Libreria delle donne di Milano

Il manifesto - 9 aprile 2008

storie
Le materie prime dei tubi Dalmine
Dentro l'acciaieria. Scatti di Paola Mattioli sui big bang e sul lavoro "invisibile"
Il fuoco, il ferro, gli "scoppi" di luce, i corpi dei lavoratori di ieri e di oggi alla Dalmine. Nelle fotografie di Paola Mattioli. Corredate da una ricerca della Fiom sulla company town alle porte di Bergamo. Dal paternalismo cattolico alla rottura dell'autunno caldo

Manuela Cartosio

Scattate nel 2006, prima che la strage alla ThyssenKrupp ci ricordasse che le acciaierie esistono ancora, le fotografie di Paola Mattioli ci portano dentro la Tenaris Dalmine. Due i protagonisti. Da una parte, il fuoco, gli "scoppi" di luce e scintille innescati nei forni dalla scarica degli elettrodi che genera la fusione. Dall'altra, i lavoratori di oggi e di ieri messi in posa tra lingotti, attrezzi e tubi d'acciaio senza saldatura, specialità di una fabbrica che da poco ha compiuto cento anni.
In un secolo non breve la Dalmine ha creato una company town, ha mescolato bergamaschi delle valli e della bassa, ha tenuto fuori i meridionali ma ha dovuto cedere agli immigrati di colore, è stata presidiata fin oltre l'autunno caldo dalla Chiesa (si entrava solo con la raccomandazione del parroco), fino all'altro ieri è stata la roccaforte del sindacalismo cattolico. La Fiom, che solo di recente ha sorpassato la Fim nelle elezioni delle Rsu, ha dedicato una ricerca a più mani alla Dalmine, passata nel 1996 dalla siderurgia pubblica all'argentina Tenaris. Le fotografie di Paola Mattioli, corredate da testi di Francesco Garibaldo, Carolina Lussana, Maria Grazia Meriggi, Francesca Pasini, Emilio Rebecchi, Roberta Valtorta, Eugenia Valtulina, sono pubblicate ora in un catalogo Skira.
Dalmine è stato presentato la scorsa settimana a Bergamo. "Guardando queste fotografie si sente il rumore della fabbrica, si sentisse anche l'odore sarebbe il massimo", ha detto in quell'occasione Martino Signori, che da segretario della Fiom diede avvio alla ricerca conclusa dal suo successore Mirco Rota. E' il rumore degli "scoppi", come li chiama Paola Mattioli, "registrati" dall'obiettivo puntato su un forno prima e dopo la scarica elettrica. Nella semioscurità, la prima immagine del dittico. In tutte le gradazioni incandescenti del giallo e dell'arancio, la seconda: fontane di lapilli come fuochi artificiali, barre di acciaio che mordono lo spazio.
Per chi fosse duro d'orecchi o non avesse mai messo piede in un'acciaieria, e noi siamo tra quelli, è venuto in aiuto il sonoro registrato da Daniela Padoan in sincronia con gli scatti (peccato non sia allegato al catalogo). Un sibilo che cresce, poi uno squotimento tellurico, un rimbombo che resta oltre la vampa. Alla Dalmine succede ogni 45 minuti nel forno "grande", e solo da una decina d'anni gli operai si riparano da questa finedimondo riparandosi dentro delle cabine. Si aggiungano altri "scoppi" nei forni "piccoli", fragori e clangori continui. Ecco perchè quasi tutti i lavoratori ritratti hanno le "cuffie".
In un mondo completamente maschile (in tutti i sensi) spicca il ritratto di un'operaia, in rappresentanza delle tredici mosche bianche che alla Dalmine lavorano con il ferro e col fuoco (le donne sono tantissime negli uffici).
La collanina, il tatuaggio, i riccioloni afro, gli auricolari dell'ipod sono i "segni" delle tute blu di oggi. Contrastano con la camicia bianca, la giacca elegante - il distintivo della Cgil all'occhiello - sfoggiate dai pensionati tornati in fabbrica per mettersi in posa davanti all'obiettivo di Paola Mattioli. Ma da una generazione all'altra corre lo stesso sguardo dignitoso e, ci pare, quasi orgoglioso. Una lunga durata che torna nelle immagini di attrezzi, ferri del mestiere, armadietti, caschetti che sembrano vecchissimi.
Quello di Paola Mattioli non è un reportage di sociologia del lavoro. Nei ritratti, rigorosamente in bianco e nero, la messa in posa dichiara un'intenzione che supera il perimetro della documentazione realistica. Il montaggio, la successione delle immagini, ha l'ambizione della narrazione, della ricerca di un senso del lavoro, del punto d'incontro tra individialità e dimensione collettiva che, hanno detto sia la storica Maria Grazia Meriggi sia il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, è sempre "costruita", non deriva dal semplice lavorare nello stesso luogo o nel vivere nello stesso paese. Una dimensione collettiva, è quasi ridondante ricordarlo, che dopo gli anni Settanta si è slabbrata ed è svaporata. O che in questo pezzo di Nord ha assunto le forme politicamenete scorrette del leghismo e della xenofobia.
Le foto di Paola Mattioli non fanno l'apologia dell'operaio di oggi, ma non sono neppure un ricordo nostalgico dell'operaio di ieri. Dalmine chiude una ricerca dedicata alle company towns. Soggetto della tappa precedente era stato Fabbrico, in Emilia, sede della Landini, che produce trattori. Territorio rosso in questo caso, bianchissimo per la bergamasca Dalmine. Dove, negli anni Sessanta, abitavano in 14 mila e 8 mila lavoravano nell'acciaieria. Allora "giravi per strada e sembrava di stare nei corridoi della fabbrica", l'azienda "ti arrivava fino in camera da letto". Ora i residenti sono 24 mila e la fabbrica dà lavoro a 2.400 persone. Aggiungendo gli altri quattro siti italiani della Tenaris Dalmine si arriva a 3 mila dipendenti che nel 2007 hanno prodotto 950 mila tonnellate di tubi.
Ai lettori più giovani ci piace ricordare che Bergamo, e quindi la Dalmine, sono stati una delle culle del manifesto, sia come giornale che come gruppo politico. E' con riconoscenza che salutiamo qui Pasquale Poma, morto l'anno scorso. Con il suo volto nobile da operaio-intellettuale è uno dei pensionati della Dalmine ritratti da Paola Mattioli. Dobbiamo a Eugenia Valtulina, direttrice della biblioteca della Cgil di Bergamo, questo aneddoto. Primi anni Settanta, riunione del gruppo del manifesto con relazione fiume di Lucio Magri sulla situazione internazionale e i nostri compiti. Dopo due ore di parole e nella foschia di duemila sigarette prende la parola Pasquale Poma: "Caro Lucio, premesso che laurà l'è fadiga, tutto il resto si può discutere".