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il manifesto, 2 giugno 1988 La
lingua batte dove il dente duole Maschile e femminile nella lingua
italiana, un campo di conflitto politico di Luisa Muraro Dedico
questo scritto ad Alma Sabatini, autrice delle Raccomandazioni per un uso non
sessista della lingua italiana e, coadiuvata da altre, di Il sessismo nella lingua
italiana. Ho cercato di scrivere come le avevo anticipato ormai quasi un anno
fa. Ho alcune critiche da farti, le dissi, ma sono fondamentalmente daccordo
con la tua impresa. Lei mi rispose: grazie per laccordo e grazie per le
critiche. Nel
nostro paese la questione della lingua è sempre stata una questione politica.
Oggi viene posta soprattutto da donne e questo corrisponde al fatto che oggi la
politica più viva è delle donne. Al centro del lavoro di Alma
Sabatini cè, precisamente, la questione del rapporto fra generi grammaticali
e generi sessuali. Le Raccomandazioni, il cui scopo è essenzialmente pratico,
vogliono che la rappresentazione linguistica della differenza sessuale non sia
di pregiudizio al sesso femminile. Ma, in contrasto con la soluzione di chi, per
eliminare la discriminazione, propone linvisibilità linguistica della
differenza sessuale, le Raccomandazioni sono per la sua rappresentazione nelle
forme proprie della lingua. La natura politica della questione viene in luce
solo se teniamo presente lo scopo delle Raccomandazioni nella sua interezza. Mi
spiegherò alla buona. Normalmente Margaret Thatcher (le chiedo venia, tiriamo
fuori sempre lei) è un primo ministro, ma può diventare una maledetta
troia nel linguaggio dellopposizione. Il rispetto della sua carica si esprime
prescindendo dalla sua identità sessuale, identità che le viene
pittorescamente restituita dalla rabbia di un avversario, sicuramente maschio
e probabilmente indignato con lei per qualche buona ragione. Non si tratta
di privare le opposizioni del loro gergo, se gli serve a fare il loro mestiere.
Ma non si può nemmeno mutilare una lingua della sua potenza espressiva.
La lingua italiana, per esempio, è capace di significare in una sola parola
loccupazione sociale e il sesso di una persona: operaia, operaio, pescivendola,
pescivendolo
Perché allora non diciamo ministra, ministro? La risposta
si presenta piuttosto facile: per ragioni extralinguistiche, come la secolare
esclusione delle donne dalle cariche pubbliche e la perdurante ostilità
di molti verso quelle che accedono a tali cariche. Nel nostro sistema simbolico-sociale,
è ammesso pacificamente che una donna lavori in fabbrica o che venda pesci,
ma non altrettanto che governi sugli uomini. Questa risposta è sostanzialmente
giusta, salvo che le ragioni indicate non sono veramente extralinguistiche, a
causa che il linguaggio verbale (che è, fra i linguaggi, quello più
istituito, più storico, più umano) assorbe le ragioni di una cultura,
le fa sue, principalmente attraverso luso e in forza della competenza linguistica.
Che, come ci insegna Saussure, appartiene in prima istanza ai comuni parlanti. Ma,
naturalmente, quella stessa lingua che attraverso luso e la competenza dei
comuni parlanti ha fatto sue le pieghe mentali di una società sessista,
in forza degli stessi principi è disposta a fare suoi gli atteggiamenti,
nuovi o antichi, di chi combatte il sessismo. Questo è, in breve, il nodo
di problemi in cui Alma Sabatini ha messo i piedi con le sue Raccomandazioni per
un uso non sessista della lingua italiana. Lo
scrittore androgino Dopo alcuni mesi dalluscita delle Raccomandazioni,
due insegnanti (che poi interverranno sul Manifesto del 23-4-1986: Graziani e
Lazzerini, Il marito del Signor Preside), mi segnalarono alcuni interventi vivamente
ostili alle proposte avanzate da Alma Sabatini. Li esaminerò insieme a
voi, mi pare il modo più semplice di rendere lidea del nodo problematico
che dicevo prima. Esaminerò, in ordine, gli interventi di Giulia Borgese
e Pietro Citati sul Corriere della sera, di Beniamino Placido intervenuto due
volte su La Repubblica, e di Umberto Eco su LEspresso. Giulia Borgese,
Il nuovissimo vocabolario della Donna sapiens, respinge orripilata le Raccomandazioni
ma simpatizza con la loro autrice e scherza da cima a fondo. Fa bene, perché
lunico argomento linguistico da lei portato vale ben poco. Per respingere
il femminile di finanziere: finanziera, la Borgese oppone che questa parola ha
già un suo significato. E cita lo Zingarelli, «il più scolastico
dei vocabolari, che le nuove puriste della lingua italiana non hanno neanche consultato».
