| Il
manifesto - 01 Luglio 2009
Bausch,
il teatro perde il suo corpo di
Gianfranco Capitta
Addio
alla più grande coreografa e danzatrice del mondo. Da Wuppertal, cuore
carbonifero d'Europa, ha esportato i suoi spettacoli e insegnato alla fine del
'900 un'arte scabrosa. "Ci sono dei momenti in cui si resta senza parole,
perduti e disorientati. A questo punto comincia la danza" Pina Bausch
è morta ieri a mezzogiorno, dopo un breve ricovero, molto riservato, perché
lei non amava parlare della sua malattia, e non gradiva che alcuno gliene parlasse.
Ha continuato, si immagina facilmente, fino all'ultimo a fumare, a prendere un
bicchiere con le mani eleganti, a guardare il mondo con i suoi occhioni leggendari,
sempre sgranati e attenti anche davanti alla più piccola delle creature. Ma
con lei, che era nata nella Solingen delle mitiche lame nel 1940, e aveva quindi
69 anni, se ne va davvero un pezzo del 900. Un pezzo importante perché
da quarant'anni Philippina Bausch, detta Pina, e affettuosamente dai giovani danzatori
anche «la zia Pina», ha plasmato l'immaginario di diverse generazioni.
Dopo molte esperienze di studio, tecniche e affinamento di stili diversi, ha inventato
un linguaggio tutto suo, il teatrodanza, che si è rivelato fondamentale
per raccontare e per leggere il mondo. Un linguaggio che dopo di lei è
divenuto patrimonio comune, strumento collettivo perché ha unito e miscelato
per sempre gli strumenti della rappresentazione, con tutte le loro possibilità,
la loro storia, i loro segreti, con quello del corpo, della sua libera espressione,
della sensuale padronanza. Qualcosa che riguarda tutti, e che tutti, volendo,
possono usare ed esprimere. Il suo è stato un assoluto teatro della
seduzione. Del dolore quando questa non si realizza e non conquista l'altro; del
piacere quando la vicinanza dei corpi scatena energie e fiamme che possono diventare
incontrollabili. Detto così potrebbe risultare pura retorica, ma chiunque
abbia visto uno dei suoi mille spettacoli, sa che c'era dentro un eros, un ineffabile
afflato fisico che a volte poteva risultare perfino inconfessabile. Una visione
del corpo femminile e di quello maschile poetica e realista, che non nascondeva
il conflitto tra i generi, ma anzi ne esaltava la potenza che, differenziandoli,
rendeva merito ad entrambi. Laica ed egualitaria, totalmente emancipata nonostante
l'apparenza da distinta fraulein, la bellissima Pina aveva una saggezza sorniona,
un sesto senso ineluttabile per capire situazioni oscure o indagare oltre la patina
dell'esteriorità. Ne fanno fede i suoi tanti spettacoli dedicati ognuno
a una città (a parte Roma che ne ebbe due, Viktor capostipite del genere,
e poi Oh Dido). Per decine d'anni ha disegnato il proprio personale atlante, visitando
instancabilmente (e senza accusare mai stanchezza e stress), e approfondendo ogni
volta con i suoi danzatori/attori, una realtà, un paese, una cultura. Con
immagini «ingenue» alternata ad altre forti, molto forti, che hanno
fatto epoca. Lei era così, in grado di mescolare il carnale e l'etereo,
il quotidiano e il sublime, e di farti danzare tutto questo davanti agli occhi,
mentre l'orecchio s'incantava ad un flusso che, mixandoli, rovesciava il nord
e il sud del mondo. E le scene allusive e scultoree (prima di Rolf Borzik e poi
di Peter Pabst, entrambi suoi fidi, come la costumista Marion Cito) bloccavano
quegli attimi in scatti dell'eternità. Solo a nominare tutti quei titoli
ci si può commuovere: hanno scandito una sorta di adolescenza collettiva,
a partire dalla fine degli anni settanta. Bandoneon, Kontakthof non a caso rieditata
in anni recenti con danzatori anziani e poi con bambini, le sue prime apparizioni
ai festival e nei teatri d'opera, la rassegna alla Fenice, le sue Tanz Oper memorabili,
l'esplosione in Germania di 1980 in quello stesso anno, che era poi quello dell'Orestea
di Stein di cui nel ricordo rimane la complementare altra faccia dello specchio.
