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il manifesto
- 2 aprile 2005
4 FEBBRAIO-4
MARZO
Dalla prigione alla libertà
Gli ultimi giorni Un'attesa infinita, fino a quel viaggio in automobile.
Poi è arrivato Nicola Calipari
GIULIANA SGRENA
«Facciamo
un video per chiedere a Berlusconi il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq
e poi ti lasciamo andare a casa». I miei sequestratori me l'avevano
detto da subito, appena rapita all'uscita dall'università di An-Nahrein.
Invece ho dovuto aspettare più di una settimana prima che si presentassero
i «responsabili» del video promesso. Avevo paura, ma ero quasi
contenta che succedesse qualcosa e soprattutto di incontrare qualcuno
del gruppo dei sequestratori a un livello più alto: finalmente
avrei potuto cercare di far valere le mie ragioni. E in effetti una discussione
c'è stata. Si è presentato uno col volto coperto da una
kefiah a scacchi rossi e bianchi. Aveva in mano un biglietto e ha cominciato
a leggere: «Noi abbiamo il diritto di liberare il nostro paese.
Come il Vietnam, l'Algeria...» a questo punto l'ho interrotto. «Certo
che ne avete il diritto, ma lo venite a dire a me che mi sono sempre battuta
contro la guerra e contro l'occupazione?». Allora, quello a volto
coperto ha risposto: sappiamo benissimo chi sei però ci devi aiutare,
devi fare un appello per il ritiro delle truppe a Berlusconi. La mia rabbia
aumentava: «Se il ricatto è la mia vita in cambio del ritiro
delle truppe potete uccidermi subito, perché non otterrete nulla.
Berlusconi è un alleato di Bush, non vuole il ritiro e poi non
accetterà mai questi condizionamenti. Al contrario, l'opinione
pubblica in Italia è molto sensibile alla situazione irachena e
la contrarietà alla presenza italiana in Iraq è molto diffusa,
quindi dovete contare sul popolo italiano più che su Berlusconi».
Altrimenti, «uccidetemi subito: è più facile uccidere
una povera donna indifesa che andare a combattere i soldati Usa per strada»,
ho azzardato.
Mi hanno detto che non mi avrebbero uccisa, ma senza convincermi: «Aiutaci
solo a fare questo appello». Abbiamo discusso molto prima di girare
questo video sulla necessità di rivolgersi al governo, al popolo
italiano e alla famiglia. Insistevano molto sulla famiglia. Quando mi
avevano presa mi avevano chiesto quanti anni avevo - 56 - se ero sposata
- avevo risposto di sì anche se non sono sposata legalmente (ma
il distinguo poteva risultare difficile da spiegare) e quanti anni aveva
mio marito - 53. «Come, hai un marito più giovane? E quanti
figli hai?» «Nessuno». «Nessuno!». Troppe
incongruenze (per loro), forse volevano mettermi alla prova chiedendomi
di rivolgermi a mio marito. Avevano una piccola videocamera che non sapevano
usare bene. Il tutto mi sembrava molto improvvisato. Eravamo nella stanza
dove mi hanno tenuto per tutti i trenta giorni. Mi hanno fatto indossare
i miei vestiti, quelli che avevo al momento del sequestro. Avevo una maglia
nera, non so perché nel video trasmesso dalle televisioni risultava
verde. Mi hanno raccontato che in Italia sul colore dei miei abiti si
è molto discusso, ci si voleva leggere chissà quale segnale.
Ma era la mia vecchia felpa nera. Forse il cambiamento di colore è
stato causato dal neon usato quando è saltata la luce.
Il primo
video
Nessuno di
loro sapeva l'italiano quindi mi hanno fatto scegliere tra francese o
inglese. Ho scelto il francese. Nel momento in cui dovevo rivolgermi al
mio compagno ho invocato Pier: mi hanno interrotto subito. «Devi
dire mio marito!». «Ma si chiama Pier», ho cercato di
ribattere. «Non importa». Ma dopo il per me insolito «mio
marito», ho aggiunto Pier. A quel punto, quando ho iniziato a rivolgermi
a lui, senza rendermene conto sono passata all'italiano. E in quello stesso
momento mi ha assalito una grande emozione. L'emozione di parlare direttamente
a lui. Ovviamente io contavo molto su Pier, noi due abbiamo passato una
vita insieme, una storia d'amore ma anche di politica, sapevo che avrebbe
fatto di tutto per salvarmi. Ma temevo di responsabilizzarlo troppo. «Salvami
tu», gli dicevo. E se poi finiva male? Capivo che gli stavo buttando
addosso un peso enorme. Eppure non potevo fare altro in quell momento.
Poi quando ho chiesto a uno dei miei guardiani se avesse visto il video
trasmesso da al Jazeera mi ha risposto di no: «Il satellite non
funziona e poi il video deve essere riuscito così male che penso
non sia stato utilizzato», mi ha detto. «Meno male»,
mi sono consolata.