Sbaglia. Lo Zingarelli, infatti, conia per donne anche nomi come chimica o fisica,
senza badare al fatto che queste parole hanno già un altro significato.
?Basterà leggersi la Nota sul femminile a pag. 381 del Nuovo Zingarelli
minore, undicesima edizione. Il fatto è che, mentre lo Zingarelli si sforza
di stare vicino alle tendenze proprie della lingua italiana, Giulia Borgese è
vicina a quelle donne la cui ambizione è un titolo professionale messo
al maschile. Scrive infatti: «Quanto ci hanno messo le donne a farsi chiamare,
quando se lo meritano, avvocato, magistrato, medico o architetto?» Quando
se lo meritano
Avremmo insomma una specie di nostra carriera per cui le
più brave passano al maschile e le altre restano con un titolo al femminile. Per
Pietro Citati le Raccomandazioni sono un libro tutto da ridere, un vero capolavoro
comico. A parte questo giudizio (ricordo, per parte mia, daver trovato comicissimo
un titolo apparso sui giornali dieci anni fa: Moro rapito dalle Br), largomento
più strettamente linguistico di Citati sarebbe che nomi come uomo e scrittore
«non sono maschili: sono androgini». Che cosa vuol dire? Escluso che
egli ignori la teoria corrente dei generi grammaticali, in italiano, ed escluso
anche che voglia cambiarla, ho pensato che si tratti di una sua idea sul rapporto
fra generi grammaticali e generi sessuali, unidea dettata dalla sua familiarità
con la scrittura letteraria. Mi spiego. La letteratura è come una continua
ricerca di superamento della convenzionalità che sembra caratterizzare
i segni del linguaggio verbale. La letteratura, specialmente la poesia, cerca
di fare che ci sia rispondenza fra il significante e il significato, quasi aspirando
a trovare una rispondenza fra il segno e la cosa. Così, davanti al maschile
non marcato usato per indicare individui di sesso maschile o femminile, Citati
vuole pensare che il maschile non marcato non sia veramente tale, ma che sia compenetrato,
nel suo stesso significato, di sesso maschile e di sesso femminile. Androgino,
appunto. Se questa mia interpretazione non è tutta sbagliata, allora
la mia critica al suo pezzo sul Corriere è fondamentalmente una sola, il
suo non aver capito o non aver detto che Alma Sabatini, da lui presa in ridere,
è molto vicina non dico alle sue posizioni ma certamente alla sua preoccupazione,
che si sente in tutto il suo articolo, di salvare la differenza femminile dalla
omologazione al maschile. Allopposto di Citati, Beniamino Placido e ancor
più Umberto Eco, nelle loro critiche alle Raccomandazioni, enfatizzano
la convenzionalità del rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali.
Cè da dire che né luno né laltro sembra,
sottolineo il sembra, rendersi conto che in gioco è la significazione della
differenza sessuale. Essi pensano che lo scopo di Alma Sabatini e compagne sia
di raggiungere la «parità linguistica». Lespressione
è di Placido e traduce semplicisticamente quello che Alma Sabatini chiama
simmetria nella rappresentazione linguistica dellessere donna/uomo. Il
convenzionalismo non basta Del duplice scopo delle Raccomandazioni, Placido
e Eco hanno dunque presente soltanto una parte, eliminare i pregiudizi antifemminili
dalla lingua come tale. Se si trattasse solo di questo, il convenzionalismo sarebbe
una risposta utile. Ma non si tratta solo di questo. Non mi soffermo sul primo
dei due interventi di Placido, Questori e Questrici, perché è già
stato commentato a suo tempo su questo giornale dalle amiche Graziani e Lazzerini,
in termini che io condivido pienamente. Al loro commento aggiungo soltanto che
la logica economica messa in campo da Placido («la lingua obbedisce anche
e sopratutto a una logica economica. Dire il più possibile con il minor
numero di parole»), non solo non esiste ma, se esistesse, darebbe più
ragione alle avversarie di Placido che a Placido. Anchio trovo brutto questrice
ma certo dice di più di questore (sarà uomo o sarà donna?)