E poi Nelken e decine di altri che ci vorranno libri per raccontarli (pure se
già oggi ne esistono anche in italiano di grande pregio, con i testi di
Leonetta Bentivoglio e le immagini di Francesco Carbone che hanno dedicato a lei
tanto lavoro). Tra tutti i suoi spettacoli, quella sorta di perla nera costituita
da Cafè Müller. Che aveva il brivido di vederla protagonista in scena,
tra quelle austere sedie da caffè di una sala di eterna attesa. In mezzo
ai suoi fidi primi danzatori (Airaudo, Minarik, Mercy, lo stesso Borzik) c'era
lei a danzare la disperazione col corpo sonante assieme alle melodie di Henry
Purcell. Spettacolo meraviglioso, e ogni volta triste fino alle lacrime. Anche
se lei era la perfezione di un corpo rispetto al dolore e alla sua elaborazione.
Uno spettacolo che lei ha molto amato, e che ha riproposto nel tempo (una apparizione
mitica ad Avignone, nella cour d'honneur). Lo doveva ripresentare anche lo scorso
anno a Londra, tanto che più d'uno aveva prenotato l'aereo. Poi desistette,
forse addirittura fu ricoverata già allora in gran riserbo. Come stavolta,
che però è rimasta a Wuppertal, la città mineraria della
Rühr che lei ha reso celeberrima nel mondo, come non era riuscito neanche
a Wenders che sotto la monorotaia volante aveva spinto la sua Alice nella città.
Bausch ci si era installata, vi aveva fondato la sua compagnia, e alternando l'ospitalità
offerta dai due teatri esistenti, quello d'opera e quello di prosa, ne ha fatto
un sito capitale. Da quel cuore carbonifero d'Europa, lei ha sublimato ed esportato
danza in tutto il mondo. Ha formato artisti ed allevato spettatori, ha creato
un gusto e ha insegnato alla fine del Novecento un'arte nuova, basilare e elementare
all'apparenza, quanto profonda e scabrosa nei suoi significati. O nei suoi sensi,
come sarebbe meglio dire. Pina era molto diretta, per quanto garbata. La grazia
era la sua corazza, ma la verità non la spaventava. Non faceva discorsi
fumosi, ma lasciava parlare i suoi spettacoli e i corpi e le composizioni dei
suoi attori/danzatori. Nel ricordo di lei si mescolano ambienti diversissimi:
con una coppa di champagne omaggiata da mezza Parigi all'Opéra Garnier,
o dalle autorità tedesche e indiane al debutto a Delhi del Bamboo Blues
in arrivo sabato a Spoleto; e allo stesso modo, ma forse con maggiore entusiasmo,
nel campo rom a ballare al termine della sua tournée romana, e addirittura
ad una festa assai notturna di Muccassassina. O all'osteria di Testaccio, davanti
alle predilette vongole sugli spaghetti, lasciare sconcertato il gestore gentile
che voleva farla riparare all'interno dall'acquazzone di giugno, mentre lei preferiva
restare ai tavoli all'aperto, e la pioggia che le riempiva il bicchiere le pareva
una citazione dell'Eden biblico. Pina Bausch non amava la forma ingessata delle
interviste, ma dopo cena, davanti a un bicchiere di rosso, amava moltissimo raccontare
i suoi viaggi, la sua vita, il suo «punto di vista». Che aiutavano
non poco a capire la nascita del suo teatro e della sua danza. Con Pina, e
il suo teatrodanza, se ne va un'amica che sapeva far vedere allo spettatore le
sue cose più segrete, meno risolte, forse anche più scabrose, in
una rappresentazione che le rendeva più accettabili, e più comprensibili.
