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Manifesto 6 Novembre 2002 E' triste registrare che nella nostra epoca, come muoiono specie animali e vegetali, così anche molte lingue si estinguono o sono condannate alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una memoria, a essere abolita. Un universo di suoni e saperi si dilegua. Preservare, allora, le specie linguistiche - nonostante le migrazioni, le egemonie mercantili, le colonizzazioni mascherate - dovrebbe essere il primo compito di un'ecologia della cultura e del sapere. L'idea di una lingua unica perduta è solo un sogno: «un frivolo sogno» lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E anche l'idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di intendersi immediatamente, non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno che è in particolare d'ordine mercantile. Sia l'imposizione di una lingua sulle altre, sia il malriuscito progetto di una lingua convenzionale e artificiale vorrebbero abolire la lontananza togliendo a essa la sua profondità. Vorrebbero togliere alla diversità la sua stessa radice, e ridurre così la ricchezza del confronto e dello scambio. Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e distrutto le forme e l'energia inventiva delle lingue locali. Il controllo politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il dire. E tuttavia è più volte accaduto che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni irrorandole di nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua portoghese, inglese o francese, o nella letteratura nordamericana e in quella inglese. Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi, confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e memorie. Molti poeti e scrittori del `900 appartengono a una storia di migrazione tra le lingue: da Canetti a Celan, da Nabokov a Brodskij, da Singer a Rushdie, da Gombrowitz a Naipaul. Tra le diverse forme di scrittura, la poesia - per via del suo rapporto intimo e assoluto con il linguaggio - vive l'intero ventaglio delle questioni fin qui accennate. La prima lingua della poesia è la lingua materna, il dantesco «parlar materno». Una lingua abitata anzitutto dai silenzi che stanno all'ombra delle sillabe e nel cuore stesso delle vocali. Una lingua abitata da una voce: segreta tessitura che resisterà, sotto ogni futura pronuncia del poeta, come risonanza di un timbro, di una presenza. Hölderlin, a proposito della formazione del poeta, ricordava questa muta pedagogia materna. La lingua materna è, per l'in-fante, soprattutto lingua di vocali: dunque aerea, leggera, impalpabile. E le vocali sono per il poeta l'anima della lingua. Sono il nesso tra la lingua e il canto. Tra la poesia e il vento. L'elemento materno per il poeta è anche la terra. La terra considerata nel suo cerchio di necessità e bellezza: situarsi in questo cerchio, con lo sguardo e la passione di chi vuole conoscere e preservare, e non offendere o distruggere, è stato da sempre uno dei compiti della poesia. Nella lingua della poesia coesistono, dunque, la lingua materna - corporale, vocalica, leggera- e la lingua che il poeta ha scelto per la sua scrittura. Questa lingua scelta è sempre in certo senso straniera, anche quando essa è la lingua del proprio paese: è straniera in quanto altra dalla lingua materna. Per alcuni poeti, tuttavia, questa lingua è straniera in senso stretto: l'esilio, la migrazione, il dominio coloniale o mercantile, o qualche volta una scelta personale dislocano il poeta fuori dalla lingua della propria comunità d'appartenenza. Ma tutti i lettori di poesia sanno che c'è qualcosa che trascorre sotto la lingua dei versi, al di là della sua pronuncia e delle sue parole linguisticamente definite. C'è qualcosa che trascorre sotto la molteplicità delle lingue. Ed è questa sostanza nascosta sotto la lingua - senso e insieme oltresenso, musica e ritmo - che permette alla traduzione, quando riesca a essere una buona traduzione, di sperimentare una sorprendente e miracolosa contraddizione: togliere al poeta quello che ha di più proprio, cioè la sua lingua, e tuttavia riuscire a preservare l'energia e il timbro e la singolarità della sua poesia. Quel che qui si dice della poesia, certo, è in gran parte estensibile ad altre forme del fare letterario, come la narrazione e il teatro. Ma nella poesia questo movimento tra le lingue e questa sostanza che sottende ogni lingua appaiono in tutte le implicazioni - estetiche e antropologiche - e in modo trasparente. |