ed è più
economico di questore donna. Nel suo
secondo intervento, Donne in battaglia, egli non menziona più la presunta
logica economica della lingua. Ma, invece di avanzare una piccola quanto dovuta
autocritica in proposito, il suo tono si fa solo più aspro. Al tempo dei
proverbi avrebbero commentato: ha la coda di paglia. Così, dopo aver divagato
qua e là, egli prorompe: «Dovete lasciarvelo dire allora: che la
vostra concezione della lingua è terribilmente rudimentale». Continua
linfuriato Placido: «La lingua riflette la realtà, voi dite,
quindi cambiamo la lingua ecc. Ma chi ve lha detto? Ma dove lavete
letto? La lingua serve a riflettere la realtà, qualche volta; ma anche
e più spesso ad anticiparla; ma anche e più
spesso a compensarla». Logica e giustizia gridano vendetta. Se
qualcuno gli dicesse che i ciliegi fioriscono, Placido insorgerebbe: ma chi te
lha detto? ma dove lhai letto? Solo perché i ciliegi, oltre
a fiorire, sfioriscono, fanno foglie, frutti ecc. La sua illogica sparata non
fa che coprire una scorrettezza più grave, relativamente al contesto. Le
Raccomandazioni non si basano sulla tesi che la lingua riflette la realtà,
ma su una tesi ben diversa, più sfumata, e chiaramente esposta nelle prime
righe dellIntroduzione. Basterà citarle: «La premessa teorica
alla base di questo lavoro è che la lingua non solo riflette la società
che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, limmaginazione e
lo sviluppo sociale e culturale». È sulla base di questa tesi
che può prender senso il fare raccomandazioni sulluso della lingua.
Simili raccomandazioni, se la lingua non fosse che il riflesso della realtà,
non avrebbero senso alcuno. Ma la logica non devessere il forte di Beniamino
Placido. Viene per ultimo Umberto Eco con un pezzo sullEspresso, intitolato
La sentinella con i baffi. Prima di esaminarlo, vediamo quello che dice, in
fatto di sentinelle, La Grammatica storica del Rohlfs. Nomi femminili come
la sentinella, la spia, la guardia, in origine astratti (spia viene da spiare,
sentinella da sentire, più o meno come la posa da posare), poi riferiti
a persone di sesso maschile, sono rari e fanno problema, tanto che in certi casi
luso ha finito per portarli al maschile: il podestà, il camerata,
il guardiamarina. Fin qui il Rohlfs. Va detto che le tendenze che hanno agito
in passato non comandano pari pari gli sviluppi futuri di una lingua. Oggi, riguardo
alla differenza sessuale, è dato osservare, accanto alle forme tradizionali
della sua cancellazione linguistica (per esempio, il maschile non marcato), una
certa tendenza alla sua neutralizzazione, che ha cause disparate: imitazione della
lingua inglese, emancipazionismo femminile, invasione dellimmaginario tecnologico. Le
Raccomandazioni cercano di contrastare questa tendenza perché nega visibilità
al sesso femminile perpetuando in forme ammodernate lantica cancellazione
delle donne. Umberto Eco, invece, le è favorevole e questa è, a
mio giudizio, la vera ragione per cui egli si oppone al progetto linguistico di
Alma Sabatini e compagne. Vediamo con quali argomenti. La
moglie del papa Il primo capoverso della Sentinella con i baffi è
gioco retorico. Per screditare le femministe che intervengono in questioni linguistiche,
Eco pretende che il neolgismo herstory (her=di lei, story=storia) coniato dalle
femministe americane, sarebbe nato da una loro (ovviamente errata) etimologia
di history (storia). Stante però che certe innovazioni avvengono proprio
sulla base di etimologie sbagliate, egli spiega quale avrebbe potuto essere la
corretta base linguistica di herstory: le femministe americane, scrive, avrebbero
potuto dire che, etimologia o no, history può far pensare istintivamente
a una storia di lui (his). Dovè il gioco? Eco si sdoppia: da una
parte cè il professore di etimologia che dimostra lignoranza
delle femministe, dallaltra cè il linguista saussuriano che
corregge le vedute troppo rigide del professore e soccorre le ignoranti femministe.
