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manifesto - 9 Gennaio 2011 RISCOPERTE I
versi rotti e sfrontati di Gabriela Mistral Una nuova antologia
della poetessa cilena Fabio Bozzato
Nella sua poesia
Vieja, Gabriela Mistral racconta di una donna vecchissima e stanca di vivere.
Lei le si stende vicina, «appiccicata alla sua guancia e al suo orecchio»
e le parla della morte, fino a che «spalanchi la bocca e se la beva».
Un gesto da sacerdotessa che German Carrasco, uno dei maggiori poeti cileni, ha
definito di «erotismo pietoso». A lungo ingessate in una sorta di
innocua pastorale, le liriche della poetessa cilena vengono oggi rilette come
un crepitio spiazzante di ombre e di corpi. A riscoprire questo lato oscuro e
liberatorio, riproponendo la sua opera in Italia (dove la Mistral non ha mai avuto
la fama che le è dovuta) è la casa editrice Marcos y Marcos, che
ha di recente fatto uscire l'antologia Canto che amavi, nella traduzione di Matteo
Lefèvre. Origini basche ed ebree, portava all'anagrafe un nome già
evocativo: Lucila de Maria del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga. L'altro nome,
con cui è nota, univa i due poeti che amava, Gabriele D'Annunzio e Federico
Mistral. Nata a Vicuña, nella stralunata Valle del Elqui, nel 1889, autodidatta,
cominciò a quattordici anni a lavorare come assistente in una scuola. E
intanto scriveva. Venne notata nel 1914, e i suoi versi finirono per incantare
gli accademici svedesi. Era il 1945. Fu la prima donna latinoamericana a vincere
il Nobel. Intanto, con il suo paese cominciava una relazione di amore e odio.
Le sue liriche erano il rumore delle vene popolari; la sua figura austera e inacciuffabile
ha sempre asusta'o, come si dice in Cile, cioè inquietato e ammutolito.
Da nord a sud, ma anche in alto e in basso della geografia sociale, in un paese
che sa essere crudele e compassionevole e si sente sempre abbandonato e spesso
superbo. Le élite cilene, colte e cuicas, cioè ricche e snob,
non hanno mai amato la Mistral; la osservano anche oggi di sbieco per la sua mancata
formazione accademica, per la libertà sfrontata della sua grammatica poetica.
Il mondo politico ha usato la sua fama, per riflettersi sul lucido dei suoi premi,
ammiccando alla propria vanità e intanto armando per lei una sorta di esilio
diplomatico. La Mistral accettò l'incarico di console e finì per
rappresentare un paese che non la rappresentava. Quando nel '54 tornò in
Cile, fu acclamata da folle enormi. Ma preferì ripartire, e passò
gli ultimi tre anni della sua vita in una casa di campagna alle porte di New York.
L'antologia della Marcos y Marcos arriva in un momento in cui si torna a discutere
della poetessa. Solo qualche mese fa la Real Academia Española le ha reso
omaggio con una nuova antologia, En verso y prosa. Eppure in Cile è più
evocata che studiata, e sono in molti a definirla rara. Poco comune, non solo
per il suo genio letterario, ma anche perché davvero strana, queer diremmo,
con un'aperta allusione sessuale: di lei si è voluto riprodurre solo l'icona
della maestra abnegata, di poetessa bucolica e zitella asessuata («vergine
e madre», l'aveva descritta una voce dell'aristocrazia letteraria cilena,
Pedro Prado), ma era soltanto una manipolazione agiografica, come ha suggerito
la portoricana Licia Fiol-Matta, per anestetizzare la radicale sfida del suo essere
lesbica e il grado di cesura della sua scrittura. «A queer mother of the
nation», l'ha infatti definita (1988, Kindle Edition). È di un
anno fa l'uscita in Cile (e lo scorso giugno anche in Spagna, sempre per Random
House Mondadori) di Niña errante, il lungo e splendido carteggio dal '48
al '56, tra la Mistral e Doris Dana, sua collaboratrice, complice e amore profondo.
