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il manifesto
- 8 gennaio 2004
Iran,
la ragazza che danzava tra i girasoli
Intervista con Tahmineh Milani, vincitrice al festival di Ginevra con
«La quinta reazione»
NICOLA FALCINELLA
GINEVRA
Non ha la popolarità internazionale della giovanissima Samira Makhmalbaf,
né è stata una apripista come Rakhshan Bani-Etemad. Tahmineh
Milani, nata nel 1960, laurea in architettura, cinque lungometraggi all'attivo,
è una delle più significative registe iraniane. I suoi film,
avversati in patria (la cineasta è stata pure imprigionata nel
2001) e di circolazione limitata all'estero - dove rare volte sono usciti
al di fuori dei circuiti festivalieri - raccontano sempre storie di donne
e sono denunce della condizione femminile nel suo paese. Il suo lavoro
più recente, La quinta reazione ha vinto la nona edizione di Cinema
Tout-Ecràn a Ginevra. È la vicenda di un'insegnante di Tehran
rimasta vedova che, secondo la tradizione, dovrebbe abbandonare la casa
e i figli al suocero. La donna trova la forza di ribellarsi e di intraprendere
una lunga fuga in compagnia di un'amica. Nella città svizzera abbiamo
incontrato Tahmineh Milani.
La scena
centrale del suo film simboleggia una illusione di libertà che
dura pochissimo. È d'accordo?
Fereshteh,
donna in fuga che si vede danzare tra i girasoli, è libera ma lo
è per pochi istanti. Poi sente l'arrivo del camion e subito il
suo pensiero ritorna al suocero che la insegue. Assapora appena uno stato
d'animo positivo e subito viene richiamata alla sua condizione difficile...
L'inizio
del film ha un tono da commedia ma volge al dramma quando entra in scena
uno dei mariti.
All'inizio
mostro cinque donne divertenti che sembrano spensierate e felici, si dicono
quanto amano i rispettivi mariti, quanto i loro uomini sono gentili e
generosi con loro. Quando nel locale dove stanno pranzando compare il
marito di una di loro in compagnia della segretaria e le ordina di andare
subito a casa, tutto cambia. Basta un niente e le loro vite reali escono
fuori. Di solito le donne iraniane non parlano di loro stesse, parlano
di tutto tranne rivelare la loro infelicità. Ho voluto mostrare
le due facce delle donne nella nostra società. In fondo sono tristi,
ma quando sono fuori indossano delle maschere e nascondono ciò
che le tormenta.
Quali
sono i problemi delle donne iraniane?
Le donne
non hanno tutte lo stesso tipo di problemi, anche se la maggior parte
sono riconducibili alla società patriarcale. Ad esempio non possono
divorziare, anche quando sarebbe necessario e lo desiderano, perché
la società le giudica. Il caso della mia protagonista Fereshteh
è diverso. Lei è una donna povera perché ha perso
il marito che amava e ora il suocero le vuole portare via il figlio. Il
suo non è un problema con il marito ma con una mentalità.
Tutto per lei crolla con la morte del suo uomo e la domanda da porsi è:
«perché»? Perché deve succedere questo a una
donna?.
Sta cambiando
qualcosa?
Le donne
iraniane sono rimaste in silenzio per molto tempo, solo ora cominciano
a farsi sentire e a protestare. Adesso sanno che possono cambiare le cose.
Il premio nobel a Shirin Ebadi è stata una notizia bellissima.
È un sostegno importante, un incentivo, ha reso le donne consapevoli
di essere forti, che qualcosa può cambiare. Io sono convinta che
cambierà molto.
Come avverrà
il cambiamento?
Il cambiamento
è lento, sarà lento. Non credo alle rivoluzioni, tutto va
fatto attraverso le riforme.
Eppure,
nel suo film precedente, «La metà nascosta», aveva
raccontato i guai di una giovane militante comunista poco dopo la rivoluzione
islamica nel `79.
Un anno dopo
la rivoluzione chiusero le università per quattro anni e uccisero
molti oppositori politici, soprattutto comunisti. Altri fuggirono in occidente
da rifugiati. Mi interessava raccontare quel periodo, ancora non capisco
perché li condannassero. Però è la mia generazione,
anch'io ero all'università all'epoca a studiare architettura, è
un periodo che conosco bene. È stata la nostra rivoluzione e abbiamo
pagato. Quelle uccisioni e quelle repressioni sono rimaste tabù,
il governo di allora non voleva che se ne parlasse.
Anche
negli ultimi mesi ci sono state proteste degli studenti. La voce di chi
chiede cambiamenti potrà essere soffocata a lungo?
Non si possono
più schermare le giovani generazioni. Sono collegate con tutto
il mondo, sono preparate, vogliono farsi sentire. Non è giusto
che non possano esprimersi. Ma la situazione ora è diversa, le
cose devono trasformarsi. Con gradualità, ma sono convinta che
ciò accadrà.
E la posizione
del presidente Khatami?
Khatami è
ok, non è forte abbastanza per riuscire a cambiare, ma può
andare bene...
Conosce
di persona il premio nobel Shirin Ebadi?
Conosco Shirin
Ebadi, è una persona fantastica. Ci sono due donne incredibili
in Iran, l'altra è Mehrangir Kar, che ora sta a Washington e ha
il marito in prigione nel nostro paese. Le ammiro molto perché
cercano di cambiare la situazione delle donne e dei bambini in Iran. Hanno
scritto libri e sono state in carcere più volte e a lungo. Io solo
una settimana.
L'ha colpita
questa esperienza?
No, mi sento
forte e l'incarcerazione mi ha irrobustita nelle mie convinzioni e nel
mio impegno.
Come sono
i suoi rapporti con le altre registe del suo paese?
Amo le altre
registe iraniane, ho ottimi rapporti con tutte loro. Abbiamo bisogno di
tante voci differenti. Io faccio film in maniera diversa, ma l'obiettivo
di tutte è lo stesso: vogliamo cambiare la situazione in Iran attraverso
il nostro lavoro.
Negli
ultimi anni alcuni registi iraniani, penso a Jafar Panahi, hanno cominciato
a fare film sulle donne...
Sì,
qualche regista ha fatto film sulla condizione femminile in Iran. È
un buon segno ma non è una tendenza, l'ultimo film di Panahi, Sangue
e oro, non parla di donne ma di uomini. Il cerchio mi era piaciuto ma
ciascuno fa i film sui temi che gli interessano. Qualcuno sulla guerra,
o sui bambini poveri oppure su altri problemi della società. A
me premono i diritti delle donne e racconto storie su di loro. Sono lo
spunto di tutto il mio cinema.
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