Libreria delle donne di Milano
Il Manifesto 8 gennaio 2010

Se il desiderio rompe gli argini
Paolo Godani

Non dev'essere un caso che la discussione avviata nelle ultime settimane sulle pagine del manifesto attorno alle tesi di Massimo Recalcati si sia intrecciata con l'esplosione della contestazione studentesca. Mentre, seguendo le tesi de L'uomo senza inconscio, si era portati a constatare il penoso eclissarsi del desiderio nelle nostre società, la realtà (quella stessa realtà a cui si riferisce Giuseppe De Rita nel suo dialogo con lo psicoanalista, sul manifesto del 4 gennaio) ci ha posto di fronte all'esistenza di un paio di generazioni determinate a riprendersi il futuro. Mentre leggiamo un'analisi che ci descrive come soggetti piegati al «discorso del capitalista» e al suo imperativo a godere, vediamo studenti e ricercatori che da qualche tempo salgono sui tetti, marciano per le strade, accerchiano i parlamenti e forse iniziano a far tremare persino le poltrone girevoli dei loro professori. Da dove viene questa discrepanza tra ciò che leggiamo e ciò che vediamo?
Leggendo una certa interpretazione della società contemporanea nella letteratura lacaniana - ivi compreso il filosofo Slavoj Zizek - si ha l'impressione che la ragione di tale discrepanza risieda in una sorta di rancore postumo contro le cosiddette «ideologie della liberazione» e le pratiche anti-autoritarie caratteristiche degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. L'idea di fondo è quella di identificare le pratiche e i discorsi di liberazione (sessuale, politica e sociale) con il «discorso del capitalista», per mostrare o come il trionfo del secondo sia il frutto delle prime o come le prime siano comunque colluse con il secondo - il tutto condito con una malcelata nostalgia verso la sussistenza di un Ideale capace di fondare e indirizzare i desideri delle masse. Secondo questa logica, infatti, per non lasciare che il desiderio si spenga e lasci il posto alla bulimia del puro godimento immediato è necessario che sussista un Ideale sociale (quello vagheggiato da Recalcati pare vesta i panni austeri della Dc di De Gasperi o del Pci di Berlinguer). Scomparso l'Ideale, il nostro Super-io, anziché spingerci alla rinuncia funzionale al rilancio del desiderio, ci spingerebbe a null'altro che a godere, cosicché, per dirlo con Lacan, noi cederemmo sul nostro desiderio.
In tal modo, si lascia supporre che cedere o meno sul proprio desiderio sia una questione di buona o cattiva volontà, una questione morale. E invece si tratta precisamente di una questione politica - come suggerisce De Rita quando, nel dialogo sopra citato, scrive: «è la dura realtà occupazionale attuale e/o futura che porta i nostri giovani manifestanti a non poter desiderare». Certo, il desiderio può girare a vuoto, può finire nella melma del mero godimento consumistico o persino nel buco nero della droga, dell'alcool, della depressione. Ma questo non capita perché al desiderio manchi l'autorità di un Super-io sociale, bensì perché le tecnologie sociali capitalistiche costringono il desiderio in quelle paludi o in quei buchi neri. Spiace dire cose tanto banali, ma nelle nostre società o si desidera secondo protocolli prestabiliti, che conducono spesso ad accontentarsi di un'esistenza impotente, oppure si rischia di finire in una solitudine popolata solo da allucinazioni e fantasmi. Forse, i sintomi contemporanei, più che di un fantomatico imperativo a godere, sono gli effetti di una precisa gestione della vita comune, che implica il taglio di ogni possibile investimento sociale del proprio desiderio.
Il tumulto giovanile delle settimane scorse non è l'ennesima conferma di un mondo senza padri o senza «testimonianze», né l'espressione informe di una disperazione sociale,ma il segnale che molti, giovanissimi e non, hanno la voglia e la forza di resistere al discorso e alle regole effettive del capitalista. La rivolta non è solo il segno di una mancanza, ma anche la rivelazione di una potenza sociale del desiderio, deciso a rompere gli argini nei quali è costretto, e a fuggire quello che un momento prima poteva apparire come un destino di solitaria impotenza. Che le ragioni di questa rivolta siano specifiche, legate a una «riforma» universitaria, è precisamente il sintomo che si tratta di una sollevazione niente affatto «nichilista», bensì attiva e produttiva, spinta non solo e non tanto dal disperato godimento della distruzione, bensì da un desiderio lucido, quello di chi ha già iniziato a costruire il proprio mondo. Che questo poi implichi la necessità di riappropriarsi della propria forza, di neutralizzare la paura e di non fermarsi di fronte alle camionette o ai draghi di fuoco, è un'ovvietà su cui non è neppure il caso di soffermarsi.
*Università di Pisa