Fu Dana a conservare il carteggio fino alla sua morte, avvenuta nel 2006. Aveva
lasciato alla nipote, Doris Atkinson, l'incarico di consegnare i documenti allo
Stato cileno. Sono stati tre anni di «lavoro enorme», ricorda Pedro
Pablo Zegers, uno dei più importanti studiosi mistraliani. Nel suo ufficio,
alla Biblioteca Nacional di Santiago, racconta come abbia proceduto «prima
di tutto alla trascrizione delle lettere, scritte a matita, a volte quasi sbiadite,
che a fatica si leggevano». Doris Dana ne teneva una chiusa in cassaforte:
è una delle più belle lettere d'amore che siano mai state scritte. Il
libro ha rotto il silenzio su quel rara che tutti ripetono piano, suscitando scandalo
e dibattito, anche se sempre sottovoce, com'è di abitudine in Cile. Dice
Zegers: «Il testo fa emergere una versione più umana della Mistral,
reale, palpabile». Ma cos'è che non le viene perdonato? «È
come se la si accusasse di aver abbandonato il Paese. Un paradosso. Non solo perché
lo ha rappresentato per tanto tempo all'estero. Gli ha pure dedicato il suo Poema
de Chile, uscito postumo nel 1967». Carrasco, autore tra l'altro della
raccolta L'insidia del sole sopra le cose e altri versi (da poco tradotta in italiano
da Edoardo Balletta per Raffaelli Editore), commenta: «In Gabriela c'è
un'ode al silenzio. In due poemi, La flor del aire e La copa, si scusa per non
essere degna dell'ascolto degli dei, dice che la poesia è un processo per
raggiungere quell'orecchio divino. Ci dice: lavoro con materiali ovviamente non
nobili, però sono cosciente che la poesia aspira al silenzio». Per
Carrasco la figura della Mistral è una vivente provocazione linguistica
e epistemologica: «Adoro la sua scrittura rotta, cilenissima, di difficile
traduzione, a-connettiva, a-grammaticale, il suo linguaggio tutto americano, tagliato
di fronte all'immensità del paesaggio o della bellezza o della desolazione».
E nella nuova edizione della raccolta Tala, appena uscita in Cile per le Ediciones
Universidad Diego Portales, ricorda le parole della poetessa: «Anche se
risulta amara e dura, la poesia che faccio mi lava della polvere del mondo e non
so fino a che viltà essenziale assomigli quello che chiamiamo peccato originale».
Sottolinea Carrasco: «Lei parla di un peccato stampato fuori dal corpo del
poeta, che resta come una macchia sulla pagina». Come una voce privata
della coscienza pubblica, con quella macchia fu anche un'attenta cronista. Dice
Zegers: «Il suo sguardo curioso e critico le permise di vedere molto lontano.
Gabriela è anche la difensora dei diritti umani, delle etnie nazionali,
parlava di panamericanismo quasi cinquant'anni prima, lavorò sulla dichiarazione
dei diritti dei bambini all'Onu». Profondamente antifascista, era sospettosa
del comunismo: «Tutti i suoi migliori amici, come Eduardo Frei, Bernardo
Leiton, Valdo Tomich, erano della Democrazia Cristiana. Chiese anche di iscriversi,
ma proprio loro le dissero che così avrebbe rischiato di perdere la sua
indipendenza come intellettuale. Altri tempi. Quando le chiesero come si definisse
politicamente, disse: sono una socialista a modo mio, una umanista, con lo sguardo
verso i poveri, i deboli». Seguendo preoccupata la campagna elettorale
del Cile nel 1952, in una lettera a Doris Dana, confessò: «C'è
un candidato comunista che, disgraziatamente, è la persona migliore tra
i tre». Era Salvador Allende. |