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Liberazione
- 22 novembre 2005
Soffriamo
una carenza della dimensione intima
di Roberto Melloni
Quello che
scrive Angela Azzaro, nel dibattito avviato da Liberazione sulla violenza,
spesso omicida, degli uomini sulle donne, contiene una richiesta di autenticità
che l’autrice non ha trovato nei commenti degli uomini. Anzi, dietro
la sociologia delle analisi, Angela Azzaro ha ritrovato, e lo dice, il
tradizionale nascondersi degli uomini che non parlano di sé, che
non parlano “a partire da sé”. Le donne “hanno
interrogato se stesse per interrogare e criticare il mondo” dice
l’Azzaro e questo metodo sembra proporre come l’unico che
determini la possibilità di uno sguardo autentico. Se questo non
avviene, non avverrà, allora siamo ancora nel mondo della chiacchiera.
Eppure, per
la prima volta, tanti uomini, a partire da questa serie di articoli che
Liberazione ospita, parlano della violenza degli uomini contro le donne.
Perché non parlano della loro di violenza? E’ perché
non vi hanno riflettuto o non sanno/vogliono riflettervi? Se diciamo ipocrisia
diamo un giudizio morale. E’ utile? Forse no, e allora è
perché non sanno parlarne? Probabilmente è così.
E da questa specifica incapacità che dobbiamo partire.
C’è
nel maschile una carenza della dimensione intima, un’incapacità
relazionale di genere, al di là e dentro le singole biografie.
Una debolezza maschile a dire delle proprie difficoltà; una mancanza,
una falla nel privato della propria capacità critica. Una cecità
imbarazzata rispetto ad alcuni passaggi della propria esperienza: la propria
sessualità, l’affettività che vuole legarsi e che
teme sempre il legame stesso.
E ancora,
soprattutto, la difficoltà degli uomini di capire la propria rabbia,
che è comune, di genere e che non viene letta se non come un’inclinazione
caratteriale dei singoli. Questa rabbia, gli scoppi di rabbia maschili,
diffusissimi, sono il preludio della violenza che assume poi i connotati
ora delle botte, della violenza domestica, sessuale, omicida a seconda
della cultura con cui convive.
Per questo
non esiste, o non è solo la dimensione psicopatologica del singolo
chiamata il “raptus della follia” con la quale si codificano
le violenze omicide maschili, ma esiste una trasversale sorda rabbia misogina
di genere maschile che prende forme diverse. Ora, io della mia rabbia
vissuta non mi sento di chiedere solo compassione. Personalmente, se dovessi
immaginare un mondo senza il femminile sarebbe il buio Antartide.
Quello che
ho di positivo nelle mie capacità relazionali l’ho appreso
alfabetizzandomi dall’amore e, fortunatamente, dall’intransigenza
di mia moglie, che mi ha educato verso l’altro da me all’attenzione
affettiva. Ed è, il tentativo di applicare questa dimensione umana,
quasi, il mio lavoro quotidiano per vivere io con meno amarezza, per vedere
di più il mondo con lo sguardo dolce di mia madre. Ma sento che
è ancora una rappresentazione da un libretto dove il mio “io
grandioso” è ancora sempre a caccia di rivali, di affermazioni,
nella paura di non essere nessuno, di non valere niente.
Acquistare
uno sguardo critico biografico sulla propria dimensione d’esperienza
intima è, ha ragione Angela Azzaro, ancora una necessità.
Gli uomini non hanno ancora un luogo comune per farlo, una tecnica, ma
certo è il pudore, ancora, l’ostacolo vero. Forse questa
inconfessata dimensione di solitudine comincia ad apparire una prigione
dove ancora tutti ci dichiariamo innocenti. Che cosa dobbiamo trovare
fuori dalle sbarre, come tutti i prigionieri? Un linciaggio? Un perdono?
Compassione? Anche questo può essere materia di dibattito.
C’è
poi la dimensione di sottrarsi alle responsabilità che non è
solo maschile, che non vive solo nell’incapacità di veder
il proprio io biografico. C’è, a mio parere, una negativa
posizione collettiva d’innocenza politica e sociale che ostacola
la verità intorno ai fatti collettivi. Siamo davvero come Shakespeare,
spettatori che pensano che i fatti quotidiani a cui assistono appartengano
agli inglesi, al massimo agli scozzesi.
Che cos’è
lo sguardo innocente rispetto alla realtà, oggi? “Avete notato
- dice Amos Oz in una sua intervista - che oggi il diavolo non sembra
mai invadere una persona? Non abbiamo più Faust...? Voi ed io siamo
sempre persone per bene. Il diavolo è sempre l’establishisment.
Questo è a mio giudizio kitsch etico”.
C’è
la necessità per tutti di abbandonare il luogo della propria innocenza
politica e sociale, che non vuole sottrarsi alla necessità specifica
maschile di una soggettività capace non solo di specchiarsi ma
anche di riconoscersi in quello che accade, ma uscire dall’innocentismo
completa, questo sia per gli uomini che per le donne, le possibilità
di individuare quello che i problemi domandano.
Anche il
sentimento di indignazione, tra gli altri, non aiuta a completare le proprie
capacità critiche rispetto a tutto quello che accade intorno a
noi. L’indignazione a sua volta testimonia un’impotenza e
prelude a una rabbia inetta alla risoluzione dei problemi. Quale sguardo
critico allora davanti, per esempio, ai tragici fatti quotidiani della
violenza degli uomini sulle donne? Innanzi tutto e ancora usiamo lo sguardo
dell’esistenza quotidiana per come si presenta. Questo deve essere
al centro di quello che analizziamo: il “come” il fatto è,
arriva sotto i nostri occhi.
Cronaca:
una donna, dopo sei anni, esce dal coma in cui era caduta, e accusa, “picchiata
dal mio ex”, il fatto è ancora da accertare giuridicamente,
ci è presentato in circa quattrocento battute dentro le milioni
che un giornale contiene. Il fatto non viene analizzato, non viene approfondito,
né viene presentato come uno di una serie, nella drammatica sequenza
cui appartiene: non raccontiamo che è solo garantismo giuridico
verso l’ex convivente accusato dalla donna.
Camus, che
pure era intellettuale e degli intellettuali conosceva e stimava lo sforzo
e la serietà, ammoniva dal pericolo di essere come le tricoeteuses
della dialettica che ogni volta che cade una testa, rifanno le maglie
del ragionamento squarciato dai fatti.
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