La radicale, esplicita messa in questione di ogni dualismo -biologia/storia, corpo/mente, ecc.-, che attraversa tutti gli scritti pubblicati su "L'erba voglio", si esprime, nel suo aspetto più immediato, nella "scandalosa inversione tra il racconto di esperienze particolari e il linguaggio codificato della politica", dall'altro in quello che ne è il presupposto di fondo, la presa di distanza dai saperi istituiti, dell'individuo e del sociale, cioè la psicanalisi e il marxismo. La ricerca di nessi, tra vita e politica, natura e cultura, corrispondeva d'altra parte ai cambiamenti in atto in una società di massa: si modificano i limiti tra individuo e collettivo -un individuo sempre più funzionale e integrato "in un sistema la cui regolazione è già prevista in anticipo"-; cambia il rapporto tra realtà e sogno, il sogno si fa più vicino e può essere afferrato: attraverso i mezzi di comunicazione, voci e immagini percorrono il mondo "come un inconscio diffuso a tutta la ionosfera". "Per poter lavorare con la gente -si legge in una nota redazionale del primo numero- per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, attraverso i suoi sogni."
La critica all' economicismo e alla politica separata diventa ancora più radicale nel momento in cui la rivista comincia a pubblicare scritti legati alla elaborazione teorica e pratica del femminismo: Madre mortifera di Lillith e Fachinelli, La nudità (di Antonella Nappi), Dora, Freud e la violenza (di Lea Melandri), Le donne invisibili (di Luisa Muraro), Pratica dell'inconscio e movimento delle donne (di Alcune femministe milanesi), L'infamia originaria (di Lea Melandri), Diario di militante (di Luisa Passerini). Un femminismo attento all'esperienza personale e ai risvolti profondi del rapporto uomo-donna "entrava di diritto" nella tematica della rivista, ma avrebbe anche aperto, verso la metà degli anni '70, difficoltà, divergenze, all'interno del gruppo che aveva sostenuto fino allora la rivista, la messa in crisi di rapporti che erano stati "personali e politici", e infine l'uscita dalla redazione di Luisa Muraro e mia, tra il 1975-1976.