Gianfranco Capitta Pina Bausch è morta ieri a mezzogiorno, dopo un breve
ricovero, molto riservato, perché lei non amava parlare della sua malattia,
e non gradiva che alcuno gliene parlasse. Ha continuato, si immagina facilmente,
fino all'ultimo a fumare, a prendere un bicchiere con le mani eleganti, a guardare
il mondo con i suoi occhioni leggendari, sempre sgranati e attenti anche davanti
alla più piccola delle creature. Ma con lei, che era nata nella Solingen
delle mitiche lame nel 1940, e aveva quindi 69 anni, se ne va davvero un pezzo
del 900. Un pezzo importante perché da quarant'anni Philippina Bausch,
detta Pina, e affettuosamente dai giovani danzatori anche «la zia Pina»,
ha plasmato l'immaginario di diverse generazioni. Dopo molte esperienze di studio,
tecniche e affinamento di stili diversi, ha inventato un linguaggio tutto suo,
il teatrodanza, che si è rivelato fondamentale per raccontare e per leggere
il mondo. Un linguaggio che dopo di lei è divenuto patrimonio comune, strumento
collettivo perché ha unito e miscelato per sempre gli strumenti della rappresentazione,
con tutte le loro possibilità, la loro storia, i loro segreti, con quello
del corpo, della sua libera espressione, della sensuale padronanza. Qualcosa che
riguarda tutti, e che tutti, volendo, possono usare ed esprimere. Il suo è
stato un assoluto teatro della seduzione. Del dolore quando questa non si realizza
e non conquista l'altro; del piacere quando la vicinanza dei corpi scatena energie
e fiamme che possono diventare incontrollabili. Detto così potrebbe risultare
pura retorica, ma chiunque abbia visto uno dei suoi mille spettacoli, sa che c'era
dentro un eros, un ineffabile afflato fisico che a volte poteva risultare perfino
inconfessabile. Una visione del corpo femminile e di quello maschile poetica e
realista, che non nascondeva il conflitto tra i generi, ma anzi ne esaltava la
potenza che, differenziandoli, rendeva merito ad entrambi. Laica ed egualitaria,
totalmente emancipata nonostante l'apparenza da distinta fraulein, la bellissima
Pina aveva una saggezza sorniona, un sesto senso ineluttabile per capire situazioni
oscure o indagare oltre la patina dell'esteriorità. Ne fanno fede i
suoi tanti spettacoli dedicati ognuno a una città (a parte Roma che ne
ebbe due, Viktor capostipite del genere, e poi Oh Dido). Per decine d'anni ha
disegnato il proprio personale atlante, visitando instancabilmente (e senza accusare
mai stanchezza e stress), e approfondendo ogni volta con i suoi danzatori/attori,
una realtà, un paese, una cultura. Con immagini «ingenue» alternata
ad altre forti, molto forti, che hanno fatto epoca. Lei era così, in grado
di mescolare il carnale e l'etereo, il quotidiano e il sublime, e di farti danzare
tutto questo davanti agli occhi, mentre l'orecchio s'incantava ad un flusso che,
mixandoli, rovesciava il nord e il sud del mondo. E le scene allusive e scultoree
(prima di Rolf Borzik e poi di Peter Pabst, entrambi suoi fidi, come la costumista
Marion Cito) bloccavano quegli attimi in scatti dell'eternità. Solo
a nominare tutti quei titoli ci si può commuovere: hanno scandito una sorta
di adolescenza collettiva, a partire dalla fine degli anni settanta. Bandoneon,
Kontakthof non a caso rieditata in anni recenti con danzatori anziani e poi con
bambini, le sue prime apparizioni ai festival e nei teatri d'opera, la rassegna
alla Fenice, le sue Tanz Oper memorabili, l'esplosione in Germania di 1980 in
quello stesso anno, che era poi quello dell'Orestea di Stein di cui nel ricordo
rimane la complementare altra faccia dello specchio. E poi Nelken e decine di
altri che ci vorranno libri per raccontarli (pure se già oggi ne esistono
anche in italiano di grande pregio, con i testi di Leonetta Bentivoglio e le immagini
di Francesco Carbone che hanno dedicato a lei tanto lavoro). Tra tutti i suoi
spettacoli, quella sorta di perla nera costituita da Cafè Müller.
