Liberazione - 19 dicembre 2007

Cattive Madri, Cattive Leggi.
Anna Simone

Le retoriche sul corpo femminile, inteso solo come un involucro dedito alla riproduzione, non sono state solo messe in discussione dal femminismo statunitense contemporaneo. Non afferiscono cioè solo alla messa in discussione della norma eterosessuale intesa come principio fondatore di qualsiasi codificazione sociale e culturale (De Lauretis e Butler). Se quest'ultima corrente di pensiero mette in discussione la creazione di "soggetti" di serie B quali le lesbiche, i gay, i transgender etc. a partire dalla norma eterosessuale, all'interno del "pensiero della differenza" sessuale alcune autrici da tempo si stanno impegnando nel mostrare come anche la retorica della donna-madre, buona, accogliente e foriera di luce e speranza per il futuro sia da decostruire del tutto, o almeno in parte. Il romanticismo dell'essere madre reale o simbolica che sia è stato, per esempio, abbondantemente messo in discussione da Rosi Braidotti. Quest'ultima non esce dal genere e dal suo posizionamento incarnato, ma ci racconta il corpo della donna incinta come un corpo abnorme, mostruoso, un corpo che anziché confermare gli ordini simbolici biologici e culturali li spiazza, li eccede. La Braidotti, assieme a Carla Lonzi, Adrienne Rich e molte altre sono anche alcune tra le autrici predilette da Caterina Botti in Madri Cattive (Il Saggiatore, pp. 250, euro 18), un bel libro su cui vale la pena soffermarsi.
L'autrice, docente in Etica delle donne alla Sapienza e in Bioetica filosofica presso l'Università di Siena si sofferma con pazienza e con un autentico bisogno di "vederci chiaro" attorno ad alcuni nodi tematici ed esperenziali che, si può dire, hanno attraversato e continuano ad attraversare gran parte del pensiero femminista italiano: il rapporto che intercorre tra l'essere donna e l'essere eventualmente anche madre, la gravidanza e la bioetica, la necessità di ripensare l'idea di corpo, di soggettività autonoma e al contempo relazionale. Una ricostruzione compiuta tassello per tassello che lascia invece spazio, nella seconda parte del libro, ad una serie di esempi pratici: parto e dolore, gravidanza, stili di vita e interventi coatti, gravidanze post-mortem.
L'impianto teorico della Botti è piuttosto convincente soprattutto perché parte da un'esperienza diretta. Quella, appunto, dell'aver portato avanti una gravidanza che le ha "dato da pensare" senza cadere nella trappola del pensare questa stessa esperienza come il momento fondativo ed imprescindibile dell'esperienza femminile in quanto tale. E infatti il punto di partenza del suo saggio è un'interrogazione che apre a molteplici letture: perché si continua a pensare che esistono delle "buone madri" e delle "cattive madri"? Chi stabilisce la moralità più o meno prossima ai soliti stereotipi costruiti attorno al ruolo della madre nelle nostre società? Perché una maternità viene definita responsabile solo quando entra nel tunnel dell' iper-medicalizzazione?
Domande che spostano -foucaultianamente direi- la riflessione su parto, gravidanza e maternità da un "ordine del discorso" che "oggettiva" il corpo femminile ad un'analisi più attenta alla necessità di decostruire i saperi-poteri che sottendono i "discorsi" sul femminile. E' evidente che l'origine di tutte queste domande va individuata nel nodo irrisolto donna=madre e cioè nel "destino" riproduttivo a cui è stato inchiodato il corpo femminile fin dalle origini, siano esse riconducibili alla narrazione biblica o alla narrazione delle cosiddette "scienze esatte" (definizione, come sappiamo, piuttosto discutibile). A tal proposito la Botti, prima di arrivare a sostenere una sua tesi in materia, interroga gran parte del pensiero femminista europeo e non. Cita Simone de Beauvoir e il suo lascito femminista senza lasciarsi del tutto convincere dalla tesi secondo cui le donne, per proseguire nel loro cammino "emancipazionista", avrebbero dovuto abbandonare l'idea di diventare madri. Attraversa il pensiero di Carla Lonzi e l'idea secondo cui la maternità doveva essere "risignificata" piuttosto che "negata", mette in discussione il pensiero della Irigaray e l'idea "dell'ordine simbolico della madre" di Muraro (e delle interpretazioni fatte da Boccia e Zuffa) sino ad arrivare ad Adrienne Rich.
