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Manifesto 4 gennaio 2012
Nuovi sguardi critici sul "silenzio"
di Lonzi Michele
Dantini Un
volume di saggi sulla studiosa femminista Tra isole e arcipelaghi, costellazioni
e famiglie, un modello di storia dell'arte deviante rispetto ai consueti paradigmi
accademici Il distacco di Carla Lonzi dalla critica d'arte, maturato all'indomani
della pubblicazione di Autoritratto , tra 1969 e 1970, pone problemi critici e
storiografici insieme. Come ricomporre, oggi, la biografia intellettuale di Lonzi
al di là delle cesure professionali? Quali rapporti congiungono in lei
critica d'arte e riflessione femminista? E ancora, con riferimento al "silenzio"
lonziano: come porsi in condizione di ascolto storiografico, così che il
diniego si veda restituire facoltà di parola? È convinzione comune
che questo stesso silenzio, per niente immemore, costituisca atto di dissenso
riguardo alla scena artistica e culturale italiana contemporanea, sia dunque sorretto
da argomenti fortemente polemici. Assistiamo da tempo al ritorno di interesse
per Lonzi, riconosciuta voce tra le più perspicaci del decennio Sessanta|Settanta.
Emerge, tra gli storici delle più giovani generazioni e gli artisti loro
coetanei, la necessità di muovere oltre le versioni ufficiali della storia
dell'arte contemporanea italiana, detenute come in monopolio dalle stesse persone
e ripetute con rare variazioni nei decenni. La raccolta di saggi Carla Lonzi:
una duplice radicalità (a cura di Lara Conte, Vinzia Fiorino e Vanessa
Martini, Ets 2011, pp. 176, euro 15) si inserisce nel dibattito attorno alla figura
della critica e teorica di Rivolta femminile introducendo elementi di novità.
Il rapporto tra Lonzi e Longhi, in primo luogo, ricostruito da Vanessa Martini
attraverso lo spoglio di corrispondenze inedite: un rapporto la cui importanza
appare maggiore via via che si acquisiscono nuove conoscenze e che risulta decisivo
ben oltre il piano metodologico. Allieva del grande storico dell'arte e sua protetta
tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, Lonzi entra in collisione
con Longhi per più motivi, di gusto e di politica culturale. La relazione
evolve in opposizione aperta e (attorno al 1970, al tempo del dibattito sulla
"critica acritica") spinge Lonzi a risolversi per una damnatio memoriae
che sarà carica di conseguenze. Longhi non apprezza il favore con cui l'ex
allieva guarda agli orientamenti informali e espressionistico-astratti e teme,
con qualche moralismo, che l'assidua collaborazione con Luciano Pistoi si risolva
per la giovane critica in subalternità al mercato. Lonzi trae verosimilmente
da Francesco Arcangeli incoraggiamento a una migliore comprensione dell'arte americana
contemporanea, riconosciuta senza difficoltà come "la più complessa
da qualche tempo". Arcangeli è tra i pochi, nell'Italia della seconda
metà degli anni Cinquanta e primi Sessanta, a non nutrire pregiudizio ideologico
per quanto accade a New York. Ma non è il solo critico della generazione
entre-deux-guerres a rivelarsi importante per Lonzi. Incontrato a Torino attraverso
Pistoi, Michel Tapié, critico e teorico dell' informel , rivela a Lonzi
una "personalità che ha vissuto l'avventura" e condivide "il
rischio degli artisti,... le stesse interne ragioni". La polemica antimodernista
è peraltro precoce: già nel 1962, in parte per convinzioni maturate
a fianco di Tapié e Pistoi, Lonzi rifiuta programmaticità e atteggiamenti
ex cathedra . Nel 1963 attacca pubblicamente Giulio Carlo Argan e in seguito appare
lambire dimensioni spiritualistiche che a Paolo Fossati, attorno al 1970, evocheranno
Elémire Zolla se non Cristina Campo. Le sue convinzioni profonde la tengono
certo distante dal discorso storico-critico egemone: e gli orientamenti né
laicistici né progressisti dell'attività di Lonzi, che sceglierà
per la copertina di Autoritratto l'immagine di santa Teresa di Lisieux nel ruolo
di Giovanna d'Arco in prigione, attendono di essere riconosciuti adeguatamente.
Tapié, sull'importanza della cui figura si sofferma Giorgina Bertolino,
sembra trasmetterle un modello di storia dell'arte deviante rispetto al paradigma
accademico. Artisti e opere si raggruppano per costellazioni. Orbitano ciascuno
attorno a stelle fisse assegnate loro dal fato, e non partecipano a una stessa
storia, né si espongono sul piano della pedagogia o degli insegnamenti
socialmente "utili". Famiglie, clan, antropologie, ontologie comunitarie,
isole e arcipelaghi: queste sono le unità storico-artistiche attorno a
cui Lonzi lavora, nella convinzione, per più versi beckettiana (e montaliana?),
del carattere derivato, ineffettivo della parola corrente, della "cultura"
in quanto dimensione pubblica, del negoziato sociale attorno ai "significati".
Possiamo aggiungere un ulteriore elemento al tema "antropologico". La
lettura di Modelli di cultura di Ruth Benedict, nel 1961, cade in un momento cruciale:
l'incontro con l'etnografia contemporanea segna il distacco dall'orizzonte storicistico
della formazione e l'avvio di un percorso segnato da rivendicazioni di discontinuità
e differenze radicali. Un'ultima considerazione sull'agenda filologica: quanto
rimane da fare o occorre fare, a parere di chi scrive, nell'ambito degli studi
lonziani. Appare evidente che Lonzi si riferisce a circostanze concrete, per lo
più connesse alla propria attività di critica d'arte, anche quando
appare produrre categorie. Potremmo considerare tutta la sua produzione, non solo
Taci anzi parla (1978), come un racconto a chiave: per scelta o temperamento Lonzi
preferisce rendere generale l'argomento polemico, che tuttavia sussiste. Chiarita
la finzionalità del genere "intervista" (è questo il tema
del saggio di Laura Iamurri), è dunque opportuno interrogare i testi per
attingerne nomi e circostanze storiche; e immaginare una storia dell'arte italiana
contemporanea condotta infine attraverso immagini, "in presenza delle opere",
non attraverso parole, "poetiche", manifesti. Stefano Chiodi accenna
alla necessità di muovere oltre l'accertamento specialistico (o le perifrasi
del testo lonziano) in direzione di una discussione critica. In questo stesso
senso, mi pare, si muove la ricerca di Lara Conte, in apparenza meticolosamente
documentaria. L'istanza lonziana della tabula rasa vale per ogni generazione:
il progetto (storico e storiografico) di "liberazione" rimanda pur sempre
a compiti di "dialettica" e "negazione".
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