In realtà le americane hanno coniato herstory non «perché
non sapevano di etimologia» ma perché a loro non interessava letimologia
ma altro, e dellargomento etimologico si sono servite spregiudicatamente,
così come può fare qualsiasi parlante e come Eco sa che qualsiasi
parlante può fare. Passiamo agli argomenti veri e propri di Eco che
sono, schematicamente, tre. Primo argomento. «In molte lingue il genere
grammaticale non coincide necessariamente con il genere sessuale.» Gli esempi
sono presi del mondo inanimato (dove non ci sono generi sessuali) e poi dalle
solite guardie e sentinelle. Siamo di nuovo vicini al gioco retorico. La tesi,
grazie a quel non necessariamente è innegabile, ma è
altrettanto innegabile che in italiano, quando si parla di esseri umani, la tendenza
prevalente è di far coincidere il genere grammaticale con quello sessuale. Secondo
argomento. In italiano, come in altre lingue, mettendo al femminile il nome di
una funzione, scrive Eco, «non si suggerisce che il ruolo sia ricoperto
da una donna, ma che quella donna sia la moglie di chi ricopre quel ruolo».
Qui il non necessariamente gli è rimasto nella penna (o nel
computer). La regola vale (per quello che vale) per le funzioni riservate esclusivamente
a uomini. Nessuno oggi pensa che la professoressa sarebbe la moglie del professore.
Del resto, nessuno, esclusi i bambini, ha mai pensato che la papessa sarebbe la
moglie del papa. Anche i convenzionalisti devono ammettere che la realtà,
nella misura in cui è nota ai parlanti, agisce sullinterprestazione
dei segni. Il terzo argomento di Eco è che «le tradizioni linguistiche
non si correggono con decisioni al vertice». Con questo argomento io consento
dal profondo del cuore. Ma devo aggiungere che, così formulato, esso non
dice nulla su una contraddizione da me riscontrata e mai risolta quando insegnavo
nella scuola dellobbligo. Per dirla immaginosamente: se nellalto Medioevo
fosse esistito lobbligo scolastico come ai nostri giorni, le lingue volgari
si sarebbero mai formate? Per anni ho insegnato la nostra bella lingua ai semibarbari
delle periferie urbane. Da loro, dai tanti periferici come loro, poteva nascere
un nuovo volgare? Voglio dire che, accanto agli interventi per innovare, le nostre
lingue conoscono anche, e in maniera ben più massiccia, quelli per conservare
e che a questo tipo di interventi non è quasi possibile opporre la forza
di unautentica tradizione. Sregolatezza
regolata Lerrore che troppo spesso facciamo è di non considerare
che la vita di una lingua è internamente animata da tendenze e da tradizioni
fra loro contrastanti e non sempre accordabili. E di pretendere che la tendenza
giusta sarebbe una e una sola. Non è nemmeno necessario che sia una per
le esigenze della comunicazione, come alcuni sostengono. Luniformità
viene più dal bisogno di conformità che dalla ricerca di comunicare. I
rapporti delle donne fra loro, con gli uomini e con il mondo stanno cambiando
profondamente, e questo fa sì che la significazione della differenza sessuale
nella lingua che parliamo, sia diventata una specie di campo di battaglia e un
possibile terreno di sperimentazione per tendenze contrastanti. Alla realtà
che cambia convengono e sono anzi necessarie sperimentazione e sregolatezza. Penso
a un regime di sregolatezza regolata, per dire: di soluzioni linguisticamente
accettabili ma fra loro difformi e anche concorrenti. Considero accettabile tutto
quello che serve a mettere in parole ciò che altrimenti non avrebbe parola. La
polemica più appariscente è a livello lessicale, dove è più
facile pensare di operare interventi, innovativi o conservati. Il lessico, infatti,
è laspetto più convenzionale della lingua e quello più
presente, più consapevolmente presente, ai parlanti. Ma la significazione
della differenza sessuale passa anche attraverso i livelli più strutturali
della lingua, la morfologia e la sintassi. È a questi livelli che si esercita