Che aveva il brivido di vederla protagonista in scena, tra quelle austere sedie
da caffè di una sala di eterna attesa. In mezzo ai suoi fidi primi danzatori
(Airaudo, Minarik, Mercy, lo stesso Borzik) c'era lei a danzare la disperazione
col corpo sonante assieme alle melodie di Henry Purcell. Spettacolo meraviglioso,
e ogni volta triste fino alle lacrime. Anche se lei era la perfezione di un corpo
rispetto al dolore e alla sua elaborazione. Uno spettacolo che lei ha molto amato,
e che ha riproposto nel tempo (una apparizione mitica ad Avignone, nella cour
d'honneur). Lo doveva ripresentare anche lo scorso anno a Londra, tanto che più
d'uno aveva prenotato l'aereo. Poi desistette, forse addirittura fu ricoverata
già allora in gran riserbo. Come stavolta, che però è rimasta
a Wuppertal, la città mineraria della Rühr che lei ha reso celeberrima
nel mondo, come non era riuscito neanche a Wenders che sotto la monorotaia volante
aveva spinto la sua Alice nella città. Bausch ci si era installata, vi
aveva fondato la sua compagnia, e alternando l'ospitalità offerta dai due
teatri esistenti, quello d'opera e quello di prosa, ne ha fatto un sito capitale.
Da quel cuore carbonifero d'Europa, lei ha sublimato ed esportato danza in tutto
il mondo. Ha formato artisti ed allevato spettatori, ha creato un gusto e ha insegnato
alla fine del Novecento un'arte nuova, basilare e elementare all'apparenza, quanto
profonda e scabrosa nei suoi significati. O nei suoi sensi, come sarebbe meglio
dire. Pina era molto diretta, per quanto garbata. La grazia era la sua corazza,
ma la verità non la spaventava. Non faceva discorsi fumosi, ma lasciava
parlare i suoi spettacoli e i corpi e le composizioni dei suoi attori/danzatori.
Nel ricordo di lei si mescolano ambienti diversissimi: con una coppa di champagne
omaggiata da mezza Parigi all'Opéra Garnier, o dalle autorità tedesche
e indiane al debutto a Delhi del Bamboo Blues in arrivo sabato a Spoleto; e allo
stesso modo, ma forse con maggiore entusiasmo, nel campo rom a ballare al termine
della sua tournée romana, e addirittura ad una festa assai notturna di
Muccassassina. O all'osteria di Testaccio, davanti alle predilette vongole sugli
spaghetti, lasciare sconcertato il gestore gentile che voleva farla riparare all'interno
dall'acquazzone di giugno, mentre lei preferiva restare ai tavoli all'aperto,
e la pioggia che le riempiva il bicchiere le pareva una citazione dell'Eden biblico.
Pina Bausch non amava la forma ingessata delle interviste, ma dopo cena, davanti
a un bicchiere di rosso, amava moltissimo raccontare i suoi viaggi, la sua vita,
il suo «punto di vista». Che aiutavano non poco a capire la nascita
del suo teatro e della sua danza. Con Pina, e il suo teatrodanza, se ne va
un'amica che sapeva far vedere allo spettatore le sue cose più segrete,
meno risolte, forse anche più scabrose, in una rappresentazione che le
rendeva più accettabili, e più comprensibili. |