Pensavo proprio
di aver sovraccaricato Pier di responsabilità. Non sapevo quale
livello di drammaticità potesse avere il video, io non sapevo nemmeno
che faccia avessi. Sono stata venti giorni senza potermi guardare allo
specchio. Durante la registrazione, i sequestratori volevamo che io caricassi
ancora di più i toni, che mi mostrassi terrorizzata, più
di quanto lo fossi. A parte le forzature che mi imponevano, nel testo
e nell'atteggiamento, le cose che ho detto nel video sono le cose che
ho sempre sostenuto. Penso che chi lo ha visto e mi conosce abbia capito
che ero molto presente, ero in qualche modo razionale. Non ero completamente
nelle loro mani, manipolata fino in fondo. In genere non sono mai molto
razionale e calcolatrice, invece in quel frangente mi sono scoperta meno
emotiva del solito. L'emozione stava tutta in quelle lacrime.
Qualche giorno
dopo, uno dei miei due guardiani, quello che era solitamente più
«duro», è venuto a dirmi che era rimasto stupefatto
di aver visto il mio nome sulla maglietta di Totti. Mentre l'altro passava
pomeriggi interi ad ascoltare i versetti del Corano, questo preferiva
le partite di calcio alla televisione e fin primi giorni del sequestro
mi parlava dei giocatori italiani, mi faceva domande sulle squadre di
calcio. Lui era un tifoso della Roma, Francesco Totti era il suo idolo
e vedere Totti con il mio nome sulla maglia per lui era il massimo. Allora
io scherzando gli ho detto: «Sai, io sono della Juve». E lui
ha cominciato a sbeffeggiare Del Piero. Eppure questa storia è
servita far capire ai miei sequestratori quanto fosse ampia la solidarietà
nei miei confronti in Italia. Quando stavo lì io non avevo capito
fino a che punto fosse stata alta la mobilitazione per la mia liberazione.
Della manifestazione di Roma organizzata dal manifesto avevo avuto solo
una mezza idea. Ancora oggi, ogni giorno scopro chi e come si è
dato da fare per salvarmi la vita. E alla fine, prima di liberarmi, anche
i miei rapitori mi hanno detto: «Abbiamo capito che tu sei molto
apprezzata nel tuo paese. Scusaci per quello che ti abbiamo fatto».
Una doccia
I rapporti
con i miei guardiani subivano alti e bassi, a volte erano più disponibili,
in altre occasioni erano tesi e arroganti. A volte si impuntavano sulle
cose più stupide, come quante volte andare in bagno. Se mi rivolgevo
a uno di loro mentre ero nel corridoio mi sgridavano: «Una donna
non deve parlare nel corridoio», dicevano. A volte invece, quando
vedevano che stavo male, si davano da fare per trovare la medicina giusta.
Se non mangiavo provavano a portarmi qualcos'altro. Devo confessare che
a volte giocavo sul fatto che ero un povera donna, una donna debole. Era
l'unico tasto sul quale potevo battere con loro. Affermazioni contro le
quali ho lottato tutta la vita... ma non potevo fare altro.
C'è
stato un momento in cui ho avuto bisogno dell'assistenza di una donna.
L'ho detto loro ed effettivamente hanno fatto venire una donna che mi
ha portato tutto quello di cui avevo bisogno. Negli stessi giorni ho spiegato
che avevo molti dolori articolari e mi hanno fatto avere delle medicine.
Per quattro, cinque giorni sono rimasta sempre a letto. Mi alzavo solo
per andare in bagno, faceva freddo e quindi mi mettevo sempre la sciarpa
in testa. Loro mi portavano da mangiare e andavano via. Alla fine della
settimana mi sentivo lercia, dovevo assolutamente fare una doccia. Non
era una cosa semplice. Con l'acqua fredda non l'avrei mai fatta, quindi
bisognava aspettare che ci fosse l'energia elettrica almeno per due ore
in modo da poter riscaldare l'acqua e che questo avvenisse a un'ora decente,
non in piena notte. Avere i capelli bagnati, la cervicale, insomma i malanni
che capitano a una certa età, non era il caso. Loro non capivano
molto ma a volte cercavano di aiutarmi. Alla fine sono riuscita a fare
la doccia. Poi sarebbe diventato un mio obiettivo realizzabile ogni quattro
o cinque giorni.
Aria di
trattativa
Quando mi
hanno fatto consegnare l'orologio e mi hanno detto che doveva andare a
Roma perché mio marito doveva riconoscerlo ho capito che la trattativa
stava cominciando. Loro mi dicevano: «Tornerai a Roma». E
io dicevo sì, ma quando? Rispondevano sempre: «Domani, inshallah!».