maggiormente la forza costringente della lingua sul nostro pensiero e, al tempo
stesso, si moltiplicano gli errori, i famosi errori di grammatica. Si moltiplicano,
cioè, i tentativi spontanei di innovazione linguistica che restano senza
sbocco o per difetto di significatività interna o per mancanza di consenso
nella comunità dei parlanti. La polemica sul rapporto fra generi grammaticali
e generi sessuali, di cui abbiamo visto insieme un episodio, ci presenta alternative
secondo me troppo rigide. Fra la realtà che cambia e la lingua con la sua
plasticità, è possibile uno scambio molto più ricco. La sperimentazione
linguistica, la sregolatezza regolata che suggerisco (basandomi non sulle nostre
capacità ma sulle capacità di quella grande acrobata che è
la lingua), non avrebbe solo il vantaggio di valorizzare e quindi coltivare la
competenza dei, delle comuni parlanti, togliendo spazio agli autoritarismi di
ogni provenienza e dando coraggio alle maestre di scuola. Insieme a questo, verrebbe
in luce la posta in gioco e quindi il senso vero della polemica, così che
ciascuno, ciascuna possa prendere posizione, comè giusto che sia
possibile trattandosi della lingua che parliamo, che è bene comune, forse
il bene che abbiamo più comune. Nella
vita della lingua Ci agita e ci divide la rappresentazione della differenza
sessuale. Che si tratti di questo, lo possiamo ricavare anche da ciò che
Eco scrive in conclusione al suo intervento. Come portando un quarto argomento
ma per inciso, egli scrive: «Oltretutto, voler femminilizzare i nomi dei
ruoli a seconda del sesso, sembra un modo per sottolineare una differenza che
non deve riguardare la funzione». Non: sembra, ma è. Alma Sabatini,
io e alcune altre, infatti, vogliamo proprio dire che la differenza sessuale non
solo viene prima della funzione sociale e coesiste con tale funzione (come lo
stesso Eco sa bene, sebbene non voglia dirlo), ma anche che può diventare
principio di valore, autentico valore umano, per la funzione stessa, relativizzata
in senso non mortifero dalla dualità originaria di essere donna/uomo. Senza
prospettarsi questa posizione ma come intuendola e avversandola, Eco conclude
il suo pezzo sullEspresso in maniera piuttosto strana, con una battuta da
uomo messo in minoranza, fatta non per colpire la posizione avversaria ma il senso
comune. Giudicate voi. Scrive: «Il vigile non ha sesso, come non ce lhanno
né il semaforo né la striscia». Naturalmente
qui tutti insorgono, dal filosofo al vigile passando per il linguista e lasciando
Eco solo a far lamore con la striscia o con il semaforo. Eco in realtà
sta facendo lamore con la sua teoria e non è solo. La battuta finale,
comè evidente, rispecchia scherzosamente la sua concezione del rapporto
fra genere grammaticale e genere sessuale. Ho già detto che è una
concezione convenzionalistica e che non la condivido, senza poter argomentare
per ragioni di spazio. Rimando allultimo numero della rivista Inchiesta,
intitolato Sessi e generi linguistici, a cura di Luce Irigaray, e
specialmente a quello che vi scrive Patrizia Violi. Di mio aggiungo che una
concezione convenzionalistica del linguaggio verbale non è mai interamente
né definitivamente confutabile, per la semplice ragione che il linguaggio
verbale non è mai interamente né definitivamente confutabile, per
la semplice ragione che il linguaggio verbale è inclinato al convenzionalismo.
Ma non vi si riduce mai. Mai. Cè qualcosa, nella vita stessa della
lingua, che ci supera. Che ci intriga, ci agita, ci divide. Il contrasto,
dunque, è immanente alla lingua, alla sua vita, e i protagonisti di questa
polemica sono e devono restare coloro che della lingua hanno bisogno per capirsi
e capire il mondo. Così sono tornata al punto di partenza. La questione
della lingua è politica e ne sono protagoniste le donne.
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