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il manifesto
- 2 settembre 2003 «La politica, derubata dell'ideologia oggi così disprezzata, mi pare divenuta una pratica per professionisti, un vuoto a perdere, privo di una visione del mondo, qualcosa di lontanissimo da me». Così Bernardo Bertolucci, nella breve presentazione del suo The Dreamers nel catalogo della mostra del cinema di Venezia. Obietterei solo sull'uso della parola «ideologia», caricatasi nel corso del tempo di valenze così negative da perdere la sua comune radice con l'idealità e l'idealismo cui il regista allude. E infatti non è la potenza mobilitante dell'ideologia, come in Novecento, che Bertolucci mette al centro del suo nuovo e poeticissimo film, bensì quella più aurorale del sogno e del desiderio; restituendo così al Sessantotto l'eccedenza e lo scarto che ne fanno insieme l'ultimo atto del Novecento e qualcosa che dal Novecento già fuoriesce. Un punto di massima tensione in cui il secolo della grande politica volge al termine nelle sue premesse e si apre, o avrebbe dovuto aprirsi, ad altre promesse. Quali? Il film si annuncia controverso (ma «meno di quanto vorrei», annota il regista sulle prime reazioni), e si capisce perché. Chi si aspetta l'epopea del Sessantotto, la ricostruzione dei fatti e la riconferema delle interpretazioni, storcerà il naso perché nei Dreamers non c'è nulla di tutto questo, e c'è molto di più. Non c'è il Progetto rivoluzionario, non c'è l'unità operai e studenti, non c'è l'internazionalismo contro il Capitale. C'è il momento aurorale appunto, in cui tutto questo è ancora a venire, e una più grande «pulsione visionaria utopica» lo rende possibile, pensabile, fattibile. Corpo, politica, cinema, musica, sessualità, filosofia: erano questi gli ingredienti, elenca oggi il regista, di quel «focolaio magico» che preparò l'esplosione del Sessantotto nella vita pubblica come in quella privata. Desiderio erotico, desiderio di sapere, desiderio di esistenza uniti insieme, come i cattivi maestri di allora, da Lacan a Foucault a Deleuze, ripetevano e le cattive maestre non smettono di ripetere tutt'ora. Personale e politico indissolubilmente legati nel sogno della rivoluzione di tutto; la Storia che irrompe a liberare le vite con un sampietrino lanciato dalla strada dentro le finestre di casa. Altro che fallimento, polemizza Bertolucci con la sua stessa generazione che non riesce a restituire quel focolaio magico ai figli e ai nipoti: da allora niente è stato più come prima, non c'è diritto rivendicabile oggi che non sia piantato nella libertà che ci prendemmo, senza che nessuno ce la desse, allora. Errore politico imperdonabile è misurare il Sessantotto col metro contabile del potere (non) conquistato, invece che con la ricchezza imponderabile della libertà messa al mondo. «Sogno» è oggi una parola screditata quanto «ideologia». I sognatori non hanno i piedi per terra, non stringono, parlano d'altro, rompono le scatole con le loro utopie, sono la palla al piede della politica realista dei piccoli passi... The Dreamers dicono il contrario: solo il sogno ha la potenza di ricreare la realtà, di riscriverla dai dettagli, di fare scoccare dal «normale» andamento delle cose la scintilla di nuove circostanze. Senza sogno non c'è realtà; senza desiderio non c'è politica; senza rivoluzione dell'intimità non c'è trasformazione collettiva. Di più: senza estremismo della mente, senza apertura alla messa a rischio radicale di sé, non c'è spostamento: né grandi né piccoli passi. Solo una enorme pretesa, questa è la dedica di Bertolucci ai ventenni di oggi, ottiene e sedimenta risultati. Al di qua di questa enormità non si fa strada il realismo ma solo il conformismo: un grigio adattamento alla norma sociale sempre disponibile alle avventure autoritarie, come più di un protagonista di Venezia 2003, Margarethe Von Trotta in testa col suo magnificoRosenstrasse, non cessa di ricordare, ritornando sulle tragedie dei fascismi come su una insistenza dell'inconscio politico novecentesco sempre in agguato. Perché, anche su questo ha ragione Bertolucci, il tempo non è una linea, non va né avanti né indietro, un film sul passato è sempre un film sul presente, raccontare come siamo stati vuol dire mettere all'ordine del giorno come potremmo di nuovo essere. Nella sonnolenza del conformismo che è l'anticamera del fascismo, tanto nei regimi autoritari novecenteschi quanto in quelli massmediatici del Duemila, qualcuno può sempre ricominciare a sognare, rompere un vetro con un sasso e riaprire le danze, non con l'ultimo e disperato ma con il primo e spensierato tango. |