Poi una mattina mi hanno regalato una catena d'oro: «Tieni, il nostro
capo ti regala questa». Io ho pensato che era un buon segnale, mica
mi regaleranno una collana se vogliono uccidermi, mi consolavo. Il pomeriggio
dello stesso giorno mi hanno detto: per noi la tua vicenda è conclusa,
realizziamo il video della liberazione e te ne vai a Roma. Naturalmente
mi hanno detto cosa dovevo dire: dovevo ringraziare per essere stata trattata
bene e l'esibizione della collana sarebbe stato il segno. «Sorridi»,
mi dicevano. Ma io ero nervosa, accanto a me vi erano due mujahidin armati,
uno di loro prima del mio «ringraziamento» aveva letto un
proclama, io non avevo capito nulla, nemmeno le parole arabe che conosco,
avevo paura che quella fosse una rivendicazione, oppure che fossero le
condizioni per la mia liberazione. Allora ho guardato negli occhi il mujahidin
che aveva letto il proclama: «Ma è vero che mi libererete?».
E lui mi ha risposto, sempre fissandominegli occhi: «Muslims no
lies», i musulmani non mentono. Inshallah! Ma invece i giorni passavano,
e non succedeva nulla, fino a venerdì 4 marzo.
Come al solito
avevo chiesto se era il giorno buono per la mia partenza. E loro mi avevano
detto che c'erano ancora dei problemi da risolvere. Improvvisamente, dopo
alcune ore, sono arrivati i miei due carcerieri vestiti in maniera insolita,
con i pantaloni e la camicia all'occidentale: «Complimenti, parti
per Roma» e mi hanno detto stringendomi la mano. Mi hanno restituito
ciò che avevo nella borsa, documenti e soldi, tranne il telefono
satellitare, il cellulare, la macchina fotografica digitale e un blocchetto
di appunti.
Il momento
era estremamente delicato, me ne rendevo conto: «Se hai paura, prima
di uscire devi tranquillizzarti - mi hanno detto - Se usciamo e ci intercetta
una pattuglia americana o irachena e tu fai qualche segnale noi siamo
pronti a rispondere al fuoco e saltiamo tutti in aria. Non si salva nessuno».
Avevo capito e avevo una paura folle. Avrei voluto indossare un vestito
come quelli delle donne wahabite, come quelli che ricordavo indosso alle
due Simone nel video della loro liberazione, mi sarei sentita più
tranquilla. Invece non hanno voluto, mi hanno fatto mettere i miei occhiali
da sole, li hanno imbottiti di cotone e poi mi hanno fatto calare sugli
occhi la mia sciarpa nera e siamo usciti.
L'ultima
ora
Da quel momento
io non ho visto più niente, mi hanno messa in macchina e siamo
partiti. Non so quanto tempo ci abbiamo messo per arrivare nel posto dove
ci siamo fermati, ma non molto. Forse una ventina di minuti, anche se
avevo la percezione del tempo molto dilatata per la paura. Oltre ai due
sequestratori c'era, mi pare di aver capito, anche un autista. Quel giorno
a Baghdad pioveva, proprio come il giorno del sequestro. La macchina a
un certo punto si è fermata su una pozzanghera, ho sentito lo splash
e ho pensato: proprio adesso dovevamo impantanarci... Invece eravamo arrivati.
Da quel momento è iniziato un conto alla rovescia interminabile.
Mi hanno detto: «Adesso ti verranno a prendere» e mi hanno
lasciata sola. Sentivo intorno a me altre macchine, voci in lontananza,
qualche sirena della polizia, e soprattutto un elicottero americano che
volteggiava sopra di me, si allontanava e poi tornava. Ero veramente terrorizzata
perché mi rendevo conto che bastava un non nulla per far saltare
tutto. A un tratto uno dei sequestratori è tornato e mi ha detto:
«Ancora dieci minuti». «Dieci minuti - ho pensato -
come posso resistere». Non sapevo che fare e ho deciso di contare
fino a 600, ma lentissimamente in modo che i dieci minuti finissero prima
della conta e forse nel frattempo qualcuno sarebbe arrivato. Invece no.
«Continuo fino a 700», mi sono detta. E' stato allora che
mi sono resa conto che una macchina mi stava illuminando con i fari. Istintivamente
mi sono rincantucciata. Poi avrei saputo che era la macchina sei miei
liberatori. Stavo lì in questo angolo buio senza muovermi, vestita
tutta di nero. E pensavo: se adesso si apre la porta cosa faccio? Poi
la porta si è aperta davvero e ho sentito quella voce: «Giuliana,
Giuliana sono Nicola, non avere paura, sono amico di Gabriele e di Pier,
sono venuto a prenderti, sei libera, libera». Pensavo fosse finita,
invece era finito solo il sequestro. (2-fine)
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