Sul famoso "Nato di donna" l'autrice si sofferma di più, probabilmente perché attraverso questo testo le risulta più facile sostanziare la sua tesi. Rich, come tutte sappiamo, ha messo in discussione l'istituto della maternità considerandolo come una costruzione sociale, simbolica e culturale, come un dispositivo messo in atto dal patriarcato per esercitare un controllo sul corpo femminile inteso solo come corpo riproduttivo spodestandolo, così, di tutta la sua singolarità e di tutta la sua soggettività. Una singolarità ed una soggettività che, effettivamente, può anche optare per l'esperienza della maternità a condizione che sia una libera scelta delle donne. Una scelta che in quanto tale, ci dice a giusto titolo la Botti, non può obnubilare la soggettività e la libertà femminile. Il processo di de-mitizzazione della maternità, pertanto, "riafferma il fatto che si nasce da donna, senza che questo voglia dire che tutte le donne devono far nascere". E quindi perché il pensiero femminista dovrebbe accettare una riproposizione universale del materno seppure in chiave solo simbolica? Questo non è forse un tornare indietro, ma anche un elemento di discrimine rispetto, per esempio, al lesbismo? Botti qui sembra fare suo anche il pensiero straordinario, secondo me, di Teresa De Lauretis e termina la sua incursione nelle varie anime del pensiero femminile e femminista sostenendo una tesi del tutto convincente: se anziché mettere al centro l'idea di madre si provasse a spostare la riflessione sulle singole modalità di viversi la sessualità, la passione ed il desiderio, probabilmente anche il parto e la maternità diverrebbero delle "esperienze" possibili del corpo di cui dare conto senza ridurle ad un'identità prescrittivamente ed essenzialisticamente data. D'altro canto il cruccio anti-essenzialista della Botti ci viene bene esplicitato anche quando si sofferma su gravidanza e bioetica. Quest'ultima si occupa di aborto, di embrioni e di morenti ma mai di donne incinte probabilmente perché -sostiene l'autrice- gravidanze e parto "non vengono considerate esperienze, ambiti o momenti su cui rivendicare in modo specifico una libertà o una responsabilità".
Non è tra l'altro un caso, per esempio, che in ambito bio-etico spesso gioca un ruolo importante e decisivo il cattolicesimo il quale, come tutti sappiamo, dà per scontato il ruolo "naturale" della gravidanza e della procreazione. L'etica cattolica, insomma, non è l'ethos della libertà di matrice foucaultiana perché agisce prescrittivamente, secondo precetti che non afferiscono all'ambito dell'esperienza, né tantomento alle pratiche di libertà messe a punto per incrinare i piani dei saperi-poteri costruiti ad hoc sul corpo delle donne e non solo. Per questo è importante ripensare anche le categorie di corpo, soggetto e relazione dinanzi all'esperienza della gravidanza. Un ulteriore affondo che compie la Botti parlandoci di corpi eccedenti, incarnati, sessuati ma al contempo relazionali, impossibili cioè da ridurre ad un'essenza. "Corpi che contano" per tutti, per il mondo, per la società, per la cultura ma non certo per la Legge 40. Quest'ultima, infatti, non ci impressiona perché restringe o impedisce la possibilità di procreare. Al contrario ci impressiona perché dal testo di legge scompare la donna, scompare la sua possibilità di scegliere al punto tale da ridurla ancora una volta, solo al ruolo di madre, etero, sposata, possibilmente non immigrata e magari anche di buona famiglia. Nulla, insomma, di più lontano dalla realtà.