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il Manifesto
- 10 aprile 2012
Una comunista
che sapeva ridere
Luciana Castellina
Lea
Miriam Mafai è morta ieri e mi sembra impossibile perché
era giovanissima, nello spirito, nella vitalità, perfino nell'aspetto,
con quei suoi capelli corti e neri che eludevano l'età. Invece
era perfino un po' più vecchia di me, e dunque, come me, "era
di leva".
Miriam faceva
parte di quel gruppo di donne che per via di qualche anno in più
quando la mia generazione si iscrisse al Pci, alla fine del '47, erano
già "grandi". Grandi non solo di età, ma perché
erano già grandi figure nel partito, che avevano già grandi
responsabilità e facevano grandi cose ed erano perciò per
noi l'esempio di quanto avremmo dovuto fare anche noi, di come avremmo
dovuto diventare. L'ho seguita con rispetto e quando mi è capitato
di incontrarla, intimidita, non ho avuto il coraggio di scambiare con
lei più di qualche parola. Era a capo dell'Unione delle donne marsicane,
dirigente di una delle lotte straordinarie di quegli anni, quella per
strappare ai principi Torlonia il lago del Fucino.
Più
tardi, in trasferta a Pescara per non so quale iniziativa dell'Fgci in
cui militavo, la ritrovai, adesso moglie di Umberto Scalia, segretario
regionale dell'Abruzzo, uno dei quadri contadini che allora capitava spesso
diventassero dirigenti politici di primo piano. Miriam, a Pescara, aveva
continuato il suo impegno ed era, ricordo, consigliere comunale della
città. Fui collocata a dormire a casa sua - gli alberghi, all'epoca,
ci erano quasi sconosciuti - e in una lunga serata di chiacchiere a briglia
sciolta scoprii che c'era anche un'altra Miriam.
Scoprii,
intanto, che era figlia di un grande pittore che amavo molto, Mario Mafai.
E anche di Antonietta Raphael, la scultrice venuta dall'estremo est europeo
carica del fantasioso immaginario delle avanguardie russe. Miriam era
cresciuta nell'ambiente bohème degli intellettuali antifascisti,
poi conquistati dal comunismo: che avesse scelto la milizia politica era
allora naturale, la politica era, in quegli anni, intessuta di cultura;
e viceversa.
E questo dava, all'una e all'altra, una ricchezza particolare cui l'intera
famiglia Mafai dava un grande contributo.
Il Pci aveva fatto anche questo miracolo. Non il Pci, allora si diceva
semplicemente "il partito"; e lo ricordo perché una notte
in un vagone a cuccette non so di quale treno ci trovammo senza saperlo
nello stesso scompartimento, io sopra che parlavo con un altro e dicevamo
sempre "il partito" e, da sotto, ad un certo punto, sentii una
fragorosa risata. Era Miriam che ci interruppe per dirci: "Siete
del Pci, naturalmente, perché solo noi diciamo il partito".
Poi Miriam
cambiò vita perché erano anche cambiati i tempi e in tanti
fummo impegnati in altri campi: ambedue nel giornalismo. Lei, da Parigi
- perché il suo compagno era stato inviato lì per qualche
anno - cominciò a scrivere per la gloriosa Vie Nuove, il settimanale
per cui continuò a lungo a lavorare prima di diventare direttrice
di Noi Donne (ci siamo molto incrociate: io sono stata sua redattrice,
e lei ha scritto spesso per Nuova Generazione, che io dirigevo). Più
tardi passò a Repubblica di cui divenne una delle figure più
illustri.
Quando, per via della radiazione, i rapporti con tanti compagni "del
partito" divennero difficili anche sul piano umano, con Miriam continuammo
ad essere amiche: era laica ed aperta, non si sarebbe sognata una rottura
per il fatto che eravamo diversamente comuniste.
Non fu facile in quei tempi tesi, tanto più perché lei era
nel frattempo diventata la compagna di Giancarlo Pajetta, che verso noi
de il manifesto aveva conservato uno speciale rancore. Ricordo l'imbarazzo,
a il Cairo, dove ambedue eravamo volate assieme da Beirut da dove scrivevamo
del "Settembre Nero" (io per la Rivista) - era il 1970 - e Nasser
morì improvvisamente.
Nella capitale egiziana, dove le cerimonie funebri, seguite da milioni
di egiziani piangenti, durarono parecchi giorni io e Miriam, appartenenti
a due giornali poveri, avevamo preso una stanza assieme. Da cui dovetti
fuggire come un'amante clandestina quando, inaspettato, arrivò
Pajetta a capo della delegazione del Pci alle esequie.
Finì anche questa fase e in un modo curioso. Un giorno, era il
'79, in redazione non trovavamo la notizia adatta su cui uscire. Capita,
come si sa.
Finché venne l'idea, azzardata allora, di far scrivere il responsabile
internazionale del Pci sulla neonata unione di gauche costruita in Francia
fra Psf e Pcf. Si trattava proprio di Giancarlo Pajetta.
Fino ad allora nessun dirigente del Pci aveva scritto su il manifesto,
come chiedere di farlo proprio a lui? Incaricammo della telefonata Franz
Koeffler, il nostro compagno sudtirolese che allora dirigeva il desk degli
esteri al giornale. Dopo un po' Franz torna mortificato dicendo che Pajetta
voleva parlare con me. "Dopo tanti anni mi fai telefonare proprio
da un tedesco?" Mi investe. "E dovrei essere il primo a scrivere
su il manifesto? E poi, dove dovremmo incontrarci per l'intervista, certo
non tu a Botteghe Oscure, tanto meno io al manifesto". Poi, dopo
un attimo di esitazione, dice: "Beh, forse adesso viene buona l'amicizia
tra te e Miriam. Ci facciamo invitare a pranzo da lei".
E così quell'amicizia mai interrotta ridivenne pubblica.
Poi, poi accaddero tante cose, prima di tutto lo scioglimento de "il
partito". Che abbiamo vissuto in modo diverso. Sempre con amicizia
e reciproca simpatia.
Ci divertivamo molto insieme perché la qualità più
alta di Miriam, fra molte altre, era di essere straordinariamente simpatica.
Ciao Miriam.
Ai familiari di Miriam Mafai e alla nostra compagna Giovanna Pajetta,
che molto le era legata, l'abbraccio di tutto il collettivo del manifesto.
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