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manifesto - 1 aprile 2008
Nell'arte
di Mona Hatoum una pratica minacciosa Le sue opere provocano quella
speciale tensione intrinseca all'"estetica del rischio". Utensili
da cucina troppo affilati, tappeti di spilli, stanze con circuiti elettrificati,
superfici scivolose La Biennale Donna di Ferrara inaugurerà domenica
la sua tredicesima edizione con una antologica dedicata all'artista, nata
a Beirut da famiglia palestinese, poi "esiliata" a Londra
Arianna
Di Genova Una
gabbia per due, stanza d'albergo con doppio lavabo e un senso di claustrofobia
che soffoca e opprime il respiro dell'ospite di turno. Ma anche lettini per
l'infanzia, sedie con coltelli, pareti elettrificate, grattugie con denti
troppo appuntiti e utensili che si trasformano sotto gli occhi attoniti in
creature terrificanti, quasi dotate di una vita propria dal contorno horror.
La "domesticità" di Mona Hatoum, artista anglo-palestinese
(nata a Beirut, è finita in esilio dopo un viaggio in Inghilterra nel
1975 mentre nel suo paese scoppiava la guerra civile) è assai poco
rassicurante e somiglia più a una minaccia perpetua. È così
che l'artista vive il continuo slittamento identitario di se stessa e del
suo popolo. Sarà lei, con il suo arredo casalingo costellato di trappole
e profondamente ansiolito, la guest star della Biennale Donna di Ferrara,
presso Palazzo Massari, giunta alla sua XIII edizione (a cura di Lola Bonora,
vernissage per il 6 aprile, visitabile fino al 6 giugno). Una vera antologica
di Mona Hatoum che riunisce circa cinquanta sue produzioni, a partire dalle
prime performance e dai video (tra cui Measures of Distance, 1988, dove le
pagine di un diario intimo si mescolano a frammenti di vita quotidiana della
madre stessa dell'artista) fino alle installazioni più recenti, compresa
Misbah, lanterna magica che "spara", nella notte stellata dei bambini,
silhouettes di soldati armati al posto di fiabesche marionette. In mezzo,
ci sono collane di capelli impreziosite da un busto Cartier, endoscopie su
cui gli spettatori vengono invitati a camminare (Corps étranger, alla
Biennale di Venezia del 1995), tappeti "distensivi" (in realtà
per fachiri) con la scritta Welcome composti da un prato di spilli, mappamondi
realizzati con saponi scivolosi e confini sempre incerti. Hatoum da anni lavora
su una frontiera oltre la quale c'è il baratro, relazioni umane ambigue,
oggetti che parlano solo di inimicizia, ricordi drammatici di una terra martoriata.
Per rappresentare le linee-barriera che avvolgono il mondo in una rete di
proibizioni, l'artista ha scelto delle biglie di vetro, mosaico mutante per
un equilibrio impossibile e utopico. Non esiste arte senza rischio e la sua
è una poetica della "resistenza". Alta tensione da applicarsi
al corpo, agli ambienti, allo sguardo del pubblico. La sua linea di design
sforna da anni una sorta di modelli per strumenti di tortura. "Pensi
che ai miei mobili ti ci puoi appoggiare, che possano dare conforto al corpo
stanco e invece sono inutilizzabili, creano allarme e disagio, sono delle
prigioni", confessa candidamente. Come Deep Throat, all'apparenza bianca
tavola imbandita per un pasto frugale in famiglia che però induce a
un moto di repulsione quando si scopre nel piatto la ripresa video della gola
e dell'atto (cannibalico) del mangiare in diretta. "L'arte - dice ancora
Hatoum - per me che ho vissuto in un paese destabilizzato e in guerra, è
una cosa difficile". È disorientamento, nomadismo, una tattica
di sabotaggio. "Agli inizi degli anni ottanta, ho utilizzato il mio corpo
nelle performances perché lo consideravo il mio unico documento d'identità:
è attraverso i sensi, infatti, che tutti abbiamo esperienza del mondo".
Da lì, dall'uso spregiudicato della propria individualità, nasce
quell'alienazione collettiva che crea uno stato di allerta e produce camere
di sorveglianza con circuiti elettrici, luci poliziesche in agguato e nessuna
fiducia in un futuro privo di guerre (il conflitto è in atto, mai sopito,
anche all'interno di se stessi quando la vita è stata un progressivo
allontamento dalle amate radici). Soprattutto, ogni opera di Mona Hatoum esige
una reazione fisica da chi osserva, un intervento attivo. Il set della paura
allestito richiede un contributo etico, ma anche ironico. Che sia pure un
attacco di nausea o disgusto, non importa. Offre l'occasione di un viaggio
in un "luogo sconosciuto", è un esorcismo di magia bianca
che aiuta ad "uscire dal ghetto del privato per socializzare le proprie
esperienze". Per questo motivo, Mona Hatoum ha affermato più volte
di preferire che le sue opere vengano acquistate, o comunque mostrate, nei
musei. Soltanto così si può raggiungere il maggior numero di
persone possibile e fornire un'utile chiave per aprire le porte della